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·       L’Abbazia di S. Salvatore di Telese.

 

 

INTRODUZIONE

 

Nella pianura irrigata dal Calore, presso un contrafforte del Matese, si trova San Salvatore Telesino popolosa borgata della provincia di Benevento. È dominata dai ruderi di un castello e, poco lontano da essa, si ergono venerandi e solenni gli avanzi di un monastero che fu dedicato al Santo Salvatore.

Questo borgo ricevé esistenza e nome proprio del monastero.

In questo breve studio tratterò la storia dell’abbazia. E lo farò anzitutto per ricerca storica, poi per avere un esempio in più dell’influenza che l’Ordine benedettino ha avuto in queste contrade, e infine per assistere – col mutare dei tempi – alla sua decadenza ed al suo trasformarsi in feudo e poi in Comune che ne raccoglierà l’eredità del nome.

 

 

LE ORIGINI

 

Uno studioso del luogo, Libero Petrucci, asserisce che il monastero fu eretto da Arechi II Duca di Benevento tra gli anni 774 e 787[1].

Egli dice che, distrutta Telese da Seodan “e riedificata la Telese longobarda in sito più distante” i monaci avrebbero fissato i loro coloni in un luogo detto S. Angelo che, per la sua dipendenza dal monastero e per la vicinanza a Telese fu chiamato “Casale San Salvatore”. L’autore però non esibisce documenti e commette qualche anacronismo.

Angelo Iannacchino vescovo di Cerreto sulla scorta del Mabillon, asserisce[2] anch’egli che la fondazione risale al IX sec.; che era una “cella” dipendente da Monte Cassino; e che veniva retta da un Preposito. Riporta pure un atto di donazione di Aione Duca di Benevento: “Tibi Croscio Medico praeposito ad partem monasterii S. Benedicti” che però è da accettare con riserva (non si nomina San Salvatore).

Ora, consultando opere[3], non vi ho mai trovato nominato San Salvatore dal 774 all’841. E pure vi si riportano donazioni[4] a Monte Cassino, a S. Vincenzo al Volturno e a S. Sofia di Benevento. Piuttosto che dare a lontani monasteri i telesini non avrebbero donato alla vicinissima abbazia?

Ma può effettivamente darsi che una “cella” monastica vi fosse, però senza alcuna importanza.

Telese intanto era stata distrutta. Nell’847 il saraceno Massar la pigliava per sete, come racconta l’anonimo cassinese. Fu ricostruita secus primariam in planitie eius nominis; di nuovo fu distrutta da Seodan nell’864, e saccheggiata ancora una volta dieci anni dopo. I dissidi interni dei Longobardi, ridettero ardire ai saraceni annidati in Puglia, e nel 943 ve ne fu un’altra apparizione e poi l’ultima nel 1015. Durante questi anni sciagurati in cui “i vescovi qua e là dispersi non hanno altro scampo che in Roma” come poteva vivere un monastero piccolo e indifeso quando Monte Cassino stessa, fortificate e potente, veniva distrutta?

E se, ancora nei primo trent’anni del secolo XI, nei placiti imperiali o in varie convenzioni[5], Telese torna alla ribalta senza che mai San Salvatore appaia, non resta altro che il poter fissare proprio verso la metà dell’undicesimo secolo la fondazione del monastero.

Infatti residui di affreschi nell’abside dell’antica chiesa, del monastero mostravano abbastanza chiaramente i segni ed i caratteri del secolo XI.

 

 

 

GLI ABATI

 

Il documento, o meglio, il cenno più antico che io abbia trovato del monastero rimonta al 1075.

L’Ughelli nella sua Italia sacra, trattando degli arcivescovi di Benevento, parla di una bolla dell’arcivescovo Milone, appunto del 1075, sottoscritta da Leopoldo abate di S. Salvatore di Telese. Non m’è possibile precisare se questo fu il primo superiore del monastero o se a lui precedettero altri. Lo stesso Leopoldo, tre anni dopo, col metropolita, undici vescovi ed altri tre abati, partecipò al Concilio provinciale di Benevento[6].

Successore di Leopoldo fu il monaco Giovanni, romano già allievo di Sant’Anselmo di Aosta nel monastero di Bec in Normandia.

