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Antonino Di Iorio

 

PROFILO STORICO DELL’ANTICO SANNIO

(in A. Di Iorio, Scritti vari, vol. II, 2003, pp. 55-68)

 

 

 (pp. 58-68)

 

...Mentre in Lombardia si andavano consolidando le prime migrazioni celtiche nell’entroterra appenninico, dall’Umbria alla Calabria, quelle popolazioni, rimaste fino ad allora nelle forme tribali perché non ancora raggiunte dalla civiltà cosiddetta urbana cominciarono ad avvertire l’attrattiva verso le pianure costiere sia per effetto di esuberanza demografica; sia in conseguenza del fenomeno della transumanza, che d’inverno obbligava le greggi a raggiungere i pascoli di pianura.

La dorsale appenninica da Rimini alla Lucania era occupata dai popoli cosiddetti Italici i quali, giunti in Italia in età preistorica, parlavano i dialetti umbro-oschi. Riusciti vittoriosi contro Liguri e Siculi, successivamente occuparono tutta la zona appenninica fino al Mare Ionio, ma scontratisi con gli Etruschi restarono vinti perdendo, secondo gli storici antichi, ben trecento città. Divenuti pastori nomadi si stanziarono nell’Italia centro-meridionale in gruppi più o meno consistenti, chiamati Falisci, Latini, Umbri, ecc.

Queste popolazioni, dislocate lungo la dorsale appenninica dall’Umbria alla Lucania, costituirono, ad eccezione degli Etruschi, il più consistente gruppo dell’Italia antica e passarono alla storia col nome di Umbro-Sabini.

Strabone e Dionigi d’Alicarnasso riferiscono che i Sabini, subito dopo essere usciti vittoriosi da un guerra con gli Umbri, furono colpiti da gravi calamità per cui fu necessario interpellare gli Dei. L’oracolo riferì che occorreva placare il Dio Marte  -irato per la sconfitta subita dagli Umbri-  consacrandogli ogni nato maschio nella oramai prossima primavera. Ebbe così inizio presso i Sabini il cosiddetto “VER SACRUM” (ossia primavera sacra), che consisteva nel promettere in sacrificio agli Dei: vegetali, animali, uomini. Solo successivamente, volendo evitare di uccidere innocenti fanciulli, i giovani promessi furono fatti emigrare in cerca di una Patria. Erano guidati da un Dio, il quale inviò loro un animale sacro: il lupo per gli Irpini, il picchio per i Piceni, il toro per i Sanniti.

Così i Sabini, lasciate le paterni sedi del reatino, si diressero verso il sud guidati da un toro di singolare bellezza ed avendo per capo il mitico condottiero Comio Castronio. Raggiunto l’alto bacino del Sangro fecero il loro principale stanziamento nella sua stretta vallata e occuparono l’alpestre regione compresa fra Alfedena, Castel di Sangro ed Agnone.

Ivi fondarono la più antica capitale nella località ove avvenne l’ultima sosta del toro sacro che aveva guidato gli emigranti. Infatti nel territorio di Pietrabbondante sono state rinvenute due significative iscrizioni osche: nella prima, l’unica finora nota, si legge il sostantivo osco “BUVAIANUD” (latino Bovianum) e nell’altra si legge “SAFINIM” che indica appunto l’intera comunità del Sannio.

Questi giovani emigranti stanziarono in un territorio comprendente le alte valli del Sangro, del Volturno, del Trigno e del Biferno, corrispondente oggi alla parte meridionale dell’Abruzzo, al Molise ed alla regione montuosa della Campania orientale.

A proposito del nome Sanniti molti scrittori lo fanno derivare dalla parola “Samnu” contenuta nelle tavole Eugubine ed interpretata per consacrato; da Samnu sarebbero stati detti Samnites quei giovani Sabelli nella incresciosa ora della espulsione dalla Patria a causa delle ricordate “Primavere Sacre”. Sesto Pompeo, invece, fa derivare il nome da particolari aste o lance usate dai Sanniti in guerra. Poiché i Greci chiamavano Saùnia tali aste e Sauniti quelli che le adoperavano, Catone scrisse che “i Sabelli sono discendenti dei Sabini e vengono chiamati Sanniti dai Latini e Sauniti dai Greci”.

