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Rosario Di
Lello
La caccia sul Matese
tra storia e tradizione - (2)
L’attività
venatoria, durante il Medioevo, venne dovunque svolta per necessità più che per
svago.
Per quanto attiene il Matese, giova ricordare che il
territorio subì le invasioni barbariche, le incursioni saracene, le continue
lotte feudali. Avvilite da condizioni di indigenza e di penuria alimentare, le
popolazioni, costrette da motivi di sicurezza al ricorrente pendolarismo
pianura-montagna, riscoprirono nel fiume e nel lago, nel bosco e
nell’acquitrino, inesauribili riserve di cibo. Il contadino-pastore,
dunque, tutelato dal principio consuetudinario che la selvaggina era “res
nullius”[1],
dovette, per poter sopravvivere, saper trarre profitto dai lacci, dalle reti e
dalle panie, non meno che dall’aratro e dallo stazzo in tempo di pace.
I tipi di caccia erano numerosi nel Medioevo. Il
“livre de la chasse” descrive e minuziosamente illustra tutti gli
espedienti messi in atto contro la selvaggina, fino al modo di mimetizzare i
valletti sotto acconciature di frasche[2].
La cacciagione era tanto abbondante che una sola battuta ne procurava per molte
settimane; eppure, i cacciatori procedettero con tanto impegno che, dopo
qualche secolo, larga parte della selvaggina risultava sterminata[3].
I sistemi adottati nella zona, non altrettanto
numerosi né raffinati, varianti di tecniche ereditate dai Romani, non
differivano da quelli, all’epoca, conosciuti altrove[4].
Per la caccia ai quadrupedi, oltre ai “cani
conduttori”, tenuti al guinzaglio e spinti da battitori a cercare la
preda, venivano impiegati i segugi (segusii) e i levrieri (veltres) che, ad
olfatto e rispettivamente a vista, quando scovata, la inseguivano e la
spingevano verso le reti dove i cacciatori, in attesa, erano pronti a colpire
con gli spiedi[5] e con
le picche (pili fortes). Per catturare i predatori di grossa taglia, il
cacciatore li attirava, altresì, dentro tagliole di ferro o dentro fosse,
usando come esca piccoli animali da cortile.
Diffusa era la caccia ai volatili per mezzo di corde
o di rami impaniati, e di reti. L’erpicatoio, particolare tipo di rete,
veniva lanciato sulla preda puntata dall’ausiliario.
I lacci consistevano in cappi a nodo scorsoio
costruiti o con crine di cavallo, e tenuti da archetti di giunco quasi a fil di
suolo, o con corde che, legate ad un ramo piegato e messo in tensione,
scattavano alla più lieve trazione. Venivano destinati, rispettivamente, ai
volatili alla pastura e ai quadrupedi.
A differenza della caccia notturna con la fiaccola,
perfezionata nei secoli successivi in quella con la lanterna, la pratica
venatoria con gli archi con le balestre e con i falconi, abituale svago della
nobiltà, si presentava insolita nel territorio.
°°°
Nel sec. XVI, il territorio era ancora popolato da
selvaggina abbondante e varia: vi nidificavano i fagiani, pernici e starne, vi
si riproducevano cinghiali, cervi, camosci e lepri[6];
gli orsi e i lupi, numerosi, causavano ripetute distruzioni di armenti[7].
Gli strumenti per uso di caccia rimanevano
tradizionali[8].
Leggi locali la disciplinavano, ma non in tutte le
Università.
Considerevole, per contenuti, si rivela il complesso
di norme, attinenti la materia venatoria, ratificate per l’Università di
Cerreto nei “Capitula transactionis”[9]
e negli “Statuta”[10].
La caccia “de qualsivoglia animali terrestri, aquatici, o aerici”
era libera “come antiquamente è stata a li homini (…) in tutto lo
territorio de contado salvo de Starne e Fasane qual sia in potestà del Signore
defensarla”[11].