Nell’aprile del 1098 l’arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra veniva a Roma. Pare che, dopo trattate varie questioni della chiesa inglese, papa Urbano II lo volesse a Bari, ad un concilio abbastanza importante, data la presenza di vescovi orientali. L’abate Giovanni lo invitò a S. Salvatore, e il dotto e pio prelato benedettino vi si recò. Così racconta Odimero che lo accompagnava e poi ne scrisse la vita. Ma quondam calor ibi cuncta torrebat Anselmo chiese di andare altrove. L’abate Giovanni lo condusse nell’altro monastero di S. Salvatore nella villa Sclavia[7], que in montis altitudine sita, sano jugiter aëre conversantibus habilis extat. Qui rimase fino a tutto settembre.

L’autore del Monologium e del Proslogium qui avrebbe steso il Cur Deus homo.

A Giovanni successe l’abate Alessandro. È questa senza dubbio l’epoca d’oro del monastero.

Monaco colto e politico, egli conobbe in Alife la principessa Matilde di Altavilla, sorella di Ruggero II e moglie di Rainulfo III conte di Alife[8].

Premurato da lei l’abate Alessandro scrisse un’opera importante: De rebus gestis Rogerii Siciliane Regis[9].

Non è una cronaca sconnessa; l’abate telesino sa dare una organicità al suo scritto perché ha idee precise al riguardo. Per lui Ruggero è l’autorità, Rainulfo è un ribelle, e un violento, e la sua protettrice e confidente è la prima vittima dell’ambizioso normanno.

La fama dei suoi consigli e l’amicizia della Principessa lo avvicinarono al Re. E Ruggero, pur nei momenti di lotta più aspra col ribelle cognato, non dimenticò mai San Salvatore. Due volte visitò l’abbazia e umilmente vi ricevette dalle mani dell’amico la fratellanza dell’Ordine benedettino che ricambio regalmente con oro e terre[10].

San Salvatore era entrata ormai nella grande politica. Non era scarsa l’influenza che il monastero – e per esso il suo abate – poteva esplicare sia nel campo ecclesiastico che in quello feudale e politico.

Alessandro morì verso il 1140-42 e gli successe l’abate Stefano.

Nel novembre del 1143 questi era a Capua, presente alla Magna Curia ivi riunita da Ruggero, e vi aveva controfirmato un suo decreto. Subito dopo l’assemblea di Capua aveva accompagnato il Sovrano a Salerno, ed aveva apposto la sua firma ad un altro decreto di donazione.

Non m’è riuscito in nessun modo di poter ricostruire da opere o da documenti la serie completa degli abati. Dopo questo periodo aureo il monastero vive una vita più silenziosa, e per trovare nuovi nomi di abati devono passare parecchi anni.

Cosicché solo nel luglio 1237 abbiamo notizia di un altro abate. Il monaco Giovanni nato a Capua, fu benedetto abate di San Salvatore da Gregorio IX in persona, in Anagni. Segno sempre dell’importanza del monastero. Il fatti su ricava dalla cronaca di Riccardo di San Germano.

Dopo un altro lungo periodo è ricordato l’abate Benedetto che dal Re Roberto il Saggio riceve l’investitura il 27 febbraio 1322 ed a lui – tramite il Giustiziere di Terra di Lavoro – dà giuramento. Nel 1343 poi è a capo della comunità l’abate Vito cui capita un increscioso incidente di cui parlo in seguito.

Da un antico manoscritto riguardante la diocesi di Chiazzo ricavo che nel giugno 1391 era abate Anello da Napoli; finché il monastero fu affidato temporaneamente in commenda al vescovo di Chiazzo, ed ebbe per abate Giovanni da Limata nel 1448.

L’abbazia, depositaria di importanti titoli e prerogative feudali, venne esentata in modo assoluto da ogni ingerenza della S. Sede[11]. L’abate era un feudatario, ecco tutto. Di questo ci si preoccupava, e che fosse anche un monaco, e capo e guida di monaci non aveva importanza. Ne derivò una spaventosa decadenza morale e l’inosservanza della disciplina e della stessa regola.

Finalmente dopo la metà del ‘400, troviamo l’abate Mattia, coinvolto nella Congiura dei Baroni. L’abbazia viene spogliata dei feudi e, rimasta soltanto come monastero, verrà presto soppressa.

