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Rosario Di
Lello
La caccia sul Matese tra storia e tradizione - (3)
L’Ottocento fu secolo di sconvolgimenti politici
e sociali ricorrenti che incisero, in vario modo e in diversa misura,
sull’attività venatoria.
Nel Marzo del 1806, dopo che la Corte borbonica
minacciata dall’esercito francese s’era rifugiata in Sicilia, sul
trono di Napoli era salito Giuseppe Bonaparte. Il 15 Luglio 1808, al Bonaparte
succedva Gioacchino Murat. La politica francese promosse numerose riforme,
tuttavia non risolse la crisi industriale, commerciale ed economica
ingravescente e, con essa, la disoccupazione, l’indigenza ed il malcontento
popolare. Nel contesto di movimenti insurrezionali di più vasta portata,
finalizzati alla restaurazione borbonica, pure sul Matese dilagò la guerriglia[1]
e numerosi pastori, contadini e carbonai, cacciatori in tempo di pace, si
convertirono in briganti e, fino al 1815, tormentarono il territorio.
La riduzione del numero dei cacciatori autorizzati e
il declino dell’esercizio venatorio rispecchiavano analoga situazione
diffusa nelle province di Terra di Lavoro e di Molise.
Rispetto agli anni che avevano preceduto “le
combustioni politiche, allorché (…) il numero delle licenze era
grandissimo”, nel decennio francese, i cacciatori registrati, in Terra di
Lavoro non superavano le 2000 unità. Altri erano privi della licenza o perché
svolgevano compiti di pubblica sicurezza e di sorveglianza pubblica e privata,
o perché vivevano in siti remoti dove potevano eludere i controlli della
gendarmeria, o perché non avevano le qualità richieste dalla legge, o perché
non si trovavano nella condizione di pagare il diritto di concessione –
salito, intanto, a 20 carlini – e preferivano, piuttosto, esporsi al
pericolo di arresto per porto abusivo d’arma da fuoco; questi armati non
eccedevano il migliaio. In Molise, il numero dei cacciatori regolari oscillava
intorno alle 570 unità[2].
La flessione dell’attività venatoria sul
Matese va riportata pure alla riduzione complessiva della selvaggina, alla
rarefazione di alcune specie e alla scomparsa di altre. La caccia e la
mutazione dell’habitat, indotta dai continui disboscamenti, imposti dalle
esigenze domestiche e industriali e dalla ricerca di terre vergini e sempre più
fertili[3],
avevano arrecato un danno incalcolabile al patrimonio faunistico del luogo.
L’evento ecologico si manifestò in tutta la sua drammatica consistenza, e
fu denunziato, nei circondari di Cusano[4]
e di Cerreto[5].
Scomparsi gli ultimi cervi e camosci, migrati i residui cinghiali sul Taburno[6],
diventati rari i lupo e rarissimi gli orsi, più non si praticò “alcun
metodo per distruggerli” e, per conseguenza, più non fu “alcun
pubblico uso o stabilimento per siffatte operazioni”. La scarsa
cacciagione no costituì più “oggetto di profitto” né di
“gusto e inclinazione” per la maggior parte dei cacciatori; i pochi
irriducibili si servivano soltanto di schioppi[7].
Nel quinquennio successivo al ritorno dei Borboni
sul trono di Napoli, venne perfezionata la regolamentazione della caccia.
Appassionato ed assiduo cacciatore fin dalla giovane età, Re Ferdinando I si
preoccupò, è vero, di ripristinare e tutelare le riserve reali e, tra esse,
quelle di Querciacupa, Montecalvo[8]
ed Alife[9],
in Terra di Lavoro, no mancò, tuttavia, di disciplinare, per i sudditi, i tempi
e i modi dell’esercizio venatorio[10]
e di proteggere la proprietà fondiaria privata, dall’intrusione dei
praticanti, attraverso il divieto di accesso “negli altrui fondi chiusi
da mura fabbricate o da mura a secco, da siepi, da fossati, da ripari di terra
che giung(e)vano a palmi cinque”[11].
L’attività venatoria segnò altra battuta
d’arresto, ancorché di breve durata, a causa dei moti carbonari del 1820.
