Biografia soci ASMV               Giacomo Vitale              Home page

 

 

    Come pensava e come insegnava ( il Prof. Giacomo Vitale )

 

Fermiamoci anzitutto sulla manifestazione evidente della cultura del prof. Vitale: l’insegnamento. Da essa, per essa, potremo risalire consideratamente alle idee animatrici.

Quel suo metodo didattico, così tipico e così efficace, (il prof. Di Muccio lo ricordò nell’elegia alla sua morte):

Qui Dantis linguam docuit perquam arte stupenda…

era logicamente espressione d’un temperamento, ma il contenuto, l’idea era prodotto della convinzione dottrinale. Risalendo dunque dagli effetti alle cause, saremo sicuri di fare induzioni, non congetture.

Come insegnava? Egli non si preparava una certa lezione da enunziare, spiegare, riassumere, e poi richiedere. L’acutezza dell’ingegno e la cultura vasta lo ponevano in condizione di attuare alla perfezione il metodo attivo della pedagogia d’oggi, con lezioni occasionali. Ad una domanda replicava con una lezione improvvisata, spontanea, svolta non nelle sue minuzie, ma solo in alcune idee sostanziose, che voleva restassero impresse. Dall’idea dominante divagava per poco verso altre, tanto per cercarvi maggiori prove, per fare intravedere altri motivi di sostegno e validità, e poi tornava insistentemente all’argomento e, di convincente autorità, lo chiudeva.

Semplificava il pensiero e la locuzione difficile, e li rendeva col gesto rapido, quasi a scatti, senza mai dimenticare quella verve simpatica e convincente, e che era pure il tocco di grazia, per cui nasceva in noi la simpatia per li, accanto ad una illimitata stima.

Da noi esigeva molta lettura, la riflessione giornaliera del diario, la scelta del colorito e del rilievo, e cioè della proprietà e del valore della parola, non pretendeva ripetizioni o memorie, né temi svolti come prediche.

S’immedesimava nella spiegazione, nella lettura, e ci richiedeva di parteciparvi. Eliminata ogni pesantezza, creava così nell’ora d’Italiano un’ora di sogno, sogno per noi, ma che per lui era solo il trionfo di ciò che è spirituale e superiore, comunicato con arte. Ma allora, guai a interromperlo!

Credevamo che rimproverasse perché nervoso, dopo s’è capito che era per disgusto, per orrore di quella contaminazione che una distrazione, un’inframettenza grossolana portava nell’alta regione cui ci aveva levati, sporcandola.

Dava quando sapeva, senza misura alcuna, con la sola restrizione di dover ridurre, perché parlava a ragazzi. Dava molto ed esigeva poco. Convinto com’era di quanto diceva, era sicuro di averci comunicato la sua convinzione. E perciò a lui il dettaglio sfuggiva, e a noi non lo chiedeva. Gli bastava che avessimo corrisposto nell’essenziale. Voleva comunicarci una passione, ecco, più che un certo numero di idee.

Logicamente una spiegazione, una definizione, non era mai la stessa. Egli non la sapeva a memoria. E c’era sempre del nuovo in quanto diceva. La sua paura era di cristallizzarsi e perciò leggeva tanto, e si aggiornava, e poi rifletteva e trovava da sé, e voleva, in piccolo, lo stesso spirito d’indagine e di riflessione in noi. Né la limitatezza mentale di un alunno si sarebbe trovata a suo agio con lui. Bisognava capirlo. Capirlo nella mentalità elevata, aperta. Solo così si afferrava il senso vero di certe sue espressioni, e certe preferenze, certe commozioni.

 

***

 

L’uomo che insegnava così, manifestava oltre che mentalità e tendenze, anche la consuetudine di studi e il patrimonio culturale.

Ecco le sue idee basilari:

1.     Cristianesimo teologico paolino.

2.     Francescanesimo.

3.     Sociologia cristiana.

4.     Teorie estetiche crociane.

Da ragazzi ci sfuggiva logicamente la genesi di ciò in lui. L’abbiamo capito quando, nel Vangelo e nelle lettere di San Polo, come nelle encicliche di Papa Leone XIII, e sulle opere estetiche e storiografiche di Benedetto Croce, le abbiamo ritrovate.