Le grandi tribù discendenti dal tronco principale dei Sanniti furono: i Caraceni (detti dalle fonti letterarie anche Carecini e Carentini), i Pentri, i Frentani, i Caudini e gli Irpini.

I Caraceni, la tribù più piccola ma storicamente più antica, abitarono le alte Valli del Sangro e del Trigno e fra le città si ricordano “Aufidena” e “Bovianum Vetus” presso l’attuale Pietrabbondante. I Pentri rappresentarono la più importante tribù del Sannio ed abitarono la parte centrale del suo territorio. Fra le numerose città “Bovianum Undecumanorum” (attualmente Boiano), Aesernia, Terventum, Saepinum, ecc.

I Frentani abitarono le regioni pianeggianti comprese fra le vallate del Trigno e del Biferno. Fra le città più importanti si ricorda “Larinum”.

I Caudini abitarono i bacini dei fiumi Volturno e Calore, a sud dei Pentri, tra i confini della Campania e dell’Irpinia. Fra le città Caudio, Trebula, Telesia, ecc.

Gli Irpini occuparono il territorio compreso fra la sinistra del Volturno ed il Calore, cioè quello confinante con gli stati della Campania. Fra le città Eclano, Celenna, ecc.

A causa delle particolari condizioni fisiche del Sannio, poco favorevoli ad un incremento della popolazione, il costume del “VER SACRUM” diede inizio ad ulteriori migrazioni nella vicina Campania, attraverso le valli del Volturno. Questa regione era abitata dai modesti, laboriosi ed intelligenti Osci, cioè operai della terra, che vivevano pacificamente con i Greci e gli Etruschi, i primi abitanti lungo la costa e gli altri più nell’interno.

Nel 421 a.C. i Sanniti, in fase di espansione verso la Campania, occuparono Capua e Cuma, rispettivamente la città principale degli Etruschi e la più antica colonia greca. Tuttavia i due centri non furono mai legati da vincoli di dipendenza con i Sanniti rimasti nelle zone montuose.

Dopo la guerra contro i Volsci, Roma ebbe il controllo del Lazio meridionale e venne a trovarsi a ridosso dei territori, della Federazione Sannitica, in seno alla quale si andava già maturando sempre più un movimento unitario che intendeva dare origine ad uno stato moderno, situato nel cuore dell’Italia, dal golfo di Salerno al Mare Adriatico.

Volevano i Sanniti riunire tutte le tribù di lingua osca perché, finalmente, si erano resi conto della loro grande importanza militare ed economica, di gran lunga superiore a quella della stessa Roma.

Per portare a termine questo ambizioso, ma non irrealizzabile piano, il Sannio riservò cure particolari all’addestramento dei cittadini alle armi e alla organizzazione di un valido apparato militare. Tutti i cittadini avevano l’obbligo di addestrarsi, anche in tempo di pace, alle armi, per maneggiarle con coraggio e destrezza. Il nucleo principale dell’esercito era la fanteria perché meglio si adattava alla difesa del suo territorio, in gran parte montuoso; disponeva anche di uno scelto corpo di cavalleria che serviva per inseguire ed accerchiare il nemico. Era l’Irpinia che forniva cavalli di razza selezionata.

Il guerriero vestiva splendide armature che davano maggiormente risalto alla sua slanciata ed atletica corporatura, portava una tunica a maglia screziata, un elmo cesellato munito di paraguance e sormontato da un alto e folto pennacchio che dava maggiore imponenza alla sua longilinea corporatura, usava eleganti calzari e alla gamba sinistra portava a scopo ornamentale uno schiniere o gambale in bronzo di elegante fattura.

Oltre allo scudo e ad una larga e corta spada appesa ad una cintura di cuoio, l’arma principale era il cosiddetto pilo, ossia un’asta con punta. I Sanniti, allo scopo di suscitare un acceso spirito di emulazione, dividevano l’esercito in due corpi: ad uno appartenevano i veterani, che indossavano uno scudo aureo ed una tunica screziata; all’altro  -detto linteato-  militavano i soldati vestiti con una bianca tunica di lino e muniti di scudo d’argento.

