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Anno I                         Piedimonte d’Alife 24 Maggio 1887                            Numero 9

 

 

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Il Risveglio Operaio

“La verità genera odio... ma noi la diremo sempre”

 

 

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Cent. 5 in tutta Italia         SI PUBBLICA OGNI QUINDICI GIORNI             Cent. 5 in tutta Italia

 

 

 

 

AL FASCIO OPERAIO

 

Non è figlio di giusto risentimento, ma di animo terribilmente preoccupato, l’arrabbiato articolo –  una camorra di mistificatori – all’indirizzo del nostro periodico, poiché se fosse un risentimento ragionevole avrebbe l’articolista dovuto opporre argomento ad argomento, ragione a ragione ed usare mezzi più consoni alla natura umana. Chi s’irrita in tal modo, chi va in escandescenza, esce dalla società degli uomini ed entra in un’altra categoria di esseri rifuggii e condannati dall’universale.

La Rivendicazione di Forlì chiamò l’articolo pubblicato nel n. 0 del nostro giornale – un ingiusto rimprovero. Accennò perché fosse ingiusto; disse che i mezzi di riforme sociali proposto da noi, qualunque essi fossero, sarebbero da lei accettati anche semplicemente quali proprietà, come ipotesi; promise, che se fosse stato il caso, ne avrebbe discusso la bontà e l’attuabilità; e noi le fummo grati e rispondemmo a quel simpatico giornale, che facendo così noi saremmo rimasti soddisfatti; - La Rivendicazione adunque à atteso i nostri articoli di riforma e noi pacatamente attenderemo il giudizio – ci piace tanto discutere ragionevolmente.

Non così ha fatto il Fascio Operaio di Milano che à voluto giudicarci a priori. Nel n. 159, anno 5, caratterizza quel nostro articolo-programma coll’epiteto di codardo, pieno di viltà e di cretinismo e per giunta di porcheria; e noi che lo scrivemmo, quali facienti parte di una camorra di cortigiani della politica e della ipocrisia borghese. Domandiamo in grazia al Fasci Operaio, dove ha rinvenuto raggiri disonesti, vile aggressione, scroccamento indegno della buona fede altrui, o aggressione, o tradimento, o mene, o mistificazioni? Qual frase di detto articolo accennò ad una sola di tali cose? Da che cosa può rilevare che siamo un branco di camorristi della borghesia?

Ma vuole il Fascio Operaio analizzare di nuovo le nostre espressioni, vuol delineare meglio i nostri concetti? Rilegga quell’articolo pazientemente e si avvedrà e confesserà quale ingiusto rimprovero ci abbia fatto.

Se noi dicemmo: positivi per principi non ci piace brancolare, è perché noi si ama la vita pratica, si vogliono i mezzi veri ed efficaci a redimere la classe operaia, perché siam convinti, che nulla si ottiene d’un colpo e per forza, ma tutto si raggiunge a gradi e ragionevolmente. Sono mine queste nostre note?.

Ripetiamo che le idee di proprietà collettiva, di mezzi e strumenti di lavori collettivi, di associazioni, produttrici solidali e federate nei comuni autonomi e indipendenti sono legati tra loro nelle regioni da un patto liberamente discusso ed accettato e cento altre belle cose presentano una fantasmagoria incantevole; ma siamo là – ubi consistam? Ripetiamo, signore del Fascio, che coloro che studiano siffatti problemi meritano profonda stima, e noi li raccomadiamo al genio della guerra che è pure quello della vittoria, ma compatimento, perché inattuabili i loro principi, e discuteremo.

Accennammo in risposta alla Rivendicazione i nostri concetti circa i mali e i beni che formano il corredo della nostra generazione, uno studio formale a certe istituzioni mal dirette, un altro ad eliminarne altre del tutto dannose; pensammo ad una legge che prevede le sventure, ne invocammo una per garantire la vecchiaia dell’operaio ecc. ecc. e per tutto ciò ci si dà del camorrista, del cretinismo... et reliqua.

Noi a viemmeglio rassicurare i redattori del Fascio Operaio, diciamo che primo nostro intendimento  propugnare a più non posso una legge – cassa pensioni all’operaio.

