Giacomo Vitale                        Home page

 

     L’azione sociale

 

L’uomo cui non sorrise una famiglia propria, e che anche nell’ampio mare della cultura aveva trovato una foce insufficiente al suo irrompente sentimento, non poteva appartarsi dalla vita vissuta. E si riaffacciò nella società da cui era uscito, in due modi: facendo del bene e resistendo al male.

Ora, qui ricordiamo la sua attività pubblica, perché la carità nascosta, che Dio solo conosce, sarà portata nella tomba da tanti beneficiati. Quanto e quanto dette con discrezione, appena conobbe o intuì una situazione penosa, una sventura improvvisa, una miseria segreta!

La sua carità cristiana non consistette nel privarsi di residui, ma fu soprattutto un movente morale di redenzione dal bisogno.

La scossa decisiva l’ebbe all’Università dal Maestro, il principale organizzatore del movimento cristiano–sociale in Italia, e che fu anche il maggior esponente della Scuola etico–cristiana. Toniolo reagiva alla concezione utilitaristica dell’economia individualista, volendo disciplinare l’esigenza del singolo nella collettività. Alla insufficienza dell’individuo riparava col Sindacato, (unità organica professionale) e la Corporazione, in cui si determinano i Sindacati, termini intermedi fra l’individuo e lo stato. Di questo non volle mai la strapotenza totalitaria, ma solo una adeguata legislazione per una maggiore giustizia sociale. Base dei rapporti era la regolazione dei contratti di lavoro, ed a quelli individuali (che possono finire nel crumiraggio) sostituiva il contratto collettivo.

L’autore di opere poderose di sociologia era un cristiano di gran pietà, e prediligeva, lo sappiamo, il giovanissimo Vitale. Tutte le mattine gli serviva la Messa, e ne riceveva la Comunione. Fu lui a dargli la notizia che Don Murri, il sacerdote modernista e sociologo, si preparava a ribellarsi: “Don Vitale, è il primo giorno che Don Murri non ha celebrato!”. Giudicate voi che leggete, se Don Giacomo, con la sua indole, la sua coscienza di figlio del popolo, e con questa formazione dottrinale ed affettuosa che ricevette per anni da lui, doveva o non berne il pensiero e l’azione, e farli suoi, e lottare per attuarli.

Dalle lettere di Don Giacomo notiamo anzitutto il disagio a staccarsi dall’ambiente pisano dove gioventù, studi, tanto maestro, attività sociali, gli davano le uniche sante soddisfazioni che cercava, mentre da noi tutto quel che gli sorrideva, gli sarebbe mancato.

Scriveva: “…Vedo con dolore avvicinarsi il momento del mio ritorno, e se una nuova malattia più forte e più lunga di quella che ho già sofferta, mi venisse a visitare in modo da impedirmi gli esami, e così prolungarmi il soggiorno a Pisa, io l’accoglierei come la benvenuta. A tanto son ridotto. Tanto orrore mi fa la vita d’inerzia e di abbattimento che mi aspetta così! Tanto ribrezzo sento per tutte le forme di vita, per tutte le manifestazioni di attività politica e religiosa, per tutti i costumi barbari che ancora regnano fra noi… Almeno ci fosse a Piedimonte una biblioteca, dove immerso nei miei studi, potessi non vedere e non sentire! Potessi almeno essere libero di esplicare quell’azione ch’io credo solo buona e rispondente al momento storico che attraversiamo… Se non posso dar l’anima agli studi e all’azione, meglio rifugiarmi in un paese alpestre, lontano; mettermi a contatto coll’anima del popolo, e plasmarmela lentamente, amorosamente, secondo il mio ideale, aliena dai pregiudizi, nemica delle prepotenze, cosciente dei suoi diritti e dei suoi doveri di cristiana e di cittadina”.