I più coraggiosi, imitando il costume etrusco, venivano premiati con braccialetti, con anelli e con collane d’oro mentre sulle insegne militari era dipinto il fatidico toro.

Il soldato a cavallo, invece, aveva la testa ricoperta da una galea cristata, specie di elmo sormontato da due alte corna, e sulle spalle indossava un mantello svolazzante.

Portava un grosso scudo ovale reso quasi abbagliante da intarsi a rilievo e guarnizioni in oro e argento. Le loro armi per bontà d’impiego dovevano essere di gran lunga superiori a quelle degli altri popoli contemporanei perché Sallustio scrive che i Romani le imitarono per i loro legionari e Giulio Cesare ricorda che dai Sanniti impararono gran parte del modo di far la guerra, mentre altri autori  -infine-  aggiungono che da essi appresero anche l’uso del giavellotto e dello scudo. Questa indiscussa supremazia rimase incontrastata anche in epoca imperiale giacché Plinio scrisse che il Sannio era abitato dalle genti più forti d’Italia.

Anche Livio dice che i Sanniti erano forti (Samnites enim dura gens) non solo perché essi conoscevano l’uso delle armi e una consumata strategia, ma anche perché tempravano cuori e anima all’amor di Patria, alla indipendenza, alla libertà tanto che i giovani della già ricordata legione cosiddetta linteata prima della battaglia giuravano di vincere o di morire. Così Livio ne descrive la cerimonia: i giovani venivano introdotti nel mezzo del campo, ove era stato eretto un altare nascosto da bianchi veli, ai cui piedi si notavano alcuni Centurioni con le spade sguainate, le vittime sgozzate ed i corpi fatti a pezzi di chi aveva rifiutato il giuramento. I giovani venivano chiamati ad uno ad uno alla presenza del Comandante e dovevano prima giurare di non riferire quanto avevano visto e udito e poi pronunziare la terribile formula di rito che così diceva: “maledetto sia il capo, e con esso la famiglia e la stirpe, di chi o non si presentò all’appello della Patria, o fuggì nella battaglia, o non uccise quello che egli vide fuggire”.

La confederazione sannitica, poiché era la potenza militare che maggiormente poteva ostacolare le sempre crescenti mire espansionistiche dei Romani, fu la più esposta alle loro prepotenze ed alle loro provocazioni. Per questa ragione i Sanniti, che conoscevano bene anche tutti gli accorgimenti della sottile arte diplomatica, cercarono di ritardare lo scontro, divenuto ormai inevitabile. Nel 354 a.C. proposero ed ottennero un trattato di alleanza che restò in vigore finché fece comodo ai Romani. Ma quando questi si accorsero che la oramai imminente fusione dei Sidicini e dei Campani con i Sanniti avrebbe costituito per loro una certa e grave minaccia, suggerirono ai Capuani di proporre la cosiddetta dedizione, ossia di consegnarsi in possesso a Roma, che così li avrebbe dovuto difendere come cosa propria, indipendentemente da ogni trattato di alleanza stipulato. E questo infantile voltafaccia dei Romani originò la prima delle tre guerre sannitiche, che ebbero una durata effettiva di circa trenta anni in un arco di appena cinquanta con oltre settanta battaglie campali, nel corso delle quali i Romani conobbero ben 24 trionfi.

Poiché, per brevità, non è possibile descrivere la complessa trama di tutti gli avvenimenti, ricordo che fu proprio nel 321 a.C.; nel corso della seconda guerra sannitica, che i Romani conobbero la più scottante e la più umiliante disfatta di tutta la loro storia. Nel beneventano, presso la stretta gola boscosa di Caudio, più nota col nome di Forche Caudine, l’esercito romano  -forte di circa 18mila uomini-  trovò il passo sbarrato e venne prima inesorabilmente battuto e poi costretto ad arrendersi. Il generale sannita Caio Ponzio Telesino chiese consiglio sul da farsi al padre Erennio che era il maggiore intelletto di tutto il Sannio e Cicerone lo ricorda quando, parlando con il celebre filosofo e matematico Archita Tarantino alla presenza di Platone, dimostrò come “le voluttà dei corpi fossero le più funeste per il genere umano”.