Nel prossimo numero tratteremo questo importante argomento,e senza dimostrare con parole, coi fatti si sganneranno i nostri avversari e ritratteranno specialmente l’avventato rimprovero, che noi si schizza odio contro tutte le scuole e le dottrine dell’avvenire sociale, quasi retrivi.

Si persuadano i signori del Fascio che, anche noi conveniamo in questo, cioè, che tutti gli elementi di una trasformazione sociale esistono in seno alla società capitalistica; tocca agli studiosi ed ai leali pubblicisti far l’analisi dei fenomeni ed a determinarne le tendenze; tocca ai lavoratori l’istruirsi o almeno rendersi coscienti della loro forza e del loro numero, il raggrupparsi, il disciplinarsi... e se persuasi di ciò, conchiuderemo che non avemmo il torto, se incominciammo noi del Risveglio a studiarne le cause, gli effetti vengono da sé, e che non siamo noi altri se non i coadiutori metodici di tant’opera benefica e santa.

Marcellino Perrotti

 

 

 

 

IL CONFLITTO

Fra il lavoro e il capitale

 

La nuova luce in cui il Sig. C. Giles à esposto questa bollente questione fra il lavoro e il capitale è un riflesso di quella fulgidissima, che irradia dalle opere meravigliose e d’inestimabile valore del suo illustre Maestro, il sommo teologo, filosofo e scienziato Emmanuele Swedenborg.

Sono tredici anni che il Sig. L. Scocia si è assunto il carico di tradurre e pubblicare in italiano queste opere sublimi, che nelle principali lingue d’Europa e dell’America del Nord hanno avuto già tante edizioni.

In esse le anime infiacchite o sconfortate sul dubbio e sullo scetticismo, oggi dominanti, possono rinfrancarsi e rinvigorirsi dinanzi a tante luminose prove delle grandi realtà della vita.

L’accennato lavoro, che ci pare di massima importanza è quello che abbiam creduto in preferenza studiare e ricordare a’ nostri lettori.

In una serie di articoli lo svolgeremo, e più che fantasticherie socialistiche, più che le ire di partiti, più che le vendette personali, più che insaziabili speranze di future prosperità gioverà non poco questa importantissima tesi, che consigliamo ai benevoli amici meditare profondamente.

È inutile dimostrare a priori l’importanza di questo argomento.  Uno dei grandi segni dei tempi che questi soggetti di vitale interesse per l’umana felicità siano costantemente discussi dinanzi al pubblico, attirino l’attenzione degli uomini saggi, e agitino le menti di tutte le classi del popolo.

La larga prevalenza di questo movimento dimostra che una nuova vita comincia a battere nel cuore dell’umanità, opera sulle sue facoltà come il soffio caldo della primavera sulla terra ghiacciata e sui germi assiderati delle piante. Ciò metterà un grande scompiglio, romperà molte forme gelate e morte, e produrrà grandi, e, forse in alcuni casi distruttivi mutamenti, ma nello stesso tempo ciò annunzia il fiorire di nuove speranze, l’avvicinarsi d’una nuova ricolta per sopperire agli umani bisogni, e mezzi di più grande felicità.

C’è somma necessità di saggezza per guidare le nuove forze che vengono in azione. Ognuno  nell’obbligo di far la sua parte per formare una pubblica opinione retta, e dare una saggia direzione alla volontà popolare.

Egli è nostro proposito di contribuire il nostro obolo a quest’opera che abbiamo intrapreso a svolgere sì importante questione.

Passiamo la cosa nel vero punto di vista.

L’unica soluzione al problema del lavoro, della miseria, dell’abbondanza, della sofferenza, dell’afflizione può solamente essere trovata, considerandolo da un punto di vista morale e umanitario.

Esso può essere riguardato ed esaminato in una luce che non è la sua.

Le vere relazioni tra il lavoro e il capitale non possono mai essere scoperte dall’umano egoismo. Esse debbono essere considerate da un fine più alto che non è il salario o l’accumulazione della ricchezza. Esse debbono essere considerate coordinatamente al fine per cui l’uomo è stato creato.

Ciò premesso, vediamo in che relazione dovrebbero stare il lavoro e il capitale, e quali benefizi risultano dalla loro unione.