Era vietato portare “arma prohibita et molita (…) balista, vel
scoppitta”[12].
Chiunque, uomo o donna, avesse rotto o devastato siepi di chiuse, allo scopo di
cacciare animali selvatici, avrebbe dovuto, se accusato, pagare due tarì e
riparare il danno[13].
La cacca alla lepre, con laccio e reti, era consentita sui monti, sopra Cerreto
ed a Montalto, era proibita a valle del centro abitato, pena l’ammenda di
due tarì; era altresì consentito cacciare, dovunque e senza licenza, la lepre
col solo cane e gli altri animali con lacci, reti o “venabulo”; il
feudatario riservava al proprio “sollazzo” la caccia con la rete a
fagiani, starne e pernici; la multa a carico dei bracconieri era di due tarì[14]..
Dai “capitula” e dagli articoli
statutari traspare l’esigenza e l’intendimento di tutelare la
sicurezza individuale e pubblica attraverso il divieto di armi improprie, di
difendere la proprietà fondiaria e le colture dall’invadenza dei
cacciatori e dei selvatici nocivi, di proteggere gli armenti dai predatori, di
garantire le scorte carnee ai poveri ed il divertimento ai ricchi, per mezzo
della caccia praticata con sistemi tradizionali.
Durante il sec. XVII ed ancor più nel successivo, lo
sviluppo industriale e mercantile dei centri maggiori del Matese incentivò la pratica
venatoria con arma da fuoco ed il consumo della polvere da sparo.
Nel Cerretano prosperava l’industria
armentizia; le manifatture tessili di Piedimonte, Cerreto, Cusano e Morcone, e
la ceramica di San Lorenzello andavano imponendosi sui mercati di Terra di
Lavoro e di Molise; Guardia produceva ed esportava pellami e vini; in
Piedimonte si affermava un’industria della polvere pirica[15].
L’uso dell’arma da fuoco raggiunse larga
diffusione. In Cusano, ad esempio, non fu possibile “prohibire li
cittadini di detta Terra a portare, et andare a caccia con scoppette a miccio
et a grillo purché non siano contro la forma della Regia prammatica e mentre il
Demanio è libero di detta Università… Con licenza però di nostri
Officiali, quale non li sarà negata; non chiedendola perda l’arma”[16].
In Cerreto, invece, il Conte, sollecitato dall’Università, poté soltanto
imporre il divieto di “tirare archibusciate per mezzo miglio intorno alle
Palombere” e la pena non lieve di tre ducati, a carico dei trasgressori[17].
In Piedimonte, infine, il Feudatario, rifacendosi ad un privilegio concesso da
Carlo V nel 1517, aveva tentato di proibire ai vassalli la caccia nelle terre
appartenenti a Casa Gaetani; i contravventori sarebbero stati puniti con la
multa di dieci ducati, con la confisca dell’arma e con due mesi di
carcere. I vassalli contestarono tale diritto e ricorsero al potere regio; il
Gaetani non potendo dimostrarne il legittimo possesso, ricorse
all’espediente di prendere in fitto, dalla Regia Corte, la concessione
delle licenze di caccia e, in tal modo, incamerò un utile di circa 40 ducati
l’anno[18].
Vero è che il fiorire dell’industria e del
commercio si accompagnava ad uno stato di agiatezza crescente, tuttavia, per la
maggior parte delle popolazioni, in particolare per le classi rurale e
bracciantile, le condizioni di vita permanevano precarie. E mentre i poveri
continuavano a disporre trappole ed a tendere lacci, i benestanti adottarono,
in tempi successivi, “scoppetti” a miccia e a ruota e fucili a
pietra focaia sempre più funzionali.