La risposta fu di lasciare indenni i nemici se si voleva una pace sincera, di ucciderli tutti se si voleva ritardare una guerra inevitabile.

Caio Ponzio preferì rimandare in Patria tutti i 18mila prigionieri, ma solo dopo aver loro inflitto la vergogna del giogo formato di due aste fitte nel terreno e di una terza legata di traverso sulle loro cime. Ma il saggio Brennio criticò la decisione scelta perché la peggiore; comunque il grido di vittoria echeggiò a lungo in tutto il Sannio ed una leggenda popolare che si perde nella notte dei secoli, afferma che in quell’occasione alle lettere S.P.Q.R (Senatus Populusque Romanus) venisse data una diversa lettura altamente ammonitrice: SAMNITIUM POPULO QUI RESISTIT? e cioè chi resiste al popolo Sannita?

Trattenuti solo pochi nobili cavalieri i Sanniti chiesero in cambio ed ottennero dai comandanti militari l’impegno di sgomberare tutti i territori occupati, di rinnovare l’antica alleanza e di rinunziare ad ogni rivincita. Questa fu l’unica volta che i Sanniti dimostrarono di usare poca saviezza politica perché l’esitazione impedì loro di cambiare a proprio vantaggio il corso della storia. Ma l’accordo raggiunto non venne ratificato dal Senato romano perché, si disse, era una semplice “sponsio” o promessa solenne e non un “foedus”, ossia un patto vincolante solo se sanzionato dai cosiddetti Feziali! E così i Romani, lacerati i patti giurati e adducendo sottili cavilli, si sentirono legittimamente autorizzati a riprendere le ostilità. Ma i Sanniti, dimostrando ancora onorabilità, non infierirono giammai contro i generali nemici restituiti da Roma.

Infatti il comandante Caio Ponzio tra l’altro così loro disse: « Non vi vergognate di mettere in pubblico questo schermo della religione e di cercare, voi vecchi e per giunta consolari, sotterfugi che appena si potrebbero scusare ai ragazzi, per venir meno alla fede data? Va, o littore, sciogli i Romani; a nessuno si impedisca di andare dove più gli piace ». Così si legge negli annali di Livio!

Quasi subito dopo la disfatta delle forche Caudine i Romani inviarono nel Sannio il console Fabio Massimo per riscattare l’onta subita e così non venne quella pace che gli entusiasti del partito pacifista avevano imprudentemente sperato. Fabio riuscì vincitore facendo prigioniero lo stesso Caio Ponzio e Roma gli tributò un grandioso trionfo; al corteo, fra i prigionieri di guerra, vi era anche il comandante sannita Caio Ponzio che, “offerto come bersaglio ai lazzi volgari della plebaglia fanatica”, venne successivamente decapitato. La barbarie romana aveva dimenticato così troppo presto la generosità del generale sannita! In proposito scrive il Micali “che ciò basta da solo a porre nel suo vero lume quanto fosse acerba l’umanità dei Romani ed a convincersene appieno che l’ambizione non permise giammai alla giustizia di regnar nei loro cuori”. Ed il Vannucci aggiunge che Caio Ponzio fu “barbaramente decapitato, in ricompensa alla sua magnanimità con cui, risparmiando le legioni poste in sua mano, aveva trattato i feriti dopo la pace di Caudio. È questa una delle più brutte infamie di Roma antica, ed in faccia ad essa risplende anche di più l’umanità e la grandezza del Telesino, il quale nella sua lealtà non aveva da rimproverarsi altro che aver creduto alla fede romana”!. Del resto e non a torto lo scrittore di cose militari Eliano dava ai Sanniti il titolo dei più nobili di tutta l’Italia antica (et omnium tota Italia quondam nobilissimi Samnites).

E così dopo alterne vicende o dopo aspre e sanguinose battaglie nel 290 a.C. il Sannio chiese ed ottenne la pace. Territorialmente rimase quasi intatto, anche se controllato a vista da numerose colonie romane.