Non vi è chi possa mettere in dubbio quanto capitale e lavoro siano necessari l’uno all’altro.

I loro interessi son legati insieme in tal maniera che non possono essere affatto separati. Se vi è qualche differenza, il capitale dipende più dal lavoro, che il lavoro dal capitale. Infatti la vita può essere mantenuta senza capitale. È inutile dimostrarlo. Le grandi masse di esseri, non parliamo degli animali, né dei selvaggi, le grandi masse di esseri umani vivono col loro lavoro giorno per giorno. Ma nessun uomo può vivere delle sue ricchezze. Egli non può mangiare il suo oro e il suo argento; egli non può vestirsi di biglietti bancari, di azioni di società industriali, o di certificati di depositi.

Il capitale non può fare alcun che senza il lavoro, e il suo unico valore consiste nel comprare il lavoro o i suoi prodotti; anzi il capitale stesso è un prodotto del lavoro.

(continua)

 

 

 

 

PER LE RIFORME SOCIALI

 

Svolgeremo l’argomento promesso esordendo col rispondere ex professo alla domanda che mi potrà fare qualche oppositore: il denaro dunque è carattere.

Sì, risponderemo sempre da capo,

Sì, per chi sa guadagnarlo,

Sì, per chi sa spenderlo,

Sì, per chi sa economizzarlo,

Sì, per chi sa impiegarlo.

Per quelli che non adempiono a questi doveri, la strada è per loro bella e segnata, il Calvario.

Novelli Cirenei, vogliamo aiutare col nostro consiglio qualcheduno che per questa via si trova costretto a salire, chi sa e potessimo farlo tornare indietro e menarlo a meta felice? Tal fiata un consiglio vale più che cento denari. Dobbiamo lealmente dire che non tutti i mali vengono per nuocere quando consideriamo l’impressione che à fatto quella nostra sentenza in qualche anima vergine: siamo lieti di questo incidente se non fosse per altro che per avere svolto una tesi che per noi non era affatto segnata in programma, e che ci siamo accorti esser pur necessaria, come infatti lo è, onde i nostri ragionamenti sulle riforme Sociali avessero solido fondamento. Non pare a voi, lettori, così? Studiamo perciò insieme i preziosi pensieri dell’economista Samuele Smiles. È ben la terza volta che ve l’abbiamo nominato, e lo ripetiamo cento e mille volte questo nome, perché ci è troppo simpatico; volesse Iddio e tutti gli operai meditassero il suoi libro: aiutati che Dio t’aiuta! Avverrebbe, senza accorgersene, nella loro anima una prima essenziale riforma, e si avvedrebbero di respirare più libero aere dopo tale attenta lettura. Si avverrebbero che movendosi ciascuno si moverebbero tutti, e senza guerra, e senza chiasso, si troverebbero arruolati sotto un medesimo comando, nella stessa disciplina, guidati dall’unico glorioso vessillo: il carattere.

Ormai tranquillamente incominciamo a meditare la sentenza di Socrate: colui che vuol muovere il mondo, cominci dal muover se stesso.

Operaio, tu che speri un’autonomia, tu che aspiri a una redenzione tieni per fermo che se ciascuno attendesse a riformar se stesso, quanto agevole non diverrebbe il riformare la nazione! In generale non è così: si stima più agevole rifar gli ordini dello stato, di quello che correggere il menomo dei nostri mali abiti, e si preferisce cominciare dal vicino che da se stessi.

Chi vive alla giornata sarà ognora al disotto di altri; necessariamente impotente, sarà zimbello dei tempi e delle stagioni. Non rispettandosi egli non può pretendere rispetto da altri. Coloro che non fanno risparmio per difetto di previdenza, si trovano in balia di tutti, e se ànno un po’ di cuore devono temere grandemente per l’avvenire delle mogli e dei figli. Il mondo, disse una volta Cobdeu agli artigiani d’Huddersfield, è sempre stato diviso in due classi, di quelli che risparmiano, e di quelli che sciupano: gli economi da una parte, i prodighi dall’altra. Tutto ciò che si fa di case, fabbriche, navigli, ponti, tutte insomma le opere che resero l’uomo civile e felice, si devono a coloro che posero in serbo; i quali ebbero ognora schiavi gli sperperatori dei propri guadagni. Aprite gli occhi, o amici lavoratori a quel che vi diciamo è legge di natura della provvidenza che segna così, e saremmo impostori promettendo ad una classe qualsiasi che migliorerà le sue sorti, rimanendo improvvida, spensierata e pigra.