Nel Luglio di quell’anno, il generale Guglielmo Pepe ed un gruppo di
ufficiali borbonici, sostenuti dall’esercito e da alcune “popolazioni
in armi”[12],
imposero al Re ed ottennero la Costituzione. Al fine, inoltre, di armare una
legione carbonara, i generali comandanti le divisioni militari e i comandanti
delle province furono sollecitati “a mettere in opera tutto il loro zelo
ed attività per eccitare il patriottismo dei cittadini (a cedere)
temporaneamente ai Legionari dei fucili di qualunque calibro conservandone uno
per proprio uso”[13].
Le autorità competenti, animate da “santo zelo”, curarono la più
ampia divulgazione della richiesta tra i Sotto Intendenti e tra i Sindaci; non
si sa in qual misura i cacciatori del Matese abbiano risposto alle dette
sollecitazioni “patriottiche”.
Deciso a ristabilire l’antico ordine, il
Sovrano invocò l’intervento dell’Austria. Il 7 Marzo 1821, a Rieti,
le forze austriache dispersero l’esercito dei rivoluzionari. Il 31, re
Ferdinando decretava il disarmo e ordinava:
I permessi di armi di qualunque natura rilasciati
precedentemente alla pubblicazione del suddetto decreto s’intendono
revocati e annullati.
Dall’indicato 31 Marzo ed in appresso saranno
unicamente rilasciati dalla Direzione Generale di Polizia i permessi
d’armi per lo solo uso di caccia, in favore di que’ Cittadini la
cui buona condotta morale, attaccamento all’ordine pubblico, e sistema di
vivere tranquillo, non meno che il non essere prevenuti di alcun reato fanno
considerarli meritevoli del godimento di un tal beneficio. Ogni altra Autorità
non può, né deve avere veruna facoltà di accordarli.
Le domande di detenere o asportare le armi da caccia
saranno presentate, per la Provincia di Napoli, a’ Commissari de’
Quartieri o agl’Ispettori Commissari de’ ripartimenti, e per le
altre Provincie di questi Reali dominij a’ rispettivi Intendenti.
Ciascuno per la sua parte ne trasmetterà alla Direzione Generale di Polizia gli
stati colle convenienti osservazioni sul conto de’ petizionari, e
coll’analogo parere.
La medesima Direzione Generale in vista di questi
stati deciderà sul rilascio di tali permessi, che conterranno pure la
descrizione de’ fucili che il petizionario potrà detenere, ed il loro
numero non più oltre di due.
Gli individui che appartengono o abbiano appartenuto
alla Guardia di Sicurezza, ed alle Milizie Provinciali han bisogno del permesso
della Direzione Generale di Polizia, per non essere considerati contravventori.
Guardacaccia Ordinari ed estraordinari delle Reali
riserve, i guardaboschi e i guardiani rurali oltre della patente di nomina
della propria amministrazione per l’esercizio dell’impiego, che
occupano, debbono pure andar muniti del permesso d’armi.
Gli uomini addetti al servizio della polizia nella
Provincia di Napoli da ordinarij, ovvero da estraordinarij non saranno
considerati come tali se detenendo o asportando il fucile per uso del loro
disimpegno, non siano provveduti del corrispondente viglietto della Direzione
Generale di Polizia.
Gli individui appartenenti alla forza attiva
Doganale faranno uso delle armi del proprio corpo, allorché sono in servizio.
Essi non potranno conservare in casa alcun’arma senza il dovuto
permesso”.
Gli intendenti trasmisero ai Sindaci copia del
decreto.
Le restrizioni imposte alla “libertà della
caccia” avevano, intanto, favorito il ripopolamento spontaneo di alcune
specie: lepri e volpi si erano moltiplicate, era ritornato il cinghiale e
ricomparso il camoscio, i lupi si spingevano numerosi ad assalire armenti e
stalle isolate[14]. Non
ritornò l’orso: era scomparso per sempre.
La normativa che regolava la concessione dei
permessi di detenzione e porto d’armo venne aggiornata nel 1858 a motivo,
probabilmente, della cospirazione dei comitati mazziniani e dei conseguenti
conati insurrezionali. “Fermi rimanendo i regolamenti in riguardi”,
si sarebbe dato corso alla domanda per l’esercizio del 1858 soltanto se
con la stessa fossero stati presentiti: atto di nascita del richiedente,
contestante l’età di anni venti compiuti; fedi di perquisizioni negative
del Giudicato Regio del Circondario e della Gran Corte Criminale della
provincia; certificato del Parroco e del Sindaco, rilasciati gratis, attestanti
che il richiedente era immune da reati, di sana morale e di regolare condotta.