Pur rinnegando alcuna elaborazione posteriore, certo il Vangelo e S. Paolo erano il pane che consumava e che offriva. Insisteva tanto vivamente sul “corpo mistico” oltre che nell’aspetto soprannaturale, anche in quello sociale. S. Francesco, tipo dell’attuazione estetico – morale del Vangelo, rappresentava per lui quello a cui potesse tendere l’anima naturalmente cristiana. Ma ne ho parlato avanti, e non mi prolungo. Torniamo ai suoi studi.

Se nell’insegnamento egli trascurava il preciso e trito dato storico, pur di metter noi soltanto nello stato di contemplazione estetica, è evidente, e lo diceva, che non preferiva la critica storica tedesca, ma senz’altro quella estetica che, preparata dal Vico, attraverso De Sanctis arriva a Croce.

In questa scia troviamo Vitale. Metter da parte ogni giudizio sulla forma pura, l’anatomia delle parti, ammirare la bellezza del complesso vivo, ecco quanto raccomandava, e cioè quanto sentiva. Ho già detto che rinnovava, mai ripeteva. E anche questo corroborava col Croce, dato che anche per lui l’arte era momento irripetibile di vita.

Se certamente correggeva l’errore sintattico, non esauriva l’insegnamento nella “bella forma”. Era nemico della rettorica. Niente enfasi o studiato abbellimento, ma idea sentita, proprio attraverso la naturalezza dell’espressione.

La stessa idea crociana (e veramente hegeliana) della storia lo sorreggeva nell’interpretare e giudicare i fatti. Spesso citava la Storia d’Europa del pensatore abruzzese.

Anche per lui la storia era progresso dell’idea di libertà attraverso trionfi e sconfitte, superando le dittature, momenti necessari che rendono irresistibile la nostalgia della democrazia.

E il suo cuore che batteva tanto palesemente per l’ideale democratico, l’aveva spinto, come si vedrà, anche alla concreta azione politica, ma non con vieto spirito di clientela, non per l’arrembaggio di grasse mangiatoie, no, unicamente per moralizzare la politica. E perciò, di fronte a situazioni corrotte, tuonava con violenza estrema, mortificando anche, e giustamente.

Punto ancor più delicato a valutarsi è la sua posizione filosofica. Non era proprio uno Scolastico. Siamo lì. La sua indole dinamica, sentimentale, attuale, avversa al sillogismo, lo faceva propendere piuttosto per S. Agostino, per una filosofia nelle cui attuazioni poneva la convinzione. Pragmatismo? Certo, era un ammiratore di Papini, ma non è il caso di lavorare di fantasia su quanto non sappiamo. La filosofia non era comunque il punto focale del suo ingegno emotivo (è sintomatico all’Università il “20” in Filosofia teoretica, di fronte al “30 e lode” in Italiano.

E come si spiega l’influenza delle idee del Croce? Si era incontrato con esse, e vi aveva aderito, perché non subiva niente, e non giurava su nessuno. Si spiega in due modi: psicologicamente era predisposto a farle sue.

Storicamente non dimentichiamo che negli anni della sua seconda formazione, 1905-15, predominava l’idealismo e la storiografia pura della libertà, e il pensiero storico, respingendone l’antitrascendenza. Moderno nel fatto, ma ancorato ai principi trascendenti del Vangelo. È che certe idee si unificano in una sintesi superiore solo nelle persone d’ingegno.

 

***

 

Prodotto dell’incrocio fu la tesi di laurea (che meritò un “110 e lode”).