Né men savio di questo fu il Consiglio di Bright agli operai di Roshdale, dicendo: Non v’à che una sola via, per uno come tutti, la quale possa sicuramente mantenerci in prospero stato, o farcelo prospero, se tale non è: quella soltanto dell’operosità, della frugalità, della temperanza e dell’onestà... mille e mille progrediscono e migliorano esercitando tali virtù.

È savio e giusto ordinamento che in ogni umano consorzio vi sia una certa classe la quale procacciar si debba il campamento col lavoro quotidiano, e un’altra che somministra i mezzi ma non è disegno della Provvidenza, che questa classe non debba esser frugale e istrutta, contenta e felice; se questo non è, si dee solo attribuire alla fiacchezza all’intemperanza, alla perversità dell’uomo.

L’idea salutare del progresso di ciascuno da sé, se potesse entrare in capo agli operai, sarebbe leva potente a innalzare la classe intera, senz’abbattere le alte del civile consorzio, ad alto segno di religiore, d’intelligenza, di virtù. I precetti della filosofia morale, dice Montaigne, possono applicarsi del pari alla vita più oscura come alla più splendida. Ciascun uomo porta con sé l’intera forma della condizione umana.

Guardando l’avvenire l’uomo de’ essere parato massimamente a tre casi: mancanza di lavoro, infermità, morte. Le prime due potrà sfuggire, la terza è inevitabile. Tuttavia il prudente trova i mezzi, che non mancano, per render lieve al più possibile a sé e a’ suoi il peso di una di tali sventure, quando l’incolga. Da questo lato considerati, l’onesto guadagno e il risparmio sono della maggior importanza. Se il denaro ci procura molte cose, che non ànno invero utilità di sorta, ce ne procaccia altresì molte altre che ne ànno grandissima; tal’è non soltanto il cibo, le vesti, ecc., ma ed è più la stima di sé, e  l’indipendenza propria (Carattere!).

Ecco il pallio che debbon gli operai a tutt’uomo sforzarsi a vincere, e vinceranno, lo speriamo.

Trafalgar

 

 

 

 

LA CARTA IN GIRO

 

Il secolo XIX può dirsi il secolo della socievolezza e della diffusione del sapere. Esso va innanzi a tutti i passati pei viaggi, pel telegrafo, per la stampa... Migliaia di macchine producono milioni di tonnellate di carta, la quale mercé altre macchine vien convertita del continuo in libri e in giornali, diffondentisi a tenuissimo prezzo. Tutto ciò considerando, dobbiamo congratularci, compiacerci del progredire del secolo. E invero, se le macchine e il vapore bastassero il nostro progresso sarebbe meraviglioso. Ma rimane a vedere se l’enorme quantità di carta stampata che va in giro, giovi a renderci più savi e migliori che non siamo, e inspirarci principii più alti e benefici che non avessero i nostri nonni, quando i libri erano più rari e più stimati, come ai tempi di Shakespeare, di Milton, di Bacone, e di Geremia Taylor. Nessuno vorrà impugnare che l’abbondanza dei libri, e dei diari d’oggidì per molti  rispetti feconda, non porti ancor degli sconci... qualcuno dei quali irrimediabile.

Il clamore che s’alza dalle nostre città manifatturiere, clamore più forte dello strido dei mantici nelle fornaci, è che fabbrichiamo tutto fuorché uomini, imbianchiamo il cotone, temperiamo l’acciaio, raffiniamo lo zucchero, formiamo vaghe stoviglie, ma nei nostri computi non entra mai il raffinare, rafforzare, formare un solo essere vivente e pensante.