Il meccanismo “a miccia”, fissato in un
incavo sul lato della cassa, davanti il calcio e sotto lo scodellino
portapolvere solidarizzato di lato alla culatta, consisteva in una piastra di
ferro che, alle estremità anteriore e posteriore, portava imperniate una
serpentina, terminante in un morsetto serramiccia, ed una leva arcuata spinta
verso il basso da una molla e da un braccio snodato. Tirata in alto, la leva
muoveva il braccio e abbassava la serpentina; la miccia, in tal modo, dava
fuoco alla polvere contenuta nel sovrastante scodellino e quindi, attraverso un
foro della canna detto “focone”, alla carica nella camera di
scoppio.
Il congegno “a ruota” era essenzialmente
costituito da una piastra portante cane e ganasce, bacinetto porta polvere e
ruota d’acciaio zigrinata, fissa al perno di carica parte di un braccio
su cui agiva il grilletto. Operando sul perno, con apposita chiave, si caricava
la ruota spostandola di tre quarti di giro in senso antiorario; si immetteva
polvere da innesco nel bacinetto e si abbassava il cane fino a livello dello
stesso. Premendo il grilletto, la ruota girava in avanti, sfregava contro un
pezzo di pirite serrato tra le ganasce e liberava un fascio di scintille che
infiammava la polvere d’innesco e, attraverso il focone, quella carica
nella camera di scoppio.
Nel meccanismo “a pietra focaia”, il
cane, al momento dello sparo, veniva spinto in avanti dalla pressione sul
grilletto; una scaglia di selce, stretta tra le ganasce, colpiva il copribacinetto
ribaltandolo e producendo scintille che accendevano la polvere d’innesco
e, con essa, la carica di canna.
Tra quanti praticavano, per un motivo o per
l’altro, attività venatoria sul Matese si distinse Aurora Sanseverino
Gaetani, poetessa dal temperamento forte ma gentile. La Principessa di
Piedimonte si cimentò nella caccia al cinghiale e, oltre a trarne ispirazione
poetica, seppe considerarla nella reale accezione di sport: mezzo di fuga dagli
affanni quotidiani finalizzata, nel contesto dell’ambiente, alla verifica
costante della identità individuale[19].
Tutti, comunque, chi per indigenza, chi per
difendere colture ed allevamenti, e chi per svago, contribuivano, con un tipo
di caccia incessante e destruente, al depauperamento di alcune specie
stanziali. I maggiori responsabili erano i possessori di armi da fuoco. La loro
ostinazione giungeva al punto che, durante i mesi invernali, molti tra i più
avventati, mettendo in pericolo la propria vita, tagliavano lastre di ghiaccio
dalla superficie del lago e con esse costruivano capanne dalle quali tiravano
contro gli anatidi di passo, abbondanti in quella stagione[20].
Nella seconda metà del ‘700, lo stato del
patrimonio faunistico appariva non del tutto compromesso. Nei boschi del
Massiccio si riproducevano ancora “orsi e cinghiali”, nondimeno
v’era chi ammoniva con malcelata ironia: “…sul Matese…
abbonderebbe la selvaggina se la moltitudine degli animali domestici e i loro
cani la lasciassero in pace”[21].
Tra la fine del sec. XVIII e i primi anni del
successivo, il basso costo delle licenze di caccia[22]
contribuì all’ulteriore diffusione dell’esercizio venatorio. Il
fenomeno interessò, peraltro, tutta la provincia di Terra di Lavoro e il numero
delle richieste e delle concessioni fu tanto elevato che i
“distributori”, presenti in quasi tutte le università, trassero
buona parte del loro sostentamento dal reddito di esazione[23].
Sviluppo analogo dovette aversi, per gli stessi motivi, pure nel Contado di
Molise.
A differenza della caccia con panie, lacci, reti e
tagliole, quella con armi da fuoco era dispendiosa, se si considera il costo
dell’arma, della munizione e dell’abbigliamento. Il cacciatore
“tipo” indossava calzoni di panno, lunghi a ginocchio, tenuti da un
cinturone di cuoio a fibbia dorata, camicia bianca, camiciola, corpetto e giubba;
calzava lunghi stivali che, allacciati sul dorso del piede e fino al terzo
superiore di gamba, terminavano poco sopra il ginocchio; copriva il capo con
cappello a tesa larga e portava un fazzoletto annodato al collo ed una sacca di
munizione a tracolla; era armato di lungo fucile monocanna con batteria a
pietra focaia e di due pistole tenute da una fusciacca che, dal cinturone,
pendeva sopra una coscia[24].
