Non ci occuperemo, in questo breve articolo, della
ricchezza intesa alla maniera di San Paolo, vale a dire: “Bontà”
(Rm 2,4), “Gloria” (Rm 9,23; Ef 3, 16), “Sapienza”,
“Scienza” (Rm 11,33) e “Grazia” (Ef 2,7; Fil 4,19) di
Dio Padre e (Ef 1,7 e 3,8; Col 4,19) di Gesù Cristo nostro Signore,
l’obbrobrio del quale “è maggiore dei tesori d’Egitto”
(Eb 11,26) ma della sua accezione terrena (quella di questo mondo, fonte in
genere di preoccupazioni, bramosia e tristezza ma il cui buon uso evidenzia il
permanere presso di noi dell’amore di Dio) ed in modo più specifico della
sua componente numeraria, presente esplicitamente, sotto diverse voci, in una
sessantina di versetti del Nuovo Testamento, cercando anche di seguire, con il
trascorrere dei secoli, l’introduzione ed il perdurare di tematiche
cristiane nei conî.
Nei sacri testi non mancano, ovviamente, esortazioni
tese ad evitare l’eccessivo attaccamento al denaro (Mc 6,8; Lc 9,3; 1Tm
3,3) con la messa in guardia dai pericoli derivanti dal possesso morboso (Lc
16,14; 1Tm 6,10; 2 Tm 3,2), dalle lusinghe dei simoniaci (At 8,18-20) e dal
proficuo lucro dei mercanti e dei cambiavalute (Gv 2,15). La moneta vi appare,
a volte, tesaurizzata (Mt 25,25; Lc 19,20), smarrita e ritrovata (Lc 15,18-19),
ma anche usata come paga per i lavoratori (Mt 20,1-16), o per fare offerte al
tempio (Mc 12,41-42; Lc 21,2); è mezzo di contrazione di debiti (Mt, 18,24-28;
Lc 7,41) e di pagamento dei tributi (Mt 17,27 e 22,19; Mc 12,15; Lc 20,24);
viene investita e frutta interessi (Mt 25,14-30; Lc 19,11-27); con essa si
possono acquistare passeri (Mt 10,29; Lc 12,6), pane (Mc 6,37; Gv 6,7),
sepolcri (At 7,16), campi (Mt 27,7) e si può provvedere all’assistenza
dei poveri e dei malati (Mc 14,5; Gv 12,5; Lc 10,35); è, infine, il prezzo
fissato per il tradimento (Mt 26, 15-16; Mc 14,11; Lc 22,5) e per la menzogna
(Mt 28,11-15).
I termini greci usati sono:
ταλάντα – μνάς
– στατήρα –
δραχμάς –
λεπτά e δηνάρια
oppure in modo generico viene indicata la loro composizione metallica e cioè
χρυσόν – άργυρον
– χαλκόν.
Talenti e mine però, essendo multipli molto alti del
valore unitario adottato nel sistema monetario attico, in realtà non venivano
coniati ed i vocaboli erano adoperati quasi esclusivamente nell’uso contabile.
Lo statere originario e la dracma erano rispettivamente le unità di misura
dell’oro e dell’argento, il lepton un piccolo divisionario
di bronzo corrispondente ad un centesimo di dracma. L’inviso denario era
il simbolo della ormai secolare presenza romana e del tributo dovuto a Cesare,
invece la moneta tipicamente ebraica era il siclo (sheqel)
corrispondente al tetradramma greco o statere di nuova denominazione.
La croce, il crisma ed il labaro.
Parrebbe spettare a Edessa, antica città della
Mesopotamia, nei pressi della odierna Urfa in Turchia, il primato di aver
introdotto la croce sui conî monetali già alla fine del II secolo. Dovranno
passare però ancora circa 150 anni prima della sua comparsa
“ufficiale” nella monetazione imperiale romana avvenuta con
Costantino dopo la famosa vittoria sul rivale Massenzio al ponte Milvio. È da
notare l’astuto sincretismo dell’imperatore che, in quel delicato
periodo di transizione volle prudentemente associarla al preesistente culto
solare anch’esso rappresentabile in tal modo presso la maggioranza dei
suoi sudditi ancora pagani. Molto più esplicito, ma pur sempre in codice, è il
crisma o monogramma costantiniano XP (le prime due lettere del nome Cristo in
greco) che pure ritroviamo nelle sue monete, ad un certo punto anche sotto
forma di stendardo o labaro.
Ad eccezione di Giuliano, il principe filosofo e
letterato, tradizionalista, dichiaratamente ostile al Cristianesimo, i
successori di Costantino al governo dell’Impero sempre più frequentemente
usarono sulle monete i simboli suddetti, in sostituzione o in concomitanza con
quelli profani, promulgando nello stesso tempo leggi restrittive verso i culti
pagani, fino alla totale messa al bando degli stessi per opera di Teodosio I il
quale, con l’editto di Tessalonica, proclamò religione di Stato quella
“che dal divino apostolo Pietro fu trasmessa ai Romani”. Da allora
fino ad oggi, ininterrottamente, ormai per più di sedici secoli, la simbologia
cristiana, ed in special modo la croce, nelle sue molteplici varianti
stilistiche, ha sempre trovato sul nostro pianeta un’autorità emittente
che l’ha riprodotta in valuta.
Vediamone qualche esempio, variamente ingrandito, incominciando proprio con la croce monogrammatica costantiniana ripigliata, però, da un tremisse d’oro di Teodosio II risalente al primo quarto del V secolo.
Per illustrare la croce latina, detta anche immissa
o capitata, ci avvarremo dell’esagrammo d’argento, battuto a
Costantinopoli tra il 615 e il 638, durante il regno di Eraclio ricordando che
per accrescerne il senso trionfale già da vari decenni essa era posta al di
sopra di una gradinata.
La croce commissa, o patibulata, per
la sua caratteristica foggia detta anche Tau era, in particolari
momenti, usata da principi cristiani, anche sotto forma di caratteri ornamentali,
per non urtare la suscettibilità dei propri sudditi di diverso credo.
Abbastanza noti, sotto questo aspetto, sono i tarì “ad alberello”
del normanno Ruggero II coniati nel periodo che va dal 1112 al 1130.
Anche la croce quadrata, o greca, che in alcune
varianti stilistiche è detta di Gerusalemme, in altre di Malta, in altre ancora
di San Maurizio etc., offre numerosissimi esempi monetali, ma per brevità ci accontenteremo
di un prototipo recentissimo: i cento franchi d’oro emessi dalla
confederazione elvetica per il bimillenario della nascita di Gesù.
Per l’ultimo tipo di croce, ossia la decussata,
detta pure di S. Andrea, proponiamo un tallero tedesco del 1597, altri facili
esempi sono le chiavi pontificie, simbolo che continua ad apparire anche nei
tipi vaticani odierni.
Pubblicazioni qui presenti Mario Nassa ha pubblicato Home page Il Cristo è(continua)