È la visione d’un Ideale. Direttiva costante per lui, l’azione. Il suo tormento, la paura di non poter agire. La tempesta del dubbio lo assale, la supera, e l’Ideale si radica. “Di che devo parlarvi?” chiede in una lettera (1909) a un suo parente “Stamane abbiamo fatto un gruppo noi tutti laureandi in Lettere, e dopo abbiamo festeggiato…o meglio hanno festeggiato: io no, io ho meditato, io ho visto che il giorno della laurea non è per me un giorno di gioia ma di dolore…Finora avevo uno scopo nei miei studi: che farò quando l’avrò raggiunto?…Organizzare gli operai per guidarli contro i ricchi che li sfruttano e il governo che li deride?…”

E ancora una volta lo studio, solo lo studio gli si affaccia come via di uscita dal naufragio del suo sogno. Ma subito riaffiora potente in lui, uomo di azione, la funzione sociale della cultura: “…mentre io sarei astratto dalle memorie del passato, intorno a me ci sarebbero tanti oppressi che avrebbero bisogno di chi li aiutasse a sollevarsi, tanti miserabili che aspetterebbero invano una parola di speranza. Sentire i loro lamenti e non poterli soccorrere, perché…ne sarei impedito dai pregiudizi, dall’interesse, dall’ignoranza di chi, nato ed educato con criteri antidiluviani, ha la forza per reprimere ogni iniziativa, ma non per comprendere i bisogni, le esigenze, i diritti del tempo in cui viviamo. Se questo bene che io vorrei fare mi è impedito, allora perché vivere? Che cosa sarà la mia vita fatta per la lotta?…Se tutto quello che ho imparato, se tutto il bene che ho sognato, io non potrò, venendo, distribuirlo a chi vive nella miseria e nell’ignoranza, come posso guardare con occhio lieto il giorno del mio ritorno?…E se mi lamento, se guardo con angoscia al mio ritorno, non è perché tremi delle difficoltà, ma perché credo che mi si legheranno le mani, e sarò condannato a vegetare nell’inerzia e nell’avvilimento…Sognare un grande sogno, sacrificare la gioventù, l’ingegno, l’anima per esso, rinunziare ad ogni allettamento di un roseo avvenire, rinunziare a parenti, ed amici, alle cose più belle e più dolci per esso, e non poterlo realizzare, e vedere che tutto, tutto è stato invano! La mia condizione è questa, il mio dolore è questo, e non altro”.

Ma qual era il quadro della società che preferiva, e non voleva abbandonare? “…Qui…gli operai sono tutti organizzati in leghe e sindacati professionali…e da preti e da socialisti gli operai sono guidati negli scioperi…Domando: potrei io a Piedimonte organizzare gli operai, e non dico condurli a scioperare, ma parlare solamente di sciopero, senza passare come rivoluzionario, ed essere scomunicato?…I cosiddetti “signori” qui non esistono…Tutti lavorano. Le donne sono unite in circoli di cultura dove ascoltano conferenze e lezioni d’arte, di educazione d’igiene, di pratica casalinga. Vi sono associazioni di madri di famiglia…di operaie. Doposcuola, l’Opera della Protezione della giovane, il Comitato pel voto elettorale alle donne…”.

Ecco quel che Vitale voleva, e per cui il contrasto fra Nord e Sud è visto da lui con tinte così contrastanti. Ma, ricordiamoci che era un giovane dallo spirito esuberante, e perdoniamogli per questo qualche esagerazione.

 

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Tornò a Piedimonte. E le occasioni a entrare concretamente nelle questioni operaie, ad attuare il suo programma di azione, non mancarono. La prima fu nell’Aprile-Luglio 1911: la controversia fra operai e padroni al cotonificio Berner, che portò al primo, totale, ostinato sciopero dei cotonieri. Ne ho fatto cenno su “Piedimonte”. Gli operai chiedevano un compenso minimo in caso di inattività non causata da loro, ma ad es., da guasti. La richiesta era lecita, e Guglielmo Berner finì con l’accettarla, ma pretese il diritto di ridurre le giornate lavorative senza preavviso, e per di più, licenziò 13 operai. Gli altri preoccupati, dopo tanta resistenza tornarono sotto.