Coloro i quali esercitavano la “caccia per
oggetto di guadagno” riuscivano ad ammortizzare le spese attraverso il
consumo o la vendita della selvaggina catturata o uccisa.
La cacca all’orso offriva alcuni motivi di
guadagno. Il cacciatore ne vendeva il grasso – ricercato dalla medicina
per la produzione di rimedi – e la pelle, tolta alla belva subito dopo
uccisa ed aspersa con una miscela di sale e allume. La pelle “di
stagione”, ossia dell’orso ucciso da Ottobre a Novembre e pertanto
di pelo lucido e folto, aveva un valore di 12-15 ducati, se larga otto palmi,
di 25 fino a 40 ducati, se più larga. Qualcuno era solito mangiare la carne
dell’animale e, pare, che il sapore non differisse da quello del caprone;
i cacciatori riservavano per sé le zampe e con esse preparavano una vivanda che
trovavano squisita. Altro guadagno, infine, proveniva dai cuccioli: allevati
con pane e con latte di pecora o di capra e ammaestrati, venivano dati in fitto
o venduti a compagnie di girovaghi. Il fitto rendeva 1/3 dell’intero
guadagno annuo, detratte le spese; la vendita procurava un profitto di 60-100
ducati [25].
La battuta all’orso si svolgeva nel modo
seguente: individuato il luogo frequentato dalla fiera, numerosi battitori, non
meno di una ventina, la scovavano e la indirizzavano verso gli agguati, con
urla, fischi, sassate e frastuono di strumenti fragorosi. I cacciatori, numerosi
e ripartiti in gruppi di tre, per prestarsi all’occorrenza reciproco
aiuto, attendevano in silenzio, coi fucili carichi e a baionetta inastata.
Quando la belva capitava a tiro, esplodevano il colpo e rimanevano immobili
finché non fossero stati certi di averla uccisa; in tal modo, poiché
l’orso ha la vista corta, avevano la possibilità di sottrarsi alla
reazione violenta dell’animale soltanto ferito.
Là dove regnava l’orso ed in luoghi ancor più
inaccessibili, viveva, raro, il camoscio, oggetto di caccia a motivo della
carne non diversa, per sapore, da quella della capra domestica.
La vendita delle pelli di tasso, lepre, volpe,
puzzola, martora e faina, ai cappellai di Campobasso, di Agnone e di Terra di
Lavoro, era fonte di ulteriore profitto.
Il cacciatore seguiva sulla neve le tracce
“pedate” di questi animali e, pervenuto alla tana, dava fuoco a
sarmenti umidi posti davanti l’ingresso; il selvatico rimaneva soffocato
o, se avesse tentata la fuga, ucciso a fucilate. Nella Primavera, lepri e volpi
venivano attese dal cacciatore al limite del bosco allorché, dopo il tramonto,
ne uscivano alla ricerca di cibo, o all’alba, vi facevano ritorno.
Una buona pelle di lepre o di volpe si vendeva a
carlini tre; da otto a 12 carlini si pagava quella di tasso o di faina, a 15-25
un pelle di lupo.
Il lupo, quando non cadeva, adescato da un pezzo di
carne, in qualche grossa “tagliuola” dentata, finiva ucciso
all’agguato.
Un qualche profitto si traeva pure dalla caccia agli
anatidi. Questi migratori, conosciuti nelle loro varietà sotto il nome
dialettale di “papere”, “mallardi”,
“capoverdi”, e “marzaiole”, venivano presi con gli
“archetti” o abbattuti “all’imposto” con armi da
fuoco, nei luoghi pantanosi e sul lago del Matese tra Novembre e Marzo.