Per coloro i quali avevano ottenuto il permesso d’armi
nell’esercizio 1857 e ne chiedevano il rinnovo, era sufficiente esibire
la sola domanda in carta da bollo con la indicazione dell’età, nome del
genitore, patria e condizione del richiedente, corredata del permesso
d’armi già ricevuto e della corrispondente licenza di caccia.
All’atto della presentazione della domanda, doveva depositarsi
nell’Intendenza il diritto di carlini due[15].
Per quanto concerne le armi da fuoco, i
ritrovamenti, ancora oggi non rari, inducono a credere che, sul Matese, i
fucili erano ormai quasi tutti a percussione: i nobili e i borghesi usavano
doppiette e monocanna “a luminello”, l’umile gente riciclava
“a luminello” i vecchi fucili “a pietra”. In effetto,
quel nuovo meccanismo, ingegnoso e funzionale, era stato ottenuto negli anni
1815-20 avvitando nel focone il “luminello”, piccolo cilindro
metallico forato e, pertanto, comunicante con la camera di scoppio. Semplice ne
era l’uso: dopo aver caricata la canna, il cacciatore
“cibava”, ossia empiva di polvere il luminello e quindi lo
occludeva con una capsula sul cui fondo era stratificato del fulminato di
mercurio; all’atto dello sparo la capsula, percossa dal cane a martello,
veniva schiacciata, il fulminato esplodeva e la fiamma si propagava alla carica
di canna.
Il decennio postunitario fu per la caccia periodo di
crisi. Garibaldi dal sud e l’esercito piemontese dal nord avevano invaso
il Regno di Napoli. La Capitale era stata occupata. Re Francesco II di Borbone
s’era arroccato in Gaeta per l’ultima disperata resistenza e aveva
chiamato i sudditi alla guerriglia. Le perturbazioni economiche, conseguenti ai
rivolgimenti politici, creavano profondo disagio che in maggior misura
coinvolgeva i ceti umili già provati dala miseria. “Il tacito malcontento
sfociò in proteste di elementi isolati. Sporadiche all’inizio e spontanee, vennero
(…) alimentate, orientate e utilizzate dalla parte borbonica. Il concorso
di popolo non si esaurì in più o meno violente manifestazioni di piazza ma, in
breve volger di tempo, dette luogo alla costituzione di agguerrite bande
armate” nelle quali erano confluiti, in prevalenza, contadini, pastori e
soldati del disciolto esercito borbonico[16].
Si entrava nella fase calda della guerriglia che avrebbe tormentato, per dieci
lunghi anni, le province meridionali.
Tra le forre del Matese si aggirarono, ma alla
ricerca di ben altra preda, bande di partigiani borbonici, in maggioranza
armati di fucili da caccia, pattuglie dell’esercito
“italiano” e squadriglie di guardie nazionali. Il massiccio, su
tutta la sua proiezione fu teatro delle loro gesta[17].
Queste, il divieto di accesso ai monti, il pericolo d’essere disarmati dai
briganti e la pena capitale a carico di coloro i quali fossero stati sorpresi
con le armi in pugno[18],
scoraggiarono il residuo numero dei cacciatori non ancora impegnato nella
guerriglia. Vi fu, tuttavia, chi in quegli anni richiese il porto d’armi[19],
probabilmente più per difesa personale che a motivo di autentica passione per
la caccia. Per ragioni di pubblica sicurezza, non a tutte le domande fu dato
corso[20].
La cattura di Alessandro Pace e degli ultimi suoi
gregari, in una grotta tra Pietraroja e Morcone, segnò, nell’Agosto del
1869, la fine del brigantaggio sul Matese. Con la lenta ripresa delle attività
agricola e pastorale e con la libera e sicura frequentazione del massiccio[21],
iniziava il ritorno all’attività venatoria.
Estinte alcune specie, altre erano diventate oggetto
d caccia. I cacciatori abbattevano lepri, martore, faine volpi, gatti selvatici
e puzzole, dette “pelusci”; prendevano i ricci con l’ausilio
dei cani da notte; non si curavano “dello storno, dello strillozzo,
fringuello, pica, passero, beccafico, laniere o paglionica” e delle
allodole; preferivano, piuttosto, tordi e merli, palombi e tortore, quaglie,
starne e pernici, beccacce e beccaccini, pivieri, vanelli e anatidi.