Don Giacomo si trovava di fronte una massa operaia quasi scristianizzata, non aveva ancora un seguito, e perciò agì con prudenza. Descrisse anzitutto al Toniolo la situazione, e ne chiese il parere. Questi, hià dal 14 ottobre 1910 gli aveva additate le linee da seguire nella difficile situazione dei Sindacati cristiani, della delicata posizione del sacerdote in essi: ed ora, con la lettera del 12 aprile 1911, affronta l’accesa situazione piedimontese, vedendola però non dall’angolo pedemontano sotto il Matese, ma da una cima molto alta, dalla situazione nazionale. “Se Ella riuscisse a una composizione amichevole…” consiglia Toniolo, e perché? Perché sì, è vero che negli stabilimenti a telai automatici c’è supplemento in seguito a inattività di macchine, per mancata preparazione o per guasto, ma non c’è contratto che regoli ciò, e allora? Se c’è “consuetudine di fatto”, “contratto tacito”, l’impegno reciproco presuppone la stabilità dell’industria, ma se questa manca, cessa l’impegno per padroni e operai. Ora, il momento è rovinoso per l’industria cotoniera italiana, e perciò le richieste degli operai urtano contro una situazione di fatto, che devono pur capire. “E potrebbesi accennare agli operai quanto siano gravi in tutta Italia le condizioni odierne del cotonificio a danno di padroni e lavoratori insieme…”. Già la promessa (di Berner) di non ridurre le giornate di lavoro più di quanto è stato finora è qualche cosa. “E se fosse possibile” consiglia, “faccia accettare agli operai il cottimo sull’unità del prodotto dei telai selfacting: vale come il supplemento”. Si tratta di far pagare all’impresario per il lavoro effettivo e non per l’ozio forzato. Si deve infine evitare che una sola delle parti (padroni-operai) comandi all’altra. Patti, contratti, impegni devono dirigere la vasta azienda piedimontese, non scioperi e serrate.

Conclusione di sociologo-economista, che il prof. Vitale si sforzò di far capire. Ma l’ostinazione, gli animi accesi di 600 operai, i licenziamenti, la presenza dei Carabinieri al cotonificio, non gli permisero un’azione tutta sua.

 

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Venne la guerra del ’15. Vitale al “Dio e Patria” spiegava le nostre operazioni militari, s’interessava per la Croce Rossa, facendo lavorare indumenti, e fece propaganda per il Prestito Nazionale, ed infine fu Presidente della Congrega di carità. Presiedere è una cosa, animare è un’altra. S’imponeva il problema dell’infanzia abbandonata. Egli lo risolse non a titolo di elemosina, ma “in modo organico e completo” (dice mio padre nelle “Memore storiche”). Il 18 ottobre 1916 provvide:

1.     per i bambini inferiori a tre anni con la Casa di maternità, fornitura dell’intero baliatico, di latte o surrogato, di corredini a neonati figli di combattenti, e con sussidi mensili.

2.     per bambini dai tre ai sei anni, aumentando la dotazione all’Asilo infantile.

3.     per i fanciulli oltre i sei anni, col sussidio ad una Scuola di arte e mestieri. Doposcuola, sussidi a domicilio per famiglie povere e borse di studio. Pensò anche ai locali.

Ancora una volta si manifestava il suo sentimento retto da intelligenza, ispirato da disinteresse.

 

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Dove la superiore moralità del prof. Vitale apparve più connessa, fu nella questione dei pascoli del Matese. Qui il bene si dové fare lottando, e Don Giacomo non si sottrasse alla lotta, che ebbe momenti drammatici.

I fatti andarono così. Quando la S.M.E. iniziò i lavori di sbarramento degli inghiottitoi al lago Matese, le acque innalzandosi di cinque metri di livello, invasero terre demaniali, fino allora adibite a pascoli. Mentre i pascoli diminuivano, il Comune di S. Gregorio aveva permesso all’Avv. Pedone di Foggia di trasferire sul Matese 3650 ovini-caprini, e 250 bovini-equini, aggiudicandogli l’appalto della fida del pascolo sulle erbe demaniali. I pastori locali da padroni divennero tollerati, senza contare il danno finanziario al Comune, e la diminuzione del prodotto. Messi dinanzi alla fame, minacciarono d’incendiare il municipio.