Ànno i rimedi proposti pe’ mali sociali e politici che ci affliggono, ànno essi pure assai del meccanico. Sono i riformatori che ci vogliono disposti in parallelogrammi, e uomini bell’ e fatti col solo sopprimere le speranze, le lotte, le difficoltà proprie di uomini. Abbiamo scatole di logaritmi, e conteggi che si fanno girando un manubrio, mentre in addietro gli uomini disciplinavano le leoro facoltà mesi e mesi intorno ad essi... La rapidità onde i giovani oggidì giungono al possesso di molte cose, tende a renderli facilmente soddisfatti, onde tosto s’annoiano. Letti libri in gran numero, sfiorati molti rami dello scibile, divorando lunghe colonne di giornali di qualunque seme, si trovano poi fiaccati da una deplorevole apatia, per non dire peggio; la loro anima senza bussola, né ancora, sospinge qua e là ogni vento; possono comprendere, ma difettano di fede nell’operare. Gente siffatta non si cura di formarsi convinzioni né à forza da ciò; non giunge mai a nulla conchiudere...

La facilità odierna di leggere, porta seco la smania di rendere gradevole di più in più la via del sapere; per modo che il divertimento e l’eccitamento sono i metodi più in voga per ispirare il gusto della lettura e dello studio.

I nostri periodici debbono essere urgenti, vivaci, dilettevoli, curiosi, ed anche ridicoli. Abbiamo già grammatiche e teorie comiche; avremo ancora un Euclide comico, e un comico libro da messa...

I soggetti seri si evitano, perché non piacciono e i libri che vogliono studio ed applicazione si giacciono polverosi negli scaffali, e fosse soltanto questo, sono odiati e vilipesi... Vergogna!

Samuele Smiles

 

 

 

 

CONSORZIO NAZIONALE-LEGATO VANZO

 

Leggiamo nel Bollettino Ufficiale del Consorzio Nazionale quanto segue:

Il Commendatore GIUSTINIANO VANZO MERCANTE di Bassano mancato ai vivi la sera del 17 dello scorso mese di Aprile, ha legato nel suo testamento al Consorzio Nazionale la cospicua somma di Lire Centomila.

La disposizione che si riferisce a questo legato è del tenore seguente:

“Esso mio erede... dovrà pagare al Consorzio Nazionale attualmente presieduto da S.A.R. il Principe di Carignano, Italiane L. 100.000 (dico centomila) intendendo io in questo modo dimostrare il vivo mio amore per la carissima patria nostra, l’Italia, e la mia devozione verso la benedetta Casa di Savoia. Tale somma sarà pagata coi miei Buoni “del Tesoro nel predetto importo di L. 100.000”.

E per il caso che, il testatore dichiara non supponibile, che questa o le altre sue disposizioni fossero in tutto o in parte trasgredite o dall’erede o da qualunque dei benificati, dispose formalmente che quegli che violasse o attentasse di violarle s’intenderà senz’altro decaduto dal beneficio delle disposizioni fatte a di lui favore.

Tutti gli uomini che sentono l’amor di patria sono capaci di innalzare il loro animo a quel sentimento da cui era ispirato il Commendatore Vanzo, potranno apprezzare degnamente la sua munifica liberalità.

La memoria dell’egregio generoso cittadino è intanto onorata da tale suffragio plauso e di riconoscenza che è grande premio della buona azione.

Intendiamo parlare del sentimento di ammirazione con cui generoso legato fu accolto dall’Augusto Presidente del Consorzio Nazionale, alla sapiente tutela ed alla fermezza del quale la patriottica Istituzione è debitrice della sua esistenza e dall’alto grado che ha raggiunto di dignità e di importanza, che le merita la fiducia ispiratrice di atti come quella del comm. Vanzo.

“Ed intendiamo anche parlare dell’onore che viene a quell’atto, dal prezioso encomio di S. M. il Re; poiché l’Augusto Sovrano, conosciuto il fatto, volle fare esprimere a S.A.R. il Principe Eugenio di Savoia il suo vivo compiacimento; lo assicurò che aveva assai gradito quella notizia; che apprezzava altamente l’atto del generoso donatore, e il sentimento patriottico da cui fu inspirato; e si felicitava con Sua Altezza per l’incremento della Istituzione di cui l’Augusto Principe è così degno e benemerito Presidente.