Pur conservando un barlume di libertà tornò ad essere una isolata e brulla regione continentale, chiusa ad ogni progresso perché privata per sempre degli sbocchi verso il Tirreno e verso l’Adriatico.

A proposito delle tante città saccheggiate ed incendiate nel corso delle tre guerre sannitiche ricordo che nella sola campagna della terza guerra, il console Lucio Papirio riportò a Roma dal Sannio un vero tesoro: ben 1800 libbre d’argento e 2 milioni e 530mila assi ricavati dalla vendita dei prigionieri di guerra. Ciò prova la ricchezza del popolo sannita, della quale più volte ne parla Livio.

Inoltre, si legge negli Annali, venne innalzato un tempio al Dio Quirino e adornato “con le spoglie nemiche; queste furono tante che non solo servirono ad adornare il tempio ed il Foro, ma furono divise anche tra le colonie e le popolazioni vicine per ornare templi e luoghi pubblici”.

Del resto le spoliazioni subite sono confermate anche da Pirro il quale, passando pochi anni dopo per il territorio del Sannio, si meravigliò come facessero ancora a viverci degli uomini, tali e tante erano le distruzioni ancora fumanti lasciate da una guerra lunga e spietata. Questo dimostra anche l’accanimento con il quale si erano battuti i contendenti, perché il fine sempre perseguito da Roma era stato quello di distruggere il Sannio perché costituiva il più grosso e pericoloso ostacolo alla sua espansione, non solo perché era un popolo di temibili ed indomiti guerrieri, ma anche perché esso mirava sempre a stringere alleanze con i popoli vicini in funzione antiromana.

Ma nonostante tutte le umiliazioni subite, il Sannio, come un leone ruggente ferito ma non domato, non lasciò occasione per lavare col sangue le prepotenze subite. Infatti chiamati da Bruzii e Lucani a far causa comune contro il nemico di sempre, nel 279 a.C. i Sanniti Pentri mossero alla riscossa opponendo una accanita, anche se sfortunata resistenza. Ma i Romani, riusciti ancora vittoriosi, non usarono più indulgenze verso “quegli indomabili montanari, sempre pronti ad offrire il loro braccio ed il loro cuore ad ogni nemico di Roma”. Il Sannio così venne annesso a Roma e coperto di colonie, ad eccezione della parte centrale abitata dai Pentri, alla quale venne tolto anche tutto l’alto bacino del Volturno, ove nel 263 a.C. venne fondata la colonia latina di Aesernia, che assunse la funzione di difendere la Campania da eventuali e sempre possibili assalti sanniti.

Il Sannio terminò così definitivamente il grande duello costato oltre 200mila morti secondo Eutropio, nel corso del quale i Sanniti tante e tante volte erano scesi dai monti al piano, minacciando da presso il dominio di Roma. Anche se “le catene della servitù si serrarono ormai sulle sue membra mutilate”, il Sannio ebbe ancora la forza di scuotersi nel 269 a.C. con la rivolta dei Caraceni e con il brigantaggio di Lollio, purtroppo senza apprezzabili risultati, perché ancora una volta “il ferro ed il patibolo ricondussero alla fine la tranquillità anche sulle loro montagne. Una ultima, disperata occasione di riscossa si presentò ai sanniti dopo la sanguinosa battaglia di Trasimeno avvenuta nel 217 a.C.: i Sanniti, ad eccezione dei Pentri, si schierarono con Annibale perché aspiravano ancora alla libertà ed alla indipendenza. Ma il destino fu avverso ancora una volta ed ancora una volta i Romani usarono un trattamento disumano verso quei popoli che avevano fatto causa comune con i Cartaginesi; si spezzò così per sempre il nazionalismo dei popoli italici.

Il Sannio entrò definitivamente a far parte del territorio dei cosiddetti alleati italici. Era una alleanza del tutto particolare perché a Roma “spettava il diritto di impegnare alla guerra ed alla pace i propri alleati, senza interpellarli, e di richiedere loro, secondo le condizioni fissate dai trattati di alleanza, contingenti di militari”.