I “dilettanti” trovavano nella caccia
“innocente e salutare divertimento”; i contadini, sempre abili nel
maneggio delle armi, “dotati di una vista lincea e celeri nel moto, ne
forma(va)no oggetto di speculazione” nei giorni in cui non potendo
lavorare a causa delle avverse condizioni del tempo, cacciavano e vendevano la
selvaggina a compratori che, periodicamente, l’esportavano nella
capitale; gli agricoltori ed i pastori, infine, trovavano indispensabile
distruggere i volatili nocivi e di “rapina” e i quadrupedi
predatori[22].
Nel XIX secolo, si distinsero nell’arte balistica
i Ciarleglio, i Barbieri e Pietro Antonio Venditti, da Cerreto. Il Venditti,
nato nel 1828, ebbe vita avventurosa; espatriato in Torre Annunziata, prese a
costruire fucili e pistole a retrocarica. Regalò alcuni suoi pezzi a Re
Vittorio Emanuele, all’Imperatore di Russia al Principe ereditario di
Prussia e all’ambasciatore americano[23]”.
“Sul fenomeno del brigantaggio s’era,
intanto innestato un evento di non minore portata: l’emigrazione di fine
secolo, verso le Americhe. Dopo alcuni anni di lavoro, i più fortunati
ritornarono portando con sé armi americane, ed è così che spesso dalle nostre
parti, si ritrovano doppiette Hammerles, Winchester 96 a pompa, Winchester 66,
73, 92, 94, Remington, Sharp, ecc.”.
“Erano i primi semiautomatici, armi
eccezionali, armi da invidiare se si considera che la maggior parte dei
cacciatori locali, usava ancora la doppietta a luminello. Ancora oggi, a quasi
un secolo di distanza, i nostri vecchi, parlando di armi antiche dicono
“chigliu teneva nu’ reflu americanu che su partava ra
“merica” (in inglese, rifle = fucile)”[24].
Durante la prima metà del Novecento, giorno dopo
giorno, la caccia per svago con arma da fuoco ha conquistato maggiore
popolarità. Protagonisti, fianco a fianco, di non rare e tuttora decantate
battute, i ricchi hanno fatto mostra di doppiette a retrocarica e di cartucce
industriali, i non ricchi hanno ostentato, ad emulazione, antiche
“scoppette” a luminello o rielaborate a retrocarica da anonimi
artigiani del luogo ed hanno usato munizione spesso “fatta in casa”.
La polvere è stata prodotta rimestando in un mortaio, come da antico
procedimento, dosi variabili di polvere di zolfo, salnitro – ricavato
dallo stabbio – e carbone vegetale; la munizione spezzata è stata
ottenuta sminuzzando fili metallici o lasciando cadere, attraverso uno
schiumino o una padella forata sul fondo e in un recipiente contenente acque,
piombo fuso di vetuste condutture o di residuati bellici.
Quelle antiche armi e i relativi accessori
presentano, nelle parti duttili, decori di una qualche pretesa artistica, più o
meno sontuosi, commessi all’artigiano dall’acquirente o praticate
sull’oggetto dal proprietario o dall’estemporaneo armiere[25].
Il calcio dei fucili, in legno di noce, è decorato
con motivi astratti o geometrici, con elementi floreali a intaglio, con
sculture zoomorfe, di regola teste di cinghiali o di cigni. Lo stato di
conservazione è, spesso, mediocre ed il pezzo necessita soltanto di un modesto
intervento di pulitura e di lucidatura.
Le “fiasche portapolvere” sono state
prodotte lavorando corni, bovini e caprini. La loro forma si riduce a due tipi:
il modello conico segue la normale morfologia della materia, il modello
schiacciato è stato ottenuto plasmando la materia sopra forme di legno dopo
averla pulita dalla lamina interna e resa duttile attraverso bagni in acqua
bollente.
Le dimensioni variano in rapporto alla funzione: i
polverini grossi contenevano polveri di canna, i piccoli polvere da esca per il
luminello, “pizzetto”.
