Giacomo Vitale                        Home page

 

 

       Colligite fragmenta

 

Restio a scrivere, lascia pochissimo sulla carta. Sappiamo bene che ha lasciato molto nei cuori.

Si sa che iniziava e, mobile e incontentabile com’era di sé, abbandonava. Quel che c’era s’è perduto dopo la morte.

In quel che leggiamo di suo, vediamo evidenti, il suo stile e il suo animo. Si legga la lapide che dettò per Pietro de Lellis, avvocato e poi sacerdote † 1808, alla cappella delle Grazie in Piedimonte. Niente sovrabbondanza di encomi sperticati e monotoni:

 

Pietà di edificazione profonda

cultura di lucido intelletto…

e più oltre:

 

si ritrasse silenziosamente qui

a imparare dalla Regina della sapienza

come rendere la vita

utile e santa.

 

È del 1925, e c’è ritratto lui stesso.

Più descrittiva, e di concisa ammirazione è quella per Alessandro Vessella in Alife:

 

…gloria nazionale,

con meravigliose trascrizioni

dava alla banda italiana le forme dell’arte nuova,

ed all’Italia la comprensione e il gusto

della musica straniera.

 

Sulla tomba della madre, nel piccolo cimitero di San Gregorio, quasi un nido sulla valle profonda, aveva invitato semplicemente a pregare per la “tanto buona e cara maestra” le fanciulle da lei educate. Per tutti molto, per i suoi poco.

 

***

 

La preghiera popolare alla Vergine delle Grazie, ricca di sentimento e di umile fede, nelle sue mani divenne arte. Ecco come chiedeva grazie:

“…L’aspetto da quegli occhi di grazia: l’attendo da quella tua bocca che è sempre dischiusa ad un sorriso di grazia: la invoco da quella tua fronte soavemente china sulle umane miserie, da quelle mani protese a benedire, e soprattutto da quel tuo benedetto e materno cuore, o Maria, piena di grazie…”.

Del suo buon gusto e della sua capacità di critica, si hanno fra l’altro due saggi. Uno è: “Spigolando – G. Bocchetti e i suoi critici”. Vi dice che l’arte del Bocchetti “…si rivelò… con quella sua pittura tonale, d’intonazione dorata, fastosa e insieme sobria, la quale dà mirabile risalto alla ricchezza degli stucchi che adornano il tempio” (l’Annunziata in Piedimonte). Sull’Avvenire d’Italia di Bologna, l’11 marzo ’32, così scriveva: “…analizzando i principi dell’arte sua, l’elemento simbolico non si sovrappone alla visione pittorica, non la contamina, non la strania dal suo fine: il racconto della Regalità di Maria è così compenetrato col linguaggio pittorico, che l’animo del riguardante non sa se più ammirare una poesia del colore o un colore della poesia”.

Ma più che critica d’arte, questa la chiamerei una comunione di spiriti. Vitale non guarda come un freddo e preciso Alinari; egli contempla, come Dante contemplò il suo Paradiso vivo e palpitante, e si agita e si commuove.

 

***

 

Si sa di un suo commento a Leopardi, di un suo studio sul Francescanesimo, di una “Novella del biancospino” … Dopo averla letta, chiese se era piaciuta. Lo era, e molto. Gli alunni dalla sua reticenza, capirono che era sua. Si sa di relazioni epistolari con vari pubblicisti: è il prof. Ciaramella e la prof.ssa Zotti Grillo a lui spiritualmente vicini, che informano. Si sa di propositi suoi di scrivere, e specialmente sull’amato Manzoni… Ma tutto è inconcepibilmente scomparso subito dopo la morte.

 

***

 

Che la destra inerte gli abbia impedito il lavoro di scrittoio (dettava infatti volentieri), e che la stessa debolezza fisica e i frequenti dolori di testa vi abbiano contribuito, è un fatto.

Al giornalismo più rapido, più sbrigativo e, solo per questo, meno impegnativo, s’era dedicato alquanto.

Studente a Pisa, fu collaboratore del “Giornale di Pisa”, e dopo il ’18, scrisse anche sul “Corriere della sera” firmando G. V., e anche su “Il Popolo”. A Piedimonte, ormai lanciato nella politica attiva, volle Libertas, organo del locale Partito Popolare, e volle anche La Zanzara, foglio di satira politica. E a volte, per essi, dettava a Don Ferritto, fino alle 2,30 di notte. Fece epoca l’articolo: “Non ho rubato io la vittoria”, dopo mancata riuscita elettorale.

 

***

 

Bozzetti drammatici di vita popolare paesana, gustosi, non mancano, ma anch’essi sono introvabili nell’originale.