 

 

UN EPISODIO DI RIBELLIONE

 

Un documento ci prova la giurisdizione – il bancum justitiae – esercitata dall’abate in Carattano, in una sollevazione di contadini.

Le cause s’ignorano, ed io non reputo utile lavorare di fantasia sui sistemi di governo del monastero.

Nei primi di ottobre del 1343 l’abate Vito, successo a Benedetto, accompagnato dai suoi ufficiali baronali si recò a Carattano per amministrare la giustizia a quei vassalli. I contadini lo accolsero gridando: “Muoia l’abate!” e lanciando una pioggia di pietre. L’abate, il baglivo, il mastro d’atti ecc. fuggirono.

Il signore vilipeso ricorse alla Regina Giovanna I – ancora sotto la reggenza della madre, Sancia, vedova di Roberto il Saggio, – e quella col diploma che riporto del 17 ottobre 1434, ordinò alla Gran Corte della Vicaria di procedere rigorosamente contro i colpevoli sediziosi e di punirli. Ecco il documento:

Iohanna Dei gratia Regina Jerusalem et Siciliane etc. Regentibus Curiam Vicarie Regni et Judicibus ipsius Curiae dilectis consiliariis familiaribus et fidelibus suis gratiam etc. Religiosi viri fratris Viti abatis sancti Salvatoris prope Thelesiam fidelis et devoti nostri oblata nobis super peticio querula continebat quod homines castri Caractani vassalli monasterii supradicti diebus non longe praeteritis erigenti in eum rebellionis proterve calcaneum, armati armis prohibitis in ipsum abatem, officiales et familiare suos impetuosum fecerunt insultum clamantes funestis vocibus moriatur abbas, moriantur officiales sui et qui per illos sibi volunt justitiam ministrari pluresque lapides proiecerunt in offensionem ipsorum quodque occidissent dictum abbatem nisi quia velociter fugiens de Castro ipso recessit. Propter quod nostra per eum circa correcionem dictorum delinquencium circa penam sanguinis oportuna previsione petita nosque excessum nunc satis moleste gerimus nolentes excedentes ipsos defectu prosecutoris idonei sine pena reliqui fidelitati vestra de consilio et consensu Inclite Domine Sancte Dei gratia Jerusalem, et Siciliae Regine reverende domine matris administraticis et gubernatricis nostrae ac aliorum administratorum et gubernatorum nostorum praesentium tenore commictimus et mandamus expresse quatenus de premisso excessu contre dictos homines ex officio speciali curretis inquirere vigore Capituli de iniuriis illatis Ecclesiis et personis ecclesiasticis editi et quos culpabiles inde inveneritis sic rigide mediante iusticia puniatis quod eis ausus tante presumptionis penalis adveniat et per exemplum alii excedere pertinescant. Datom Napoli ut supra per Adenulfum Cumanum etc. anno domini MCCCXLIII die XVII octobris XII Inditionis Regnorum nostrorum anno primo[12].

 

 

DURANTE LA CONGIURA DEI BARONI

 

L’abate feudatario si trovò naturalmente coinvolto nella sollevazione signorile contro Casa Aragona. L’abate Mattia si schierò coi signori ribelli, come questi ebbe la peggio, e la sua condotta sbagliata procurò anche una disastrosa situazione per l’Abbazia.

Re Ferdinando I – come ci narra l’illustre suo segretario Gioviano Pontano[13] – verso la fine d’ottobre 1459 si mosse con l’esercito da Capua, e tra scorrerie, assedi e saccheggi sottomise buona parte del Sannio[14].

Fu in questa campagna che Carattano, saccheggiata e distrutta, cessò di essere Università, e l’abate Mattia, fautore dell’invasore[15], se ne andò in esilio.

Il Re, per mezzo del suo Commissario Nicola de Mastrobuono, s’impossessò di tutti i feudi di S. Salvatore con un istrumento redatto dal notaio Bartolomeo Merenda; e ne affidò l’amministrazione al magnifico Caprio Riccio di Faicchio, medico della terra di Gioia[16].

 

 

I BENI FEUDALI

 

Nessun accenno è nel Catalogo dei Baroni che riguardi l’Abbazia e le sue terre feudali, mentre pure vi si parla di ben ventitré feudatari ecclesiastici, e d’altra parte si sa che essa nel sec. XII possedeva alcuni feudi. Basterebbe citare quello di Schiavi (fin dal sec. XI), l’altro che era il tenimento stesso di San Salvatore, nonché Raieta e Carattano.