Beccafichi e allodole, “cucciarde”, costituivano, tra Agosto e
Settembre, materia di vendita nei mercati locali.
La “caccia per divertimento… forma(va) una potente passione che non si spegne(va) con l’avanzare degli anni”. Tutte le classi, in diversa misura, ne prendevano diletto.
La pratica venatoria con lo schioppo era la più
diffusa. Nella variante “d’aspetto” diurna, si faceva uso
dell’esca. Le allodole venivano attratte con lo
“specchietto”, sorta di marchingegno rosso, ornato di piccoli specchi
e mosso da funi o da una corda d’orologio. Per adescare i colombi
selvaggi, il cacciatore poneva sopra un albero e ben in vista un piccione
legato ad una tavoletta forata; le corde, passando attraverso i fori,
giungevano al cacciatore; questi, nascosto dentro una capanna, tirando le
corde, stimolava il volatile a librarsi in volo e, in tal modo, a richiamare le
torme di colombi a tiro di schioppo.
La caccia notturna “della prima ora”
aveva inizio al tramonto e durava fino a quando la visibilità concessa dalle
ultime luci consentiva di abbattere i volatili “a volo”. La
variante “della seconda ora”, praticata al chiaro di luna da
numerosi cacciatori disposti in circolo per il fuoco incrociato, si protraeva
fino alle prime luci del nuovo giorno.
La battuta per divertimento a lepri, caprioli e
cinghiali non era diversa da quella già descritta per l’orso. Altro tipo
di caccia al “porco selvatico” consisteva nell’attirarlo, con
esca di spighe di grano sparse nel luogo frequentato dall’animale, fin
sotto un albero sul quale il cacciatore aveva preso posto.
La caccia senza schioppo, meno diffusa, ma non per
questo meno divertente, faceva uso di sistemi tradizionali modificati
attraverso i secoli.
Per prendere uccelli acquatici e beccaccini, il
cacciatore disponeva nei luoghi paludosi, lungo il corso dei canaletti o in
mezzo ai pantani, “archetti” costruiti con crini di cavallo e
muniti di nodo corsoio. La selvaggina vi rimaneva accalappiata nel recarsi
all’abbeverata e alla pastura.
Poiché i tordi si cibano di olive, il cacciatore
costruiva in un oliveto una capanna e, su di essa, una gabbia di bacchette
cosparse di vischio. Sul far dell’alba, si celava in quel nascondiglio e,
col richiamo “zufolo o ciufolo”, imitava lo zigolare del volatile.
Gli uccelli, adescati, si posavano sulle bacchette rimanendovi impaniati.
Per prendere il maschio della quaglia venivano usati
il “quagliere” ed una rete di colore verde. Il
“quagliere” consisteva in una piccola borsa di pelle che portava
legato alla estremità un osso cilindrico segnato da una profonda incisura
longitudinale. Il volume della borsa e la lunghezza dell’incisura erano
tali che la fuoriuscita dell’aria riproduceva il canto della quaglia. Tra
Maggio e Giugno, dopo aver teso la rete sui culmi, in un campo coltivato a grano,
il cacciatore si celava dietro un riparo e, toccando il quagliere, ad intervalli
di qualche minuto, dava inizio al richiamo. Il maschio, rispondendo ed
avvicinandosi, finiva per trovarsi sotto la rete. A questo punto, il cacciatore
usciva con strepito dal nascondiglio ed il volatile, librandosi in volo,
rimaneva impigliato.
La caccia con lo “scacciafumo” si faceva
tra Dicembre e Gennaio, nelle notti oscure e piovigginose. Quattro cacciatori
procedevano lentamente: il primo riproduceva con un campanaccio, nel tono e nel
tempo, lo scampanio prodotto dalle mandrie al pascolo e, in tal modo, ingannava
la selvaggina adusa a quel suono; il secondo l’abbagliava per un attimo
con la luce accecante di una lanterna “a occhio di bue” schermata nella
faccia posteriore, “scacciafumo”; il terzo la catturava con una
rete cilindrica, la cui imboccatura rimaneva aperta sopra un largo cerchio di
legno, inchiodato in un suo punto all’estremità di una pertica; il
quarto, infine, la uccideva e la riponeva in un sacco. Questa caccia, data dai
“giovinastri” in particolare alla lepre, riusciva assai dannosa ai
campi seminati e, benché fosse stata proibita nelle pianure alifane, “la
gioventù e la passione la vincevano coll’infrazione degli ordini”.