Le decorazioni interessano tutta la superficie dell’oggetto
o parte di essa; sono costituite da motivi naturalistici antropomorfi,
fitomorfi, zoomorfi, e/o astratti. La tecnica di lavorazione ha utilizzato, di
volta in volta, impressioni a fuoco, incisioni e intagli diversi per ampiezza e
profondità, bassorilievi più o meno aggettanti, sculture a tutto tondo.
Lo stato di conservazione è, quasi sempre, mediocre
presentando l’oggetto tarlature sul fondo ligneo e fissurazioni,
scheggiature e incrostazioni superficiali. Scrostato con cautela, deterso con
alcool denaturato, nebulizzato con spray siliconati e asciugato con panno
morbido, l’oggetto riacquista la primitiva bellezza.
Questi cimeli, ormai desueti, resistendo
all’edacità del tempo, alla rapacità dei sedicenti
“antiquari” ed all’incuria dei proprietari, sono giunti fino
a noi per consegnarci un messaggio di storia e per testimoniare di una cultura
popolare sempre più evanescente.
Nel corso degli eventi bellici del 1943 (così come
nel 1915-18) le genti del luogo non hanno avuto né la possibilità né il tempo
di dedicarsi alla caccia di massa e, pertanto, hanno facilitato il
ripopolamento della selvaggina residua.
Dalla metà del secolo, i cacciatori non usavano più
fucili ad avancarica ma, a motivo del benessere economico, soltanto a
retrocarica. Alcuni sostituiscono, almeno una volta ogni anno la loro arma con
modelli più recenti; altri possiedono più di un fucile, di tipo, marca, e
calibro diversi.
I giovani, nell’acquisto dell’arma,
danno la preferenza al “sovrapposto” ed al semiautomatico, gli
adulti alla doppietta a cani interni; gli uni e gli altri privilegiano il
calibro 12; il cal. 16 è stato il fucile di moda nella prima metà dei secolo.
Le cartucce, a bossolo semplice o corazzato, sono di
fabbricazione industriale; non pochi cacciatori, tuttavia, trovano dilettevole
ed economico il caricarle in modo artigianale servendosi dei vecchi utensili[26],
o di moderni congegni automatici che provvedono al dosaggio di polvere e
piombo, al borraggio, all’occlusione e all’orlatura.
Il cacciatore, in particola modo il
“novizio”, cura l’abbigliamento e considera la vestizione un
rito. Indossa, abitualmente, camicia a quadroni; pantaloni lunghi, di panno o
di cotono secondo le stagioni; panciotto a cartuccera; giacca o giubba. Calza,
sopra i pantaloni, stivali di gomma vulcanizzati, lunghi a ginocchio o ad
inguine. I colori dell’abbigliamento sono nelle tonalità del verde oppure
mimetici, del tipo militare. Usa cartuccera a cinturone, dalla quale pendono un
coltello a serramanico con estrattori ed un carniere a laccioli. Si copre con
cappello a falda o a visiera.
È opportuno ricordare, a questo punto, il prezzo
medio attuale[27]
degli articoli di più largo uso:
Fucile semiatomatico 550 Fucile sovrapposto 650 Fucile doppietta 850 25 cartucce semplici 5 10 cartucce corazzate 3 Cartuccera 10 Coltello 7 |
Camicia 25 Pantalone 30 Panciotto-cartuccera 18 Giubba 50 Stivali a ginocchio 30 Cappello a tesa
16 Carniere a laccioli 3 |
Accurata è la scelta dell’ausiliario, in
rapporto al tipo di caccia, e indiscusso ne è l’acquisto. Non di rado, il
cacciatore alleva e addestra cuccioli di non pura razza, ricevuti in dono. Di regolo,
lo Spinone trova impiego nella caccia agli acquatici, il Bracco, il Setter ed
il Pointer in quella alla quaglia, alla starna, alla beccaccia e al fagiano; il
Segugio in quella alla lepre e al cinghiale. Bracco e Spinone vengono
considerati, per la loro non eccessiva velocità, “cani riposanti”
e, pertanto, adatti a cacciatori non più giovani o non particolarmente mobili.
Il prezzo di un cucciolo di razza, garantita da certificato dell’Ente
Nazionale Cinofili Italiani, oscilla dalle 400 alle 500 mila lire.
Sul costo di un’annata venatoria incidono, altresì, la licenza di prima concessione o il rinnovo del porto d’armi, la tassa regionale e l’assicurazione dai danni a terzi.