Il prof. Vitale – non dispiaccia una volta l’atuzia in lui – anzitutto puntò sulle elezioni amministrative, che portarono al Comune il Partito Popolare, e cioè i pastori. Col nuovo sindaco Vincenzo Ferritto, il Comune diffidò il Pedone, chiedendo una modifica agli accordi, data la situazione mutata. Ma questi e l’Autorità stavano alla lettera della legge. Prevedendo il peggio, il Sottoprefetto D’Elia nel Maggio ’21 scriveva: “…si diffidino energicamente promotori opposizione affatto arbitraria e sobillatori” (leggi: Vitale). Ecco gli armenti pugliesi, il 15 Giugno sull’Esule. Assessori, consiglieri, e guardia campestre vogliono impedire. Si fa violenza contro di essi. Accorrono minacciosi i pastori. Sopraggiungono 100 carabinieri armati. 25 pastori sono tratti in arresto. Il tumulto in paese è indescrivibile. Il Comune ricorre. È Vitale, assessore al Comune che istruisce sul da fare. Fa fare interpellanza alla Camera per l’immediato rilascio degli arrestati. Spedisce anche i fogli di carta bollata “nel timore che costà non vi siano”. Finalmente il 7 Dicembre, vittoria del Comune! Il pretore Renella ordina al Pedone lo sgombero del Demanio. Ma quello ricorre. Il 1° Maggio ’22, il Tribunale accoglie l’istanza. Il 1° Giugno appello ostinato del Comune. Si preparano le condizioni di una transazione. Il Comune, il 24 Giugno, con deliberazione n. 304 nomina Vitale “fiduciario”.

Il 26, a Napoli, Vitale s’incontra con Pedone, ed ottiene: Limitazione del pascolo al Pedone senza limitazioni di numero, solo al Monte Esule, e questo fino al ’25, e dietro L. 5.000 annue. Rinunzia del Pedone a tutti i diritti del contratto 7 Luglio ’20, e rinunzia esplicita alla Bufalara (dov’è produzione di fieno). Era molto più di quanto era stato chiesto dal Comune prima, in via di transizione. Non solo, ma il Comune, vendendo il fieno di Bufalara a metà prezzo, “faceva da calmiere efficace contro ogni avidità di incettatori e di monopolizatori”. Il Comune approvava la transazione “in tutte le parti”, e sentiva il dovere di “tributare al prof. Vitale i sentiti ringraziamenti del Consiglio per l’opera veramente efficace e laboriosa da lui adoperata a solo scopo del bene della cittadinanza”.

 

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Altra feconda realizzazione di Don Giacomo in quei giorni fu la Cassa rurale per impedire lo strozzinaggio (soldi “a senà”).

Si tratta di società di credito agricolo, quasi sempre a forma cooperativa in nome collettivo, per migliorare la condizione materiale e morale dei soci con l’agevolar loro il credito e favorendone il risparmio. L’attività sociale si basa sul credito personale, si attua nel villaggio al cui santo patrono spesso s’intitola. Furono attuate in Germania fin dal 1848, e furono diffuse in Italia dal Wolleborg e dal Rossi, e si moltiplicarono, spesso ad opera di parroci, in Toscana, Veneto, Lombardia, ed Emilia.

Don Giacomo si recò appositamente a Bergamo per due volte, a studiarne il funzionamento e, delle tre sorte nella piccola diocesi alifana, il Vitale fu promotore di quella di San Gregorio (la preparò anche a Calvisi). Il 27 Dicembre 1921 vi s’iscrissero agricoltori di S. Gregorio e Castello, versando ognuno L. 500. Sul capitale si riscuoteva un utile del 3% se il deposito era libero, del 4% se vincolato. Verso il ’30-’35, la piccola Cassa aveva un movimento annuo di L. 2.000.000. Poesia delle cifre! Durò fin quando non fu messa in liquidazione dal Governo nel 1935.

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Ultima manifestazione del suo Cristianesimo vissuto, fu l’attività all’Ospedale di Piedimonte, e in essa suggellò la sua vita.