L’attività venatoria finalizzata alla
“distruzione” di talune specie animali, per la salvaguardia della
pastorizia e della agricoltura, era assai diffusa.
Dei tipi di caccia ai quadrupedi dannosi ala
pastorizia e all’agricoltura è stato detto.
Tra i volatili nocivi, i frisoni e le ghiandaie
“si distruggevano” con lo schioppo e i passeri in parte col fucile,
in parte col fumo prodotto sotto le piante a notte avanzata, in parte con la
rete nella quale rimanevano impigliati quando, nella calura estiva, calavano a
bere nei coppi ripieni d’acqua sistemati dai contadini nella rete
medesima.
Il corvo dei campi, considerato il più dannoso,
migrando arrivava in Novembre e, scorrendo da un campo all’altro, viveva,
fino alla primavera, a spese e a danno dell’agricoltura. Le
“ciavole”, questo era (ed è) il loro nome volgare, erano oggetto di
caccia col “dugo” e col “cornetto invischiato”. Il
primo metodo consisteva nel legare un gufo ad un cavalletto e nel sistemarlo in
luogo aperto a poco distanza da un albero per quanto possibile, spoglio di
fronde. Attratti dalla strana figura di quell’uccello, i corvi si
avvicinavano appollaiandosi sull’albero e davano modo al cacciatore di
tirare a colpo sicuro. I cornetti invischiati altro non erano che coni di carta
aventi l’orlo invischiato e, sul fondo, un pezzetto di carne cotta o un
granello di mais, sistemati in un campo aprico. Quando il corvo introduceva il
capo, per beccare il contenuto del cornetto, rimaneva impaniato nel cappuccio
molesto, si agitava, si sollevava in altissimo volo verticale e, spossato,
precipitava al suolo.
I cani trovavano impiego nella caccia errante.
Accurata è la descrizione che Raffaele Pepe (1776-1854), agronomo molisano, fa
dell’ausiliario: “Distinguonsi i cani da caccia in cani da leva,
cani da punta e cani da corso che volgarmente i cacciatori chiamano cani
da pelo, i primi, cani di penna i secondi, ed i terzi cani
bracchi. I primi hanno l’odorato fino, cacciano col naso basso, sono
vivaci, pieni di fuoco, agili, inseguono con voce allegra; hanno il naso lungo
ed acuminato, le orecchie pendenti ma leggiere, i fianchi asciutti e stretti,
le gambe ed i piedi sottili. Il loro manto pelo è di color negro con
gambe e spalle castagno o fulvo chiaro: o bianco con grosse macchie fulve
oscure o vinate. I secondi hanno testa e muso più grossi, le labbra sporgenti,
le orecchie grandi pendenti lunghe, l’aspetto malinconico, minor vivacità
nelle mosse minor agilità nel corso; sono più carnuti, hanno le gambe ed i
piedi più carnosi, cacciano col naso alto: alzano i volatili, danno il solo
segno, ma non l’inseguono, li puntano cioè si fermano nello
scoprirli, e non li alzano che alla voce del cacciatore; il loro manto è grigio
bianco macchiato regolarmente di punte color vinato. I bracchi poi sono di
vario colore, hanno le orecchie piccole e mal piantate: sono più lunghi che
alti, e ve ne sono molti con le gambe corte”.
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è
[1] Il
diploma dell’Ottobre del
[2] J. Heers, Il lavoro nel Medioevo, Firenze 1973, p. 17.
[3] R. Lewinsohn, Gli animali nella storia della civiltà, Torino 1973, pp. 157 e sg.