Il Matese non è tutto accessibile alla caccia da
quando sono state istituite delle zone chiuse sul versante campano (con legge
regionale del 3 Dicembre 1980, n. 74, art. 5) e sul molisano. Le “zone di
ripopolamento e cattura”, in numero di quattro, si estendono nei
tenimenti di Morcone-Sassinoro, Casalduni-Ponte-Fragneto Monforte, Cerreto, San
Gregorio-Piedimonte-Castello-San Potito; le “oasi di protezione della
fauna” si estendono nei tenimenti di Cusano-Pietraroja e Letino-Gallo[28].
Sul versante molisano, è chiusa alla caccia la bandita demaniale di
Monteroduni.
La pratica venatoria, al presente finalizzata al
puro divertimento, viene, per tradizione, ancora distinta in caccia “a
penna” ed “a pelo”. Sono oggetto della prima, la tortora
“trutta”, la quaglia, l’allodola “cucciarda”, il
tordo “marvizzu”, la beccaccia “arcèra”, la storno, il
merlo, il colombo selvatico “turchianu”, il beccaccino, il fagiano
“fasana”, la starna, la pavoncella, la ghiandaia
“pica”, il corvo, il beccafico “migliozza”, la gazza,
la cesena, e specie diverse di anatidi “mallardi, capoverdi e
marzaiole”. Tra i quadrupedi, sono soggetti a caccia il cinghiale, la
lepre e, da pochi cacciatori, la volpe. Pernici e lupi sono protetti perché in
via di estinzione.
Dal numero dei tesserini regionali ritirati nel
corso della stagione venatoria 1986-87, si desume che, nei Comuni facenti parte
del Matese, praticano attività venatoria 5.917 cacciatori così ripartiti[29]:
Isernia 583 Cantalupo 50 Castelpizzuto 42 Longano 55 Macchia d’Isernia 34 Monteroduni 80 Pettoranello del Molise 12 Roccamandolfi 49 Sant’Agapito
56 Santa Maria del Molise 15 Bojano 178 Campochiaro 38 Guardiaregia 50 San Massimo 15 San Polomatese
23 Sepino 120 Morcone 210 Sassinoro 15 Casalduni 90 Guardia 430 Ponte 100 San Lorenzo Maggiore 80 Telese 245 Cerreto Sannita 360 |
Cusano Mutri 196 Faicchio 320 Pietraroja 15 Pontelandolfo 115 San Lorenzello 130 San Lupo 35 San Salvatore Telesino 190 Piedimonte Matese
502 Ailano 71 Alife 307 Capriati 90 Castello Matese 16 Ciorlano 38 Fontegreca 45 Gallo 15 Gioja Sannitica 133 Letino 15 Prata Sannita 75Pratella 74 Raviscanina 120 Sant’Angelo d’Alife 185 San Gregorio Matese 31 San Potito Sannitico 92 Valle Agricola 15 |
La caccia di frodo è fenomeno sporadico rispetto al
ventennio post-bellico allorché è stata praticata largamente e con varianti
moderne di metodi tradizionali. In quegli anni non lontani, i bracconieri
hanno, tra l’altro, utilizzato torce elettriche per sorprendere gli
uccelli nel nido; si sono mimetizzati sotto candidi lenzuoli per tendere
insidie, nel paesaggio innevato, agli anatidi di passo sul lago; appostati
sopra gli alberi, hanno atteso immobili, al chiaro di luna, la volpe o il tasso
alla pastura; hanno sostituito, nella caccia alla lepre, la “mazza”
il “cavallo” e lo “scacciafumo”, col fucile e con i
potenti fari di automobili, lanciate all’inseguimento del selvatico;
hanno “fucilato” lupi dopo averli adescati con “bocconi alla
stricnina”.
Gli Uffici provinciali della caccia provvedono, con
“lanci” periodici di starne, pernici, fagiani, lepri e cinghiali,
alla ricostituzione del patrimonio faunistico.
Il cinghiale e la lepre trovano rifugio pressoché
ideale nel folto dei boschi residui; non altrettanto può dirsi per i volatili
stanziali, molto più sensibili alle alterazioni dell’ambiente ed esposti
ai rapaci e ai predatori.