Non resta altro a concludere se non che, sebbene non fossero puri allodii, non erano ancora costituiti in veri feudi.

L’Abate Alessandro avrebbe avuto dal Re Ruggiero II – stando al Petrucci e allo Iannacchino – i feudi di San Salvatore col monte Acero, Carattano e Villa degli Schiavi. Il re in questa occasione avrebbe concesso all’abate anche la giurisdizione criminale, tolta poi nel 1420 dalla Regina Giovanna II.

Pure durante il sec. XII la prosperità del monastero crebbe sempre più; ed alle terre già possedute vedeva aggiungerne altre a Dragoni, Baia, Montecalvo ed altrove. Alcune di esse feudali per concessione sovrana o, comunque munite di regio sigillo, altre burgensatiche per offerte di fedeli.

Prove giuridiche di questi feudi esistono solo dal periodo angioino (l’Archivio svevo che stava in Melfi fu bruciato, come si sa, da Carlo I d’Angiò durante la conquista del Reame).

Ma neanche per questo periodo vi sono poi molti documenti, e forse perché il tranquillo monastero, oltre la soddisfazione degli obblighi cui era tenuto per le sue signorie feudali, ebbe poche occasioni di suscitare cause o di accumulare ricorsi innanzi al Governo e alle Magistrature.

Il più antico documento feudale che riguardi San Salvatore è un diploma di re Carlo II sottoscritto nel 1295 a favore dell’abate per la presa di possesso di varie terre tra cui il castello di Carattano, con tutte le prerogative consentite dai Capitoli del Regno[17].

Pure dai registri angioini risulta che l’Abbazia possedeva in feudo il casale di San Salvatore di Telese, il casale di Villacursina, il casale di Carattano, il casale di Villa Schiavi, il casale di Corto Porto (presso Telese), il casale di Raieta (in comune di Gioia), il casale di Veneri (oggi Castelvenere), il casale di Alvignanello e quello di Campagnano con militi o cavalieri, vassalli e rendite[18].

Questi feudi erano costituiti tutti, non solo da vasti territori e da boschi, ma anche da castelli. Formavano un patrimonio immobile, individuabile e fidecommissario; ed erano concessi all’Abbazia con l’obbligo della fedeltà al Sovrano, come appare dall’investitura e dal ligio omaggio prestato nel 1306 dall’abate Benedetto.

Erano dunque riconosciuti dal Fisco nelle mani dell’abate come perfetti feudi quaternari di regia investitura.

Nella Cedula generalis subventionis in Justitieratu Terrae Laboris et Comitatus Molisii che porta anche la corrispondente imposta fiscale trovo tre feudi di San Salvatore così descritti :

Casale Sancti Salvatoris – tar. 22, gr. 11; et pro alleviatione Caiacie tar. 5.

Caractanum – unc. 7, tar. 15, gr. 15; et pro alleviatione Castri Albiniani tar. 3, gr. 10; et Terre Caiacie unc. 2.

Sclavi – unc. 9, tar. 18, gr. 5.

E cioè per il Casale S. Salvatore si dovevano pagare 22 tarì e 11 grani, più 5 tarì per l’imposta di “rilievo”[19] a Chiazzo; per Carattano 7 once, 15 tarì e 15 grani, più 3 tarì e 10 grani per il “rilievo” ad Allignano e 1 oncia a Chiazzo; per Villa Schiavi 9 once, 18 tarì, 3 5 grani.

 

 

L’ABBAZIA TRASFORMATA IN COMMENDA

 

Devoluti i beni al R. Fisco sotto Ferdinando I, il monastero, rimase – per i numerosi allodii – sempre in condizione di poter vivere. Mancava l’abate. La S. Sede provvide nominando Mattia de Palmeriis, segretario di Papa Sisto IV allora regnante.

La nomina non incontrò il favore sovrano per cui tra la Corte e la Curia romana cominciò un vivissimo scambio di raccomandazioni e proteste[20].

Finalmente il re fu contentato. Egli voleva una sua creatura e questa fu Ferdinando Monsorio figlio di Giovanni, regio maggiordomo, nato in una famiglia di non antica nobiltà e feudataria nella zona telesina[21].