Noi intanto e con noi tutti i rappresentanti della Istituzione, e i suoi fautori, e i suoi amici, consideriamo l’importanza di questo avvenimento, e per sé stesso e come nuova ed eloquente dimostrazione del forte concetto nazionale e del caldo sentimento monarchico che si associano inseparabilmente nel Consorzio Nazionale”.

 

 

 

 

PARTE LETTERARIA

 

SOGNANDO

 

Ingegnati, se puoi d’esser palese.

 


L’altra notte, sognando, m’è sembrato

Di stare in mezzo a un campo sterminato

                        Popolato alla lettera

 

Di gente malcontenta e silenziosa,

Che pareva aspettasse qualche cosa,

                        Con ansia indescrivibile...

 

Guardava tutto a un punto, ove gigante

S’alzava al cielo un palco stravagante,

                        Fatto alla giudaica.

 

Giunto in cima ha sostato e intorno volto

Lo sguardo insinuante e disinvolto

                        D’un uomo usato al genere,

 

Con accento vibrato e originale,

In mezzo a quel silenzio sepolcrale,

                        Ha rotto in questi termini. –

 

“O popolo, latin sangue gentile,

Disprezzato, accasciato e fatto vile

                        Da tante e tante cause,

 

Io vengo ad annunziarti che oramai

Son terminati tutti quanti i guai,

                        Tutte le tue miserie.

 

Ascolta i detti d’un tuo vero amico,

Pondera bene tutto ciò che dico

                        E poi tu stesso giudica. –

I ministri del regno d’ora innanti

Non saran più quei celebri furfanti,

                        Che tutti riconoscono;

 

Essi han giurato fin da tal momento,

Che il solo lor speciale, unico intento

                        È, fare il ben del popolo.

 

Han giurato di fare da protettori

Della sventura e molcere i dolori

            Di tutti quanti i miseri,

 

D’esser la vera guida del paese,

Di pareggiar l’entrate con le spese,

                        Con modi un po’ più logici,

 

E di non più frodar la nazione

Dell’agognato solito milione,

                        Come i passati vandali. –

 

Non si vedrà più niun deputato,

Che aspiri al posto per poi far mercato

                        Del nome d’onorevole,

 

Manovrando per dare al tal di tale

L’appalto d’una strada o d’un canale,

                        Col dritto delle decime.

 

Più non estirperanno agli elettori,

In forza di probabili favori,

                        Il voto nato libero;

E più non cercheranno approfittare

Di chi non ha la forza di parlare,

                        Stremato dall’inedia. –

 

Non vi saranno più dei magistrati,

Che simili ai più miseri impiegati,

                        Non àn volontà propria;

 

Che conoscono il vero con coscienza,

Ma sol perché non ànno indipendenza,

                        Cavillano sui codici,

 

Travisando l’esame del giudizio,

Salvando Caio e condannando Tizio,

                        Secondo altri desidera. –

 

Non vi saranno più certi dottori,

Fatti tali da alcuni professori,

                        Che per aver proseliti,

 

Invece dei principi della scienza,

Insegnan l’immorale e l’indecenza,

                        Martiri umanitarii. –

 

Non vi saran più dei pubblicisti,

Che fra i conservatori e i socialisti,

                        Misuran la politica;

 

Che diffondono in questo o quel giornale,

Principii di sapienza universale,

                        Gonfiati di rettorica;

 

Che sognan quasi sempre ad occhi aperti

Rivolte, guerre nordiche, sconcerti

                        Dinamico-tellurici,

 

E che passando da mattina a sera,

Vigliaccamente mutano bandiera,

                        Per forza d’abitudine. –

 

Non si vedranno più tanti scapati,

Che predican nei club e nei mercati

                        Un caos di repubblica,

 

Che non ha capo proprio e non à coda,

E solo per l’andazzo della moda

                        Declamano, delirano

 

Concitati, frenetici, commossi,

Certe stranezze e certi paradossi,

                        Che i polli fanno ridere. –

Non vi saranno più degli usurai,

Che sono l’apogeo di tutti i guai,

                        Vampiri gentiluomini,

 

Che privi di compianto per le masse,

Più ingordi degli agenti delle tasse,

                        Il sangue altrui si succhiano. –

 

Non vi saranno più preti epuloni,

Monaci miscredenti e birbaccioni,

                        Che rubano, che stuprano,

 

Che vanno speculando ingordamente

Sulle coscienze della buona gente,

                        Col manto del martirio. –

 

Non vi saranno più fanciulle grame,

Che son costrette a vendersi per fame

                        Ai signorotti erotici;

 

Non più madri languenti sui giacigli,

Che per dare a mangiare ai propri figli,

                        Al disonor si piegano. –

 

Non vi saranno più dei barattieri,

Sindaci conti, preti cavalieri.