Commissario dell’Ospedale l’8 Gennaio ’44, messovi dall’Allied Military Governement, subito, dinamicamente, il 20 Febbraio, egli costituiva l’Ente “Ospedale Ave Gratia Plena”, dopo aver “ritenuto la convenienza e il dovere nelle attuali difficili comunicazioni col centro, di costruire un Ospedale che accolga, oltre i degenti locali e dei paesi viciniori, i numerosi infermi e feriti che in numero sempre crescente vengono inviati dal fronte di guerra”.Intanto Ailano, Alife, Castello, Gioia, Raviscanina, S. Gregorio, S. Potito, S. Angelo e Valle Agricola, stringevano consorzio con Piedimonte, e il prof. Vitale si metteva in giro ad elemosinare. Egli chiedeva e riceveva, e il Dr. D’Amore, direttore sanitario attuava.

Il momento era tragico, col fronte a pochi Km, e i nostri paesi semidistrutti. Già erano arrivati tanti feriti da Alife martoriata, quando da Cassino ecco giungere sventurati sanguinanti in numero sproporzionato. Furono mobilitati i medici e, d’urgenza, si dovette pensare a forniture di alimentari, paglia, sapone, legna e carbone, medicinali soprattutto, e recipienti, cascame, stoffe… e pensare alla impellente lavanderia, al rattoppo, e tutto sul momento, senza poter respirare, fra il rantolo del morente, e gli urli di dolore di chi portava il piombo nella carne.

In pochi mesi l’Ospedale era un altro. Stanze per singoli, due sale per feriti, due per infermi, una sala per maternità, un gabinetto per analisi, e uno radioscopico, un consultorio oculistico e uno otorinolaringoiatrico, tre sale per disinfezione, preparazione e operazione, una stanza di casermaggio, perfino un nuovo statuto organico, e un aumento di reddito! “Tutto questo”, scriveva D. Giacomo, “si è potuto conseguire per i sussidi dell’A.M.G., per i concorsi dei Comuni e, primo, del Comune di Piedimonte, e per le continuazioni affluenti elargizioni dei privati”.

Il 1° marzo 1947 ci fu l’ultima riunione sotto la presidenza Vitale (manca la firma di lui). La morte era vicina. Ma egli, l’aspettava ormai, liberatrice dalle sofferenze atroci del corpo, e schiudentegli l’orizzonte di luce che Cristo promise a chi passa nel mondo beneficando.

 

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La grandezza del Prof. Vitale, per cui tanti lo ricordano, per cui lo rievochiamo per primo nelle civiche onoranze sfugge agli uomini esteriori. Essi infatti si chiedono: Che ha fatto in fondo, da meritare un monumento?

Rispondo a nome del Comitato, a nome di quanti ne serbano devoto ricordo.

È una benemerenza e un vanto compiere pubblici lavori, o emergere nella vita politica e nella carriera. E queste sono grandezze che si vedono.

Ebbene, Giacomo Vitale non costruito strade, né è diventato un alto prelato. Ha solo lavorato nei cuori e nell’intelletto di centinaia di persone. Ha lasciato perciò tracce materialmente invisibili, ma non per questo inesistenti. Sta qui la sua benemerenza civica.

Egli non rivive in un palazzo o in un titolo, ma nel subcosciente di chi cade e risente, come in un soffio, la voce del suo rimprovero, o di chi sale e rivede il suo gesto d’incoraggiamento e di plauso… La sua ombra non aleggia su realizzazioni materiali, ma appare nell’intimo, quando si studia, quando faticosamente ci esaminiamo.

Chi non lo conobbe, chi era refrattario alla scuola del carattere e della bellezza, può non riconoscerne l’altissimo merito. Ma noi che dal suo insegnamento abbiamo ricavato la visione spirituale della vita, non esitiamo ad attribuirgli quanto si disse di Socrate: “Scolpì anime, e fece nascere idee”.

Obbedendo con slancio alla richiesta del Vescovo, ho steso questi cenni sul mio Professore. Ma non devono servire solo a ricordarlo. Un libro “…è men che niente se, fatto il libro, non rifà la gente”.

Il Giusti ha ragione. E speriamo perciò che i “Ricordi del Prof. Vitale diano un significato allo sguardo intelligente e buono che emana dal monumento, ed egli continui a parlarci, ad ammaestrarci, a farci riflettere, a farci migliorare.

 

Piedimonte, 20 luglio 1963

 

Dante Marrocco

 

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