Fu il Monsorio a sostenere nel 1487 la lite contro l’Università di Gioia per l’esercizio degli usi civici in Carattano, e da questa causa uscì vittorioso.Una “platea” dei beni del monastero – feudali e burgensatici – fatta nel 1369, fu da lui e dal duca Giovanni suo padre, affidata al notaio Cesare di Napoli nel 1489 per rivendicazioni.

L’abbazia regolare fu soppressa nel 1459-60 e con le sue rendite fu da Roma formata una Commenda di libera collazione pontificia, con l’obbligo ai Commendatori di provvedere al mantenimento della chiesa, di farla officiare nei giorni festivi e di mantenersi un eremita stipendiato.

È facile immaginare la decadenza dell’antico monastero. Le sue terre allodiali rimasero incolte, la chiesa – ov’erano raccolte opere insigni – fu abbandonata, l’archivio sperperato, senza che i commendatarii, attratti da altri pensieri, curassero un poco gli interesse economici della lontana abbazia.

Le rendite di San Salvatore servivano soltanto a formare l’appannaggio d’un ecclesiastico rinomato per dottrina o per carriera come l’altro Monsorio, Giacomo, che ottenne la commenda il 27 settembre 1587. L’anno prima gli ultimi monaci avevano abbandonato il monastero per non morire di fame. E pure dagli atti di S. Visita del vescovo di Cerreto, mons. Savino si ricava che essi dovevano ricevere annualmente 48 ducati e 48 tomoli di grano e barili di vino e alcune staia di olio!

Nel 1606 troviamo abate commendatario il Card. Peretti, nipote di Sisto V, il quale aveva ricevuto la commenda della Congr. Concistoriale. A lui successe Pompeo Garigliano da Capua, professore di filosofia del Collegio Romano, che morì nel 1626. da una relazione di S. Visita del vescovo di Cerreto Marioni si ricava che nel 1655 aveva la commenda Francesco Polino canonico di S. Maria Maggiore in Roma. Col disastroso terremoto del 1688 la chiesa rovinò, e il Polino la rifece a sue spese (Atti di S. Visita di Giov. Batt. De Bellis vescovo di Cerreto). Egli fece murare sulla porta una lapide[22].

Durante il primo ‘700 era commendatario un De Marinis di Genoano che però vi rinunziò nel 1747, e fu nominato Giovanni Bruni da Guardia Sanframondi, un prelato di spiccate qualità, ben visto dal S. Collegio, e che aveva officiato in tre conclavi ed era stato Uditore del Card. Spinelli.

 

 

FINE DELLA COMMENDA

 

Con la prammatica del 1741 le università del Regno dovettero procedere alla formazione di nuovi catasti. L’abate commendatario Don Giovanni Bruni, di cui ho già fatto cenno, presentò nel 1754 la rivela dei beni che l’Abbazia possedeva nel territorio dell’Università di Piedimonte. Egli dichiarò di possedere Carattano.

Questa rivela fu discussa il 10 maggio 1754, l’apprezzo dei beni fu approvato e Piedimonte allibrò nel proprio Onciario questi territori[23].

Erano cominciati intanto i noti dissidi tra la Corte di Napoli e la S. Sede. Essi riguardavano, tra l’altro, provviste di benefici.

Nel 1765 Ferdinando IV informava la Real Camera di S. Chiara di aver osservato che la S. Sede provvedeva alcune abbazie del Regno come commende, e queste non erano altro che monasteri soppressi. Questo era un abuso poiché se mancava la conventualità ed era estinta l’abbazia regolare, la S. Sede non poteva commutare la volontà dei più largitori e ridurre a beneficio ecclesiastico i rimasti beni temporali di un monastero soppresso. Le commutazioni sono un diritto esclusivo del Principe. Re Ferdinando informava pure la Camera che un tale abuso recava pregiudizio ai diritti della sovranità e dello Stato, e perciò aveva ordinato alla Curia del Cappellano Maggiore di osservare nei suoi registri, dal principio del ‘700, le provviste dei benefici aventi titolo di abbazia, e di rimettergli le note, indicando le località; di riferire, insomma, per le sovrane determinazioni[24].