Tratta di “Lo spirito filosofico nei canti d’amore dei poeti del Dolce Stil Novo”, e fu discussa nel Giugno 1910. È stato un godimento leggerla, e ne ringrazio il gentile Rettore Magnifico di Pisa, anche per il frutto che ne ho ricavato. È fra storica e personale. Si vede anzitutto il lettore di gran respiro dalla bibliografia immensa, si nota il continuo riferimento teologico, si avverte – ed è il costante, eterno Vitale, – l’accantonamento del simbolismo poetico, aspetto deteriore della “bella scuola”. Nel primo dei quattro capitoli appare il suo compiacimento innanzi alla moralità dell’amore. Nel 2° è trattato il tentennamento di quei poeti, evitato solo da Dante, fra vita attiva e contemplativa, e appaiono quelle sue definizioni che tanto lo distinguevano: “non sono le teorie che plasmano l’uomo, ma l’uomo che plasma le teorie”, e altrove “è l’uomo che elegge fra i molti, il sistema conforme alla propria mentalità e alle proprie esigenze”. Nel 3°, più storico, espone “il gravame del medioevalismo filosofico sulla poesia, e nel 4° c’è l’indagine del polisenso in poesia, finché si chiede (non senza un certo dramma); come dall’interpretazione allegorica “che vegeta sotto il freddo sole degli Scolastici… venne la lussureggiante vegetazione poetica?”. La tesi ha il merito, fra l’altro, di mostrare come una preparazione teologica possa introdurre in modo sistematico e comprensivo alla domanda se l’allegoria, il simbolo, sia separabile dall’intuizione poetica, se in arte può esistere un doppio fondo, risponde crocianamente. E, salvando solo Dante, ridimensiona il Dolce Stil Novo, riconoscendogli in poesia un valore espressivo, ma ben diverso dal monismo poetico moderno.

Sarebbe inconcepibile il prof. Vitale, se non si accennasse alle sue vedute cristiano-sociali. Furono sempre ortodosse, anche se di avanguardia. Le abbiamo ritrovate limpide, in quel miracolo di rinnovamento che è la dottrina emanante da Leone XIII. La Chiesa, nelle sue posizioni di adattamento alla società si assunse il grande compito dottrinale, spianando la via ai successori. Ci interessa ora il campo sociale, per riconoscere dal pensiero leoniano, le direttive dell’Opera dei Congressi, le idee del Toniolo, e quindi del prof. Vitale.

La Rerum novarum (1891) stabiliva le direttive della convivenza cristiana, incoraggiando le associazioni operaie, l’intervento dello Stato per proteggere la dignità del lavoro e additava nella soluzione della questione sociale, non la sola economia, ma la morale e la religione. La “Nuntiasti Nobis” (1884), e la lettera “Dall’alto” (1890) incoraggiavano l’apostolato dei laici e l’Azione cattolica; la “Graves de communi” (1901) raccomandava al clero di andare verso il popolo, e stabiliva la natura e i veri fini della Democrazia cristiana; la “Sapientiae Christianae” (Gen. 1900) additava ai laici le vie dell’apostolato. In questo programma è ritratto Vitale.

Con Pio X, l’applicazione portò inevitabilmente a contrasti. Il Saugnier nel suo “Sillon” s’era spinto ad una forma eccessiva di democrazia, e i Papa condannava il Sillonismo; il Modernismo, per troppo adattare il “Credo” al progresso moderno, stava portando la fede all’agnosticismo kantiano, e fu condannato con la “Pascendi” (1907), e la “Lamentabili” (1908); anche l’Opera dei Congressi stava deviando con Murri ecc., e anche qui l’intervento deciso del Papa, e lo scioglimento.

Lavoreremo ora di fantasia? No. Vitale, ben diretto dal suo piissimo maestro, seppe mantenersi lontano dagli eccessi, e permanere sinceramente nell’ovile da dove altri uscivano, senza per questo rinunziare alla battaglia. L’origine delle sue idee sociali è manifestamente nell’autorità della Chiesa. Il Toniolo gli scriveva (lett. 24 sett. 1911): “…negli stessi indirizzi e principi sociali, la verità e le sue benefiche conseguenze pratiche si trovano sul cammino diritto che ci viene dalla Chiesa e dal Pontefice…”. Accusato di Modernismo, quello sociologico, fu difeso e scagionato dal vescovo Caracciolo, e giustamente dunque.

 

 Biografia soci ASMV              Giacomo Vitale              Home page