[4] Cfr. pure S. Agostini, La caccia nel Medioevo, in Diana armi, 1982, n. 9, pp. 58-59.
[5] Termine longobardo di venabulo.
[6] Cerreto Sannita. Archivio
R. Pescitelli, Gli statuti di Cerreto, copia Manoscritta da Gennaro
Pescitelli, 1793, Cap. De
venationibus, par. 173-176.
[7] Man. cit., De adatio
Universitatis Cerreti, 87.
[8] M. c., 173-176.
[9]
Interessavano la Terra di Cerreto e Casali e vennero approvati nel 1540. Sono
stati riportati in N. Alianelli, Statuti municipali, Napoli 1873, pp.
129-138. Per Ailano cfr. R. Ugo Villani, La terra dei Sanniti Pentri, Curti
1983, p. 19; per Alife, cfr. Biblioteca dell’Associazione storica del
Medio Volturno, Piedimonte Matese, sezione manoscritti, Capitula gratie et
immunità quali se dimandano… alla Ill.ma Donna Cornelia Piccolomini utile
Signora… nel precedente anno
[10] Di fondo antichissimo e consuetudinario, vennero riformati nel 1541.
[11] N. Alianelli, o.c., p. 133.
[12] Man. cit., De armorum
portatione, 1, 6.
[13] M. c., De dapmnis illatis in
clausis, 41.
[14] M. c., 173-176.
[15] R. Marrocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, ivi 1926, pss.; D. Marrocco, Il titolo di città a Piedimonte d’Alife, ivi, 1951; D. Franco, L’industria dei panni lana nella vecchia e nuova Cerreto, Samnium, 3-4, 1964, 1-2, 1965; N. Vigliotti, I Giustiniani e la ceramica cerretese, Marigliano 1980, Capua, Museo Provinciale, Sez. manoscritti, Bs. 317, carte della Statistica murattiana relative ai circondari di Cerreto e Cusano; M.R. De Francesco, La manifattura dei panni lana di Morcone nel XVIII secolo, Morcone MCMLXXXI, pp. 39-77.
[16] Benevento, Archivio di Stato, Capitoli di Cusano Mutri, 1667, X.
[17] Dalle “Grazie” concesse dal feudatario all’Università di Cerreto e sui Casali. N. Alianelli, o.c., p. 206, 11.
[18] R. Marrocco, o.c., p. 52. Nel 1753, già i cittadini di Guardia avevano inoltrato alla Regia Camera ricorso contro il Duca di Maddaloni il quale pretendeva “l’affitto della caccia”. Il reclamo produsse effetto nel 1803. Cfr. Bollettini delle Commissione Feudale, volume 56. La collezione fa riferimento, anche per altri luoghi del Matese, a privilegi e contestazioni attinenti la materia venatoria.
[19] Tanto si deduce da alcuni suoi componimenti poetici e da riferimenti biografici riportati in: D. Marrocco, L’Arcadia nel Sannio, Aurora Sanseverino, Samnium, 1953, 3-4; G. Fasano, La Gierusalemme Libberata (…) votata a lengua napoletana, Napli 1706, pp. 3, 4.
[20] G. Trutta, o.c., p. 293.
[21] G. M. Galanti, Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise, Napoli, MDCCLXXXI, II, p. 47; G. Trutta, o.c., p. 293.
[22]
Variava, secondo il tipo di caccia, da grana
[23] Cfr. Documenti, in C. Cimmino, Suolo, risorse, popolazione in Terra di Lavoro nell’età del Risorgimento, Caserta 1978, p. 76.
[24] Da una stampa dell’epoca.
[25] Per questi e successivi riferimenti fino a nota 43 cfr. G. Cimmino, o.c., pp. 53-76; Documenti a cura di A. Zazo, Raffaele Pepe e una sua relazione sulla caccia, pesca ed economia rurale nel Molise, Samnium, LIX, 1986, pp. 109-111.