In questa trasformazione del patrimonio ecclesiastico non poteva sfuggire San Salvatore di Telese, e perciò, morto nel 1765 Don Giovanni Bruni, la R. Camera di S. Chiara, con consulta del 15 novembre 1766, fu d’avviso che l’Abbazia poteva essere devoluta al R. Patronato come legato pio e cappellania laicale con l’annua rendita di ducati 1211,60.

Il Re approvò tale consulta e, reintegrando alla Corona l’antica abbazia, le conferì – con dispaccio del 2 dicembre 1765 – al sacerdote Ferdinando Strina, precettore delle Principesse reali.

Il 17 ottobre 1781 fu costituito il Monte frumentario del regno con un fondo di 120.000 ducati. Metà di questa somma si doveva ricavare dalle chiese e dai benefici vacanti di regio patronato o collazione, e dagli spogli dei vescovadi vacanti pure di regio patronato. In ogni diocesi fu nominato un R. Economo che doveva rendere strettamente conto della sua amministrazione alla camera di S. Chiara. Sicché, quando, il 24 novembre 1791, morì l’abate Strina la Real Camera ordinò al R. Economo di Cerreto di sequestrare le rendite della vacante abbazia.

L’Economo trasmetteva a quel Tribunale lo “Stato della R. Abbazia di S. Salvatore anticamente detta della Valle Telesina, vacante per morte del Rev. Abate D. Ferdinando Strina, con altro stato formato nel 1786 e rimesso alla Real Camera una con le carti comprovanti in occasione della morte del fu Abate D. Giovanni Bruni e riportato nella presente situazione”.

In questo “Stato”[25] sono descritti i beni dell’Abbazia nel Casale San Salvatore, in Telese, Solopaca, Faicchio, Carattano, Baia, Schiavi, Maiorano di Monte e Dragoni e i loro fitti[26]. È pure descritta la chiesa di San Salvatore. Termina poi così: “Cerreto, 6 dicembre 1791 – Domenicantonio Mozzarella R. Economo della Diocesi di Cerreto seu Telese”.

Nel 1804 ebbe l’investitura di S. Salvatore – dopo tredici anni di vacanza – un abate Zucchini di Firenze che fu l’ultimo abate secolare.

 

 

CONCLUSIONE

 

Il 2 agosto 1806 la giurisdizione feudale era abolita e veniva nello stesso tempo colpita la manomorta con le leggi di ammortizzazione.

Dal Governo furono vendute tutte le proprietà della Commenda, perfino la chiesa di San Salvatore col giardino annesso: in tutto 150 moggi.

Il terremoto del 26 luglio 1806 aveva dato l’ultimo colpo. Il tetto del tempio, in cui per secoli si era sentito il grave salmodiare dei Benedettini, era crollato. Erano cadute anche le mura della sacrestia e gli ultimi resti del monastero longobardo.

Nessuno aveva pensato a un restauro o almeno ad un rafforzamento e tutto, da allora, è rimasto un rudere.

I soliti archeologi poi vi tolsero l’ultima tomba[27]. La tomba d’un guerriero, Pietro Braerio, morto nel settembre 1298. Egli, conte di Caserta e di Telese, signore di numerosi feudi, Giustiziere di Terra di Lavoro e del Molise, Siniscalco, Precettore di Carlo Martello[28] fu anche devoto benefattore della famiglia benedettina di Telese, e tra i monaci – dopo una vita di lotte – aveva pensato di poter riposare per sempre.

 

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[1] Petrucci L.: Storia di Telese (manoscritto presso la Deputazioni di Storia patria in Napoli).

[2] Iannacchino Angelo Michele: “Storia di Teleria ecc.”, Benevento 1900, pag. 93.

[3] Cfr. Cronaca di S. Vincenzo al Volturno in Muratori: “Rerum italicarum scriptores”; Erasmo Gattola: “Ad historiam abbatiae cassinensis accessiones” Venezia 1734, vol. I p. 36; Alessandro Di Meo: “Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli.