I tipi erano scelti naturalmente a S. Gregorio. Ci capitarono in mezzo il vecchio signorotto, impettito e solenne, il “cavaliere” dal parlare enfatico, che definiva il Comune ricco di acque, cone una “comarca acquifera”, e che, essendo Conciliatore, amministrava solennemente la giustizia fra gli esplodenti pastori del Matese, seduto su un enorme vaso da notte… Non sfuggiva un vecchio “Cancelliere”, cioè il Segretario del Comune che, paralitico, gli aveva dedicato un sonetto quando, la notte del 1° Agosto 1903, il Vitale era salito a Monte Miletto; né scampavano vanitosi di villaggio, come Don Isaia lo speziale, che a Napoli andava come uno sporco studente per apparire un ballerino pulito a S. Gregorio. E di quest’altro aspetto del Vitale ringrazio anzitutto la signora Giovanna della Paolera, l’ultima rimasta di quella che fu la seconda famiglia del Professore, dopo i De Lellis. Nei personaggi locali rappresentava quasi i tipi della farsa napolitana. Tipo a sé, irriducibile, Don Domenico, vecchio prete e maestro elementare, “famoso oratore” diceva Vitale, che ripetette per cinquant’anni la stessa predica alle Quarantore, tanto che il popolo in chiesa la recitava con ui: “…E tu, zitella zitella, che non vieni in chiesa per pregare…”.

Gusto del buffo e del grottesco? Esattamente no. Piuttosto nostalgia del piccolo mondo antico al declino. In queste rappresentazioni egli, a volte, lavorava sul subcosciente del popolo, come nel sogno dello “Scuppato”, un povero diavolo che si vedeva Padre Eterno, e distribuiva i posti del Paradiso; o coglieva la voce del sano realismo popolare, come per quella interminabile lettera di otto pagine, la lettera d’un soldato alla fidanzata. – Che dice? Aveva chiesto la madre di questa. – Che le vuole bene. – E otto pagine?…

A volte rappresentava l’infantile curiosità popolare, quando descriveva l’organista locale che, all’Elevazione, poneva sui tasti un’enorme chiave, e si girava a curiosare giù tra i fedeli, mentre dall’organo, interminabili note trasformavano con indifferenza l’armonia sacra nei suoni di una officina. Con facilità aveva messo in versi le cronache di Assunta, la vecchietta pettegola del paesino. Era capace della cicalata scherzosa, e sapeva spiare e spifferare insinuazioni e malignazioni di donnette, o le facoltà “iettatrici” d’un alto dignitario.

L’animo del Vitale? Poliedrico anche per questo. Non gli sfuggiva l’aneddoto, e sapeva ricavarne e fissarne il tipo.

 

***

 

Non è poesia, è solo capacità di versificare, ma quanto houmor nel lungo ditirambo che segue. Si pensi solo a questo: è un malato che scrive. Soffre, e pur riesce a dimenticare, è colpito dall’affetto rusticano dell’inserviente, e ci ride su. Era bisogno di allentare per qualche momento la solitudine di cui era fasciata la sua esistenza.

 

Il liscio e busso delle malattie – Storia dal vero.

 

Nell’ardore convulsore – creatore

del mio spirito febbrile,

il mio letto è come un mondo…

cioè a dire: è un po’ simile

a questo mondo:

qui vallate, lì fratture,

giù sporgenze, su pendenze,

e altipiani tra bassure.

Ci son l’Alpi, perfin l’Alpi!

E son l’Alpi i piedi miei

colle punte irte nel ciel!

Ciò contemplo resupino,

mentre frulla e frulla, e frulla

una frase dal mattino

nel mio cervel:

“Liscio e busso”, è un liscio è busso…

Dicea fra me: c’è dunque in fede mia

un liscio e busso ancora in malattia?…

Speculavo resupino

su tal frase del mattino,

mentre il vecchio zio portiere,

reso arzillo dal bicchiere,

là innalzava, qua spianava

rifaceva, ricreava,

al mio letto in convulsione

nuove forme più consone

all’alticcia sua ragione.

Con un atto – forte e ratto,

impensata, una manata,

giù dall’alto egli calò,

e ahimé l’Alpi, i piedi miei,

che di nulla erano rei,

nel profondo duro e fondo

del mio letto allivellò:

“Ahi, che fai?” gli gridai,

ma i miei lai

non pietoso, ei non curò…

“V’aggia alliscià. Lassate fa”.

E giù ancora altra manata

più spietata v’assestò.

Poi paterno, buono, grave,

con la voce più soave,

con un lento gesto pio

disse, l’occhio all’occhio mio:

“Vuia avita penzà sul’ a sta bbuono.

Zi Mì, chellu che fa, fa tuttu bbuonu”.

Tacqui, vinto. Il mio piede dolorava.

E proruppi in clamorosa, impetuosa

Filosofica risata…

E zì Mineco: “E che gghiè?”.

Meditava ora e trovava

che le pieghe si levano a manate,

e che queste son sempre un po’ sgarbate.

Almeno le pieghe

che sono spianate

la pensan così.

Né solo le pieghe

ognuno vorrebbe,

(ma solo potrebbe)

goder, non dolere.

Aulire la rosa,

la spina penosa

buttare poi lì…

E faticosamente giunto qui,

il pensier filosofico finì.

Era questo ridotto in posizione:

La picchiata e la lisciata – ruminata,

mi chiarivano alfin a spese mie

il liscio e busso delle malattie:

il liscio eran le pieghe accomodate,

il busso eran le Alpi rientrate.

 

La variazione del metro, e il filosofico sorriso lo fanno rassomigliare al Redi (Bacco in Toscana), ma il gusto della macchietta è suo.

 

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