Il Sannio, secondo un catalogo tramandatoci da Polibio, all’inizio della seconda guerra punica fornì all’esercito “Romano il contingente più alto fra tutti gli altri popoli Italici: 70mila fanti e 7mila cavalieri, mentre Roma aveva sul piede di guerra appena quattro legioni con poco più di 20mila effettivi.

Queste eloquenti cifre, anche se scarne, documentano il prezioso apporto militare fornito dai Sanniti alla difesa ed all’espansione del dominio romano e documentano, altresì, la vitalità del popolo sannita, mai venuta meno.

Ma nonostante tale consistente aiuto gli Italici tutti, per effetto della Lex Julia del 125 a.C., furono espulsi da Roma e successivamente nel 121 Caio Gracco venne ucciso nel corso di violenti tumulti perché favorevole alla concessione della cittadinanza romana agli Italici. Nel 95 a.C. furono, unitamente ai latini, ancora privati di tale sacrosanto diritto e ciò provocò accesi risentimenti perché gli Italici avvertivano da tempo l’urgente necessità di una uguaglianza anche politica.

Con l’uccisione avvenuta ad Ascoli del proconsole Servilio ebbe inizio la guerra aperta, che covava da troppo tempo. Fu questa, “una guerra nazionale; non si contendeva per una somma più o meno grande di diritti politici, ma per saziare, distruggendo l’avversario, l’odio lungamente represso”. Così Apuli, Frentani, Lucani, Marrucini, Marsi, Peligni, Piceni, Sanniti e Vestini nominarono un Senato composto di 500 nobili e scelsero, come capitale Corfinium  -presso Sulmona-  alla quale diedero il fatidico nome di VITELIA, ossia Italia. Prepararono due eserciti, ma prima di iniziare l’ostilità, con un encomiabile atto di consumata diplomazia che altamente onora la loro giusta causa, inviarono ambasciatori a Roma per chiedere il riconoscimento dei loro giusti diritti. Ma la proposta venne respinta e gli Italici nel 90 a.C. iniziarono la guerra che venne detta sociale. L’esercito che operava a sud espugnò la colonia romana di Aesernia ed occupò buona parte della Campania, mentre quello che operava a nord sconfisse i Romani presso Ferno, nelle Marche. In quella occasione furono coniate bellissime monete: si ricordano quelle con il nome osco Vitelia, ossia Italia come simbolo di libertà, e le altre raffiguranti, con chiara allusione, un toro che abbatte una lupa.

Ma i romani riuscirono a dividere gli alleati facendo sempre più crescenti concessioni di diritti politici e la guerra terminò con la definitiva disfatta degli Italici. Dopo la battaglia di Praeneste, presso Palestrina nel Lazio, “gli eserciti dei Sanniti e dei democratici si gettarono con tutte le loro forze su Roma, distante una giornata di marcia, cercando la vendetta e non più la salvezza: fu l’ultimo sforzo della rabbia da parte di reazionari, specialmente dei Sanniti che erano ridotti alla disperazione”. Presso Porta Collina, sotto le mura della stessa Roma, per l’intera nottata e fino al mattino inoltrato si combatté; ma la Città Eterna fu salva unicamente perché ben 3mila soldati alleati, come troppo spesso capitava ai Sanniti in caso di estremo pericolo, improvvisamente tradirono la causa comune e si ribellarono a mano armata contro i loro alleati.

Dopo la sconfitta di Porta Collina Silla fu l’implacabile sterminatore; del Sannio rimase solo il nome, tanto che lo storico Floro scrisse che “il popolo romano distrusse le stesse rovine delle città, così oggi si ricerca il Sannio nello stesso Sannio”. Infatti il crudele Silla, convinto che Roma “non avrebbe avuto mai pace finché fosse rimasto in vita un solo Sannita” in una sola volta fece uccidere a Roma ben 6mila federati nella villa pubblica di Campo Marzio, scelti in massima parte fra i Sanniti. Gli storici raccontano che “avendo i gemiti di tanti infelici destata la curiosità del Senato riunito in seduta, Silla cinicamente esortò l’assemblea a non distrarsi dal proprio lavoro e con un sorriso aggiunse: « O padri coscritti, non vi distogliete; sono pochi sediziosi che per mio comando si uccidono ».