[4] Nel 774 il Duca Arigiso dona a S. Sofia terre e Chiese in Limata ecc.; nell’800 Fendaco dona a Monte Cassino e a S. Vincenzo parte del casale di Telese e terre in Puglianello e Limata; nell’803 Radeprando pure a S. Vincenzo dona una corte vicino a Telese; nel settembre 805 Alahis lascia a S. Vincenzo rem meam quam habeo in finibus Capue sue in telesinis et alifanis finibus; nell’806 i telesini Lampo e Romano donano tutti i loro beni anche a S. Vincenzo; nel gennaio 841 il gastaldo di Telese, Maione, in punto di morte dona tutto a Montecassino, tra l’altro due corti una quae est in Pullianella et finibus telesinis et alia in finibus Alifie.

[5] Nel 1022, a Benevento, Adelberto abate di S. Luppolo restituiva molti beni in Telese all’abate Ilario di S. Vincenzo; c’è poi una convenzione dell’abate Ilario col conte Aldemaro per proprietà in Telese; Enrico II da Troia obbliga a restituire una corte in Telese pure ad Ilario; nel 1019 infine un’altra eredità della zona telesina risulta data a M. Cassino. Da Iannacchino, op. cit.

[6] Rossi Giovanni: “Catalogo dei vescovi di Telese”, Napoli 1827, p. 61.

[7] Dal 1861 Villa Liberi in provincia di Caserta.

[8] Cfr. il Quaderno N. 1 “Ruggero II e Rainulfo di Alife”.

[9] In Del Re: “Cronisti e scrittori sincroni napoletani”.

[10] Il Re nel suo dispaccio da Salerno a Gangellino suo Vicedomino ordinò di concedere all’abbazia la montagna sovrastante (Monte Acero) dove poi fu costruita la rocca di difesa dei monaci. Ed il Petrucci (op. cit. lib. IV, cap. 19) dice che anche allora il casale San Salvatore – già proprietà allodiale – fu riconosciuto come baronia del monastero.

[11] Inventario di Telese: “Monasterium S. Salvatoris cum suis casalibus, videlicet Sancti Salvatoris et Rajeta, quae tenet exempte, et publice fertur ad Romanam Ecclesiam nullo modo pertinentis, cum hominibus, vassallis et territoris, etc.”.

[12] Registro angioino 1343 – I. N. 341. fol. 491.

[13] Pontano: Historia. Napoli 1591, pag. 110.

[14] Cfr. Ciarlante G. V.: Memorie storiche del Sannio, Isernia 1644.

[15] Il duca Giovanni d’Angiò.

[16] Questo risulta da un processo agitato nel 1487 nella Gran Corte della Vicaria tra l’abate di San Salvatore e l’Università di Gioia. I documenti relativi sono nell’archivio comunale di Piedimonte d’Alife.

[17] Cfr. Registro angioino 1295. Vol. 78, fol. 288.

[18] Altre notizie su San Salvatore si trovano in questi registri, e precisamente in quelli segnati  1311, 12 fol. 121-125; 1319. E vol. 223, fol. 130; e nel fascic.  n. 36, fol. II.

[19] Per uso di pascoli e “bonatenenza” di proprietà.

[20] Questo risulta da due lettere di Ferdinando I entrambe del 1482 ed indirizzate al cardinale di Napoli. Reg. Privilegi della Sommaria, vol. 21, f. 241 e 241 ti.

[21] I Monsorio erano feudatari nella zona e possedevano tra l’altro San Salvatore (da quando il feudo era stato tolto all’abbazia), Solopaca e Castelvenere.

[22] L’iscrizione è conservata nel Museo Alitano di Piedimonte d’Alife. Essa è scolpita sul rovescio di un’epigrafe romana riguardante le terme di Telese. Eccola:

ECCLESIA VIRGA TRIA GESTAT MISTICA SIGNA

(in mezzo c’è un baculo abbaziale)

ATTRAHIT ATQUE REGIT BONA QUAE CONTRARIA PELLIT.

[23] Archivio comunale di Piedimonte: Catasto Onciario del 1754, fol. 1417.

[24] Archivio di Stato di Napoli: Consulte della Camera Reale vol. 198, fol. 441.

[25] Curia del Cappellano Maggiore. Processi di R. Patronato. Vol. 1037, fol. 5 e segg.

[26] Strumento del notaio Pizzella di Caserta, 10 marzo 1787.

[27] È al museo di Piedimonte d’Alife.

[28] L’amico di Dante figlio di Carlo II d’Angiò. Cfr. Il Paradiso, C. VIII.