I ripopolamenti periodici e le opportune leggi protettive
tutelano, è vero, il patrimonio faunistico dall’estinzione, ma per quanto
altro tempo ancora? “Il foglio 10 US della Carta della Montagna (Tav. A)
entro il quale è compreso il Matese, pone in rilievo come l’ecosistema
bosco sia stato manomesso e smembrato dall’uomo”[30].
“A metà degli anni ’30, era possibile,
sparando dalle dighe un volatile acquatico, andare a prenderlo a nuoto; e ciò
avveniva nel mese di settembre, epoca dell’apertura della caccia in
montagna coincidente col periodo di minor invaso (…). Oggi (1977), dopo
ben 54 anni utilizzazione del bacino, sarebbe impossibile (…) poter
nuotare nelle acque di un lago che in settembre (…) si riduce quasi ad un
pantano. Ciò è dovuto solo in piccola parte ai depositi torbosi originatisi
dalla vegetazione lacustre (…) essenzialmente agli apporti
stereometeorici conseguenti all’erosione superficiale (…) ed a
quella, indubbiamente di maggiore entità, che si verifica nelle incisioni
(…) I descritti fenomeni sono pienamente spiegabili per la natura dei suoli
che si rinvengono in tutto il bacino imbrifero, permeabili e di facile
erodibilità, nonché per il cattivo uso del pascolamento (…) e gli
indiscriminati tagli di estese superfici boscate, verificatesi negli ultimi 40
anni”[31].
Come se tutto ciò non bastasse, gli incendi sempre
più numerosi ed estesi, i disboscamenti e i dissodamenti estensivi, le strade
disutili e mal tracciate, le cave, le discariche inquinanti e le intemperanze
di certo turismo, continuano ad imprimere profonde ferite. Il Matese, dunque,
si prepara ad accogliere soltanto cinghiali e cani ferini, volpi e ratti,
rettili e insetti, in buona compagnia dell’Homo atomicus e dei
suoi pingui e bolsi animali di allevamento.
Ma questo è altro discorso.
Qui, invece, è opportuno mettere in rilievo che
quanti si reputano “cacciatori autentici” in effetto si informano o
trattano di caccia sulla stampa specializzata[32],
rispettano le norme venatorie, tengono a vile i bracconieri, amano distinguersi
dagli “sparatori balordi”, detestano gli
“appostamenti”, si mostrano decisi, nel corso della battuta, a
colpire ma non per il piacere di uccidere, gioiscono quando la selvaggina
rimane “stoppata” cioè fulminata, provano disappunto se cade ferita
ed è necessario il colpo di grazia, sorridono, non di rado, quando “se ne
va” incolume.
Questi cacciatori vedono nella pratica venatoria il
mezzo salutare – ma non insostituibile – per evadere dalla
stressante routine quotidiana e vivono nella caccia un complesso di
momenti suggestivi e tra essi imprescindibili: la programmazione della battuta,
la scelta della munizione e dell’arma, l’incontro con persone
amiche, la scoperta di territori mai visti prima o di luoghi da sempre
frequentati e pur sempre nuovi, il superamento di difficoltà d’ogni
genere attraverso l’impegno psicofisico, il lavoro dell’ausiliario,
l’abbattimento del selvatico o il colpo fallito, i commenti talvolta
salaci, il festoso ritorno, il ricordo di una giornata diversa, piacevole anche
quando non sia coronata dal successo.
La caccia, dunque, racchiude in sé spirito ludico,
agonismo e impegno fisici – che, per definizione, costituiscono
l’elemento caratterizzante le discipline sportive – e, pertanto,
viene considerata, a ragion veduta, come una delle varianti dello sport. È
indispensabile, tuttavia, che la Società, in vorticoso progresso in
un’epoca di conclamata civiltà qual è quella attuale, senta il dovere di
interrogarsi, di appurare e di codificare, senza ipocriti pietismi, ma con
sereno intendimento, se sia giusto e dignitoso che l’Uomo, salito sul
gradino più elevato della scala zoologica, privi della Vita – in nome
dello Sport – altri esseri i quali, oltre tutto, non sono “res
nullius” né proprietà privata ma parte dell’ecosistema,
costituiscono patrimonio comune inalienabile, da salvaguardare per le generazioni
future.
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[1] R. Di Lello, Brigantaggio sul Matese: i fatti del 1809 in Pietraroja, in Rivista storica del Sannio, 1984, II, 1, pp. 25-35.