Le persecuzioni di Silla, descritte brevemente da Appiano, furono così disumane che i resti dell’esercito sannita sconfitto a Sacriporto ed a Porta Collina preferirono arruolarsi con Sertorio, fiero nemico di Silla, ed andarsene con lui in Spagna. Intendevano continuare la guerra contro il distruttore della loro Patria e ad essi si unirono più tardi numerosi connazionali, dopo l’avvenuta confisca di tutti i loro averi e dopo le proscrizioni, le epurazioni e le selvagge devastazioni di Silla. E in Spagna i Sanniti, secondo alcuni studiosi, avrebbero fondato OSCA, importante città, oggi Huesca nell’Aragona, ricordata anche da Plutarco, da Strabone e da Giulio Cesare, ove Sertorio pose il suo quartier generale.

La vittoria che gli Italici ottennero, sia pure a così caro prezzo, fu la concessione della cittadinanza romana ed il loro pieno diritto ad entrare nella organizzazione dello Stato. Persero, però, anche l’ultimo scopo della loro indipendenza: quello della lingua osca, oramai inservibile per trattare affari o concludere alleanze.

Dopo avere, brevemente, ricordate le lunghe e sanguinose guerre combattute dai Sanniti, ritengo necessario sottolineare anche la loro sorprendente ricchezza descritta da numerosi autori latini e confermata dai consistenti bottini di guerra vantati dai Romani. Ad esempio Florio scrive che “questi popoli erano sì ricchi che l’oro e l’argento rilucevano con profusione sulle loro armi...”. Ma i Sanniti da dove trassero tanta ricchezza, se furono in grado di adornare finanche armi e vestimenta militari con oro e argento?

Non disponendo di risorse minerarie la fonte della loro agiatezza va ricercata unicamente in lucrose attività commerciali con popoli vicini e, forse, anche lontani. I prodotti ceduti erano quelli della pastorizia (pregiate lane, carni, formaggi) e quelli dell’agricoltura la quale, secondo fonti storiche, dava anche molto grano. Infatti gli stessi Romani spesso ne acquistavano e qualche volta se lo videro anche negare, con sprezzante alterigia.

Certamente in epoca storica anche nel Sannio, come presso tutti gli altri popoli, la pastorizia veniva esercitata assieme all’agricoltura, a seconda della natura del terreno; quest’ultimo veniva reso fertile sia dalla cura con cui veniva lavorato (i Sanniti usavano un pratico aratro imitato anche dai Romani), sia dal fatto che quel popolo conosceva già l’arte della concimazione. Fu questo indefesso, diuturno lavoro che fece del Sannio, scrive anche Plinio, una regione abbastanza fertile.

Se gli uomini furono prodi guerrieri ed indefessi lavoratori, le donne dimostrarono sempre laboriosità ed austerità, distinguendosi soprattutto nel saper dare ai figli una educazione veramente spartana. Vestivano costumi dalla foggia elegantissima e dai colori  -scrisse il più volte citato Florio-  tra i più ricchi ed i più belli allora conosciuti, tanto che furono imitati dalle matrone romane, che li indossavano in occasione delle grandi feste chiamate “saturnali”.

Pertanto anche i costumi rivelano un popolo saggio, dedito al lavoro, di indole generosa ma tenace ed indipendente, tanto che Roma non redense, come comunemente si scrive, “dei fieri barbari come venivano chiamati i Sanniti sol perché i molli Campani e Greci del mare tremavano allo loro vista” e questi meravigliosi ed eloquenti ruderi di Bovianum Vetus lo confermano.

I Sanniti, che certamente assorbirono prima di Roma la civiltà ellenistica rappresentarono una società progredita almeno quanto quella di tutti gli altri popoli vicini e contemporanei. Purtroppo non è molto conosciuta perché di essa si sa solo quel poco ed in modo frammentario scritto da autori latini e greci (Livio, Polibio, Floro, Strabone, ecc.). Le numerose città ricordate da Livio e distrutte o nel corso delle guerre o dalla sovrapposizione di insediamenti successivi non potranno, purtroppo, mai darci un panorama completo dell’arte e degli ordinamenti civili. Fortunatamente un buon numero di iscrizioni osche (una cinquantina in tutto, di cui ben sedici provenienti dal solo territorio di Pietrabbondante) apportano elementi interessanti per la conoscenza della civiltà sannitica.