                        E vituperii simili. –

 

A completar quest’utile riforma,

E far che tutti tengano una norma,

                        Pei reati punibili.

 

Sarà infine un editto proclamato

Che dica: - Da ora a garentir lo stato,

                        Da quelli che lo minano,

 

Saran puniti tutti i traditori,

Fossero pur buonissimi scrittori,

                        D’accordo con i vescovi;

 

Fossero pur stranieri ultra cortesi,

Come tedeschi, svizzeri, francesi

                        Ed altri amici prossimi;

 

Fossero pur signori altolocati,

Che vivono di sonno come i frati

                        Ed al lavoro incitano. –

 

A quei ministri poi casti e devoti,

Che invece d’esser veri sacerdoti,

                        Son tipi di perfidia;

Che invece d’insegnare la morale,

Si divertono a metter lo stivale

                        In mezzo alla politica:

 

Che invece di mostrar pazientemente

La via del Cielo al qualche miscredente,

                        Sobillano e congiurano,

 

Per questi ed altri simili delitti,

Saranno lor paternamente inflitti,

                        Castighi inesorabili,

 

E le pene saran classificate

Per gradi, - a cominciar dalle mazzate

                        A carne nuda e in pubblico,

 

E terminando alle più tormentose,

Cioè strappando ad essi quelle cose,

                        Non molto necessarie. –

 

Dopo questo special rivolgimento,

Dopo questo vital rassettamento,

                        Potremo a un grido unanime

 

Annunziare la pace generale,

Bandir la fratellanza universale

                        E saltellare e ridere. –

 

D’evviva e battimani un gran fragore,

Coprì i detti del nuovo redentore,

                        Surto per incantesimo,

 

E tutti lieti, pazzi, entusiasmati,

Empirono d’osanna interminati

                        Quell’aere mefitico.

 

Se non che nel delirio del contento,

In mezzo al general sbalordimento,

                        Un bruno e ardito giovane,

 

Fattosi largo tra la calca stolta,

Con la chioma nerissima, sconvolta,

            Con l’occhio ardente, impavido,

 

Salito sopra l’alto d’un poggetto,

Gli s’intese prorompere dal petto

Quest’onda d’improperie: -

 

O turba di cenciosi imbastarditi,

Viventi nella mota e stupiditi.

                        Siccome tante pecore,

Voi si spesso burlati e si vilmente,

Credete ancor nel secolo presente

                        Alle promesse mistiche?

 

Credete ancor nella parola aurata

Di questa razza perfida e malnata,

                        Di gabbatori esimii?

 

Dottori ritenea on foste tutti,

Ma non credea fra tanti farabutti,

                        Ci fosser queste bestie.

 

Se sapeste voialtri innocentoni,

Che razza di birbanti e di buffoni

                        Si trovano in Italia,

 

Invece d’acclamar con tanti strilli,

Lapidereste questi coccodrilli,

                        Siccome santo Stefano;

 

Ma il mondo è stato e sarà sempre tale,

Finché un nuovo diluvio universale

                        Non faccia capovolgere

 

Tutto l’orbe cattolico e pagano,

Mandando ogni fedele cristiano

                        Ad abbracciar Lucifero.

 

O masse inerti, floccide e cretine,

Nate pei ceppi e per le ghigliottine,

                        Prostrate nella polvere,

 

Lasciate l’aure inebrianti e molli,

Le case, i monti, i piani, i fiumi, i colli

                        Compagni dell’infanzia!

 

Cercate altrove un cencio, un tetto, un pane,

Che vi mantenga fino alla dimane,

                        Famelici cadaveri!

 

Ite a trovar il sarmata o lo scita,

Andate a terminar la vostra vita

                        Tra i flutti dell’oceano!