[2] C. Cimmino, o. c., pp. 75-77; A. Zazo, o. c., p. 111.
[3] Sui danni prodotti dalla manomissione del territorio ed evidenziati nel se. XIX, cfr.: C. Cimmino, o. c., p. 10.
[4] Ne facevano parte Civitella e Pietraroja.
[5] Ne faceva parte S. Lorenzello.
[6] C. Cimmino, o. c., p. 55.
[7] Capua, Museo provinciale, Man. cit. Non diverso era lo stato della selvaggina nei territori finitimi. Cfr. Ib., bs. 343, Carte relative a S. Lorenzo Maggiore e Guardia Sanframondi.
[8] Giornale degli atti dell’Intendenza di Terra di Lavoro, Manifesto del 22 Marzo 1818.
[9] Località Fontane – Mortine – Fiumarello. G. C., Manifesto del 16 Dicembre 1817. Per le riserve di Selva S. Simeone e Boscarello, cfr. Documenti in D. Marrocco, Il Patrimonio Feudale in Alife alla fine del ‘700, Capua 1967.
[10] Legge del 18 Ottobre 1819.
[11] “Leggi penali”, art. 463.
[12] Giornale cit., Caserta, Circolare del 9 Settembre 1820.
[13] G. c., Supplemento al
giornale n. 1 e 2, “Istruzioni date dalla Direzione Generale di Polizia
per la esecuzione del Decreto del 31 Marzo relativamente al disarmo”
Caserta 9 Aprile 1821.
[14] Cfr. A. Zazo, o. c., p. 109.
[15] Intendenza di Terra di Lavoro, Manifesto del 14 Settembre 1857.
[16] R. Di Lello – G. R. Palumbo, Brigantaggio sul Matese, 1860-1880, Museo del Sannio, Benevento 1983, p. 15.
[17] R. Di Lello, Alcuni episodi del brigantaggio postunitario nei territori di Cusano e Pietraroja, Annuario A.S.M.V., 1975, pp. 65-81.
[18] R. Di Lello – G. R. Palumbo, o. c., pss.
[19] “Permesso per porto d’armi e per la caccia” rilasciato ad Antonio Vitelli, nato e dimorante in Cusano, di professione proprietario, li 10 Febbraio 1863.
[20] A motivo della connivenza dei richiedenti col brigantaggio.
[21] R. Di Lello – G. R. Palumbo, o. c., pp. 51 e seg.
[22] D. Perugini, Monografia di Pontelandolo, Campobasso, 1878, pp. 113-115.
[23] V. Mazzacane, Profili di Cerretesi, Napoli 1956, p. 78.
[24] V. Petrucci, La caccia nella Comunità montana del Titerno, le armi dalla preistoria ad oggi, Piedimonte Matese 1987, pp. 73-74.
[25] R. Di Lello, Aspetti dell’arte agro pastorale nel beneventano (esperienze e prospettive), in Rivista storica del Sannio, I, 1983, 2, pp. 43-52.
[26] Bilance, misurini, compressori ed orlatori a mano.
[27] Le cifre vanno intese in migliaia di lire.
[28] Regione Campania, Assessorato caccia, pesca e foreste, Manifesto allegato al calendario venatorio 1986-1987.
[29] Ringrazio per la cortese disponibilità nella segnalazione dei dati: la sig.ra Giuseppina Merenda (dell’Ufficio provinciale caccia e pesca di Campobasso), i sigg. Sossio Sciulli (U.p.c.p. di Isernia), Antonio Porcaro (U.p.c.p. Benevento) e addetti presso i Comuni della Comunità montana del Matese in prov. di Caserta.
[30] L. Boggia, Il bosco del Matese e la sua difesa, in Annuario A.S.M.V., Piedimonte Matese 1977, p. 31.
[31] D. Marsella, Difesa del lago e delle sorgenti del Matese, in Annuario A.S.M.V., Piedimonte Matese 1977, pp. 183-184.
[32] Cfr. gli studi di R. Cortellessa su “Diana”, 1980, 1981, 1982, 1984. La ricerca spazia dai problemi sul destino della vera caccia e sul consumismo venatorio a quelli su una scuola naturalistica per cacciatori e sui pesticidi, che minacciano la vita dell’uomo e degli animali.