 

È questo il loco, che per voi s’aspetta,

Son questi i siti adatti alla vendetta

                        Dell’anime clorotide!

 

Che se vi punge il fervido desio

Di rimaner sul vostro suol natio,

                        Al focolar domestico,

 

Scotetevi dal sonno, o tapinelli,

Bassa genia di strisciatori imbelli,

                        Vergogna della patria! –

 

Di fischi e d’urli un misto generale,

Troncò la foga di quel mettimale,

                        Considerato un reprobo,

 

E quell’orda di popolo indignato,

Scagliossi addosso a quel malcapitato,

                        Gridando: - al sanguinario!

 

Ma mentre esterrefatto io contemplava

Quella scena, che al sangue imperversava,

                        Un rumore istantaneo,

 

Proveniente dal basso della via,

Mi ruppe il sonno e l’alta poesia,

                        E aperti gli occhi subito,

 

Riandando lo spettacolo gradito,

Ancor mezzo assonnato ed intontito,

                        Risi come un mattoide;

 

Specie perché mi parve di vedere

Quel primo coso fatto cavaliere

                        Di S. Maurizio e Lazzaro,

 

E l’altro preso, stretto, imbavagliato,

Deriso, malmenato, calpestato

                        E chiuso nell’ergastolo! –


 

M. de Biase

 

 

 

 

CHE COSA È L’AMORE?

 

Ridurre l’universo ad una sola creatura, estendere una sola creatura, sino a Dio, ecco cosa è l’amore.

Gli amanti separati ingannano la lontananza colle mille cose chimeriche, che pure hanno la loro lealtà. Sono impediti dal vedersi, non possono scriversi; ma pure trovano modo di corrispondere con una miriade di mezzi misteriosi.

S’inviano l’un l’altro il canto degli uccelli, il profumo dei fiori, il riso dei fanciulli, la luce del sole, i sospiri del vento, i raggi delle stelle, tutta insomma la creazione. E perché no? Tutte le opere di Dio furono create per servire all’amore. E l’amore ha tanta potenza da imporre i suoi messaggi all’intera natura. – Se siete sasso, siate la calamita; se siete pianta, siate la sensitiva; se siete uomo, siate l’amore.

 

V. HUGO

 

 

 

 

CONTESSA LARA

 

Chi sia costei, per saperlo basta leggere le due seguenti strofette finali di una poesia, indirizzata ad una bambola.

 

Ma torna a me. Tenendoti

Per mano, il tedio d’affollate vie

Io sfiderò; qual’oasi

Fra me ti poni e le sventure mie.

 

E penserò che urtandomi

In una plebe d’insidiosi e tristi,

S’io vado insieme a un angelo,

Mi guarderanno altri angeli non visti.

L’ape.

 

 

 

 

PER NAPOLI

 

La città ch’ebbe Donato

Un tesor d’intrighi e spese,

Cercò, il Gius... so instaurato,

Per dar ordine al paese.

 

Fé l’Amor, per risanare

Dal Serraglio insino al mare.

Or che avrà? Dolore o gioia?

Questo è certo: avrà la Noia.

 

 

 

CANTO SCOLASTICO

 

Dogali e Saati

Ricordano a noi

Quegl’itali eroi

Che il mond’onorò.

 

Risorta l’Italia

Più grande coll’armi

Decantino i carmi

Che Apollo creò.

 

Ras-Alula vile

Si nom’in eterno:

Accolga l’inferno

Quell’alma feral;

 

E’ crede colmare

L’Italia di scherno

Ma piomb’ in eterno

Su lui ogni mal.

 

M. PERROTTI

 

 

 

 

AVVISO

 

Per guasti improvisti, avvenuti nella tipografia, il Giornale, non ha potuto uscire prima d’ora.

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Se i signori abbonati non si saranno posti in regola coll’amministrazione, per la fine del mese, saremo costretti nel numero venturo a pubblicare senz’altro i loro nomi.

 

 

 

 

MARCELLO DE BIASE – Direttore

 

 

MARCELLINO MASOTTA – Responsabile

 

 

Piedimonte d’Alife – Tip. S. Bastone

 

 

 

STUDIO D’AFFARI

 

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