Il centro archeologico più interessante finora noto di tutto il Sannio preromano è quello di Pietrabbondante, detta la Pompei del Sannio non solo per la imponenza e per la importanza degli edifici pubblici rinvenuti, ma anche per il gran numero degli interessantissimi reperti tornati alla luce sin dal lontano 1840 e che ancora aspettano una degna e onesta sistemazione: sculture in pietra ed in bronzo, monete, armi metalliche, iscrizioni osche e latine, ceramica, vasellame in bronzo finemente cesellato, oggetti di uso domestico, ecc.

I pochi monumenti superstiti ed un abbondantissimo materiale archeologico, proveniente quest’ultimo soprattutto da Alfedena e da Pietrabbondante, offrono una chiara ed esauriente visione dell’attività artistica del popolo sannita la quale, pur non potendo competere per ovvi motivi con quella greca o romana, ha lasciato orme indelebili. Possenti fortificazioni (i resti tra i più interessanti sono quelli delle mura megalitiche sul monte Caraceno di Pietrabbondante a quota 1215), i templi, teatri, porticati, vari documenti figurati testimoniano che l’arte non fu di certo trascurata da quell’eroico popolo. Naturalmente subì l’influsso delle civiltà viciniori; specie della Magna Grecia, e ne assimilò gli aspetti più caratteristici: prima le varie correnti dell’ellenismo e le manifestazioni artistiche di Roma repubblicana ed imperiale poi.

Anche se manca una tradizione relativa al grado di cultura del popolo sannita, non essendo giunta fino a noi nessuna opera atta a testimoniare un’attività letteraria presso quel popolo, è tuttavia possibile affermarne l’esistenza. Infatti Livio, a proposito del giuramento avvenuto presso Aquilonia prima della famosa battaglia, scrive che “furono fatti sacrifici secondo un vecchio libro coperto di tela” e la asserzione mi pare alquanto interessante e decisiva. Attraverso le iscrizioni pervenute fino a noi è stato possibile stabilire che l’alfabeto osco, come tutti quelli italici compreso il latino, deriva sostanzialmente dall’etrusco detto epicorico e si compone di 21 lettere con scrittura sinistrosa e con accento musicale ed espiratorio, come il latino arcaico.

Per quanto si riferisce alla organizzazione politica, amministrativa e sociale, il Sanno, al contrario di tutti gli altri popoli di origine sabellica, si mantenne sempre unito e compatto perché costituì una temibile unione etnica, riuscendo a conservare la libertà più a lungo di tutti gli altri popoli limitrofi.

La federazione era costituita dalla unione di tutte le tribù sparse, nella loro lingua dette “TOUTA”, che si identificavano con le più importanti città e che erano tutte uguali al cospetto del governo centrale perché si reggevano con proprie leggi e con propri magistrati, come tante piccole repubbliche libere e indipendenti perché tutte godevano di particolare autonomia. Queste tribù autonome erano saldamente “unite tra loro soprattutto da vincoli religiosi ed avevano il loro centro in santuari comuni e federali che, a detta di autorevoli storici di chiara fama, “a loro volta erano anche centri di scambio, nonché politici per le decisioni comuni”.

Essendo impossibile in questa Sede, anche per non abusare della vostra già tanto provata pazienza, una dettagliata esposizione della forma di governo del popolo sannita, ricordo solo che la sua costituzione fu così perfetta ed autonoma che gli storici la considerano tra le più avanzate forme di governo dell’età antica. Tuttavia ebbe il torto di consentire ad ogni tribù la conservazione della più ampia autonomia ed indipendenza, rendendo così impossibile una perfetta unione di tutta la stirpe sannitica e ciò fu la principale ragione della definitiva conquista romana, come avvenne pure per gli Etruschi.

E così anche il Sannio, che proprio in Pietrabbondante ebbe la sua culla ed il suo cuore, cessò di essere una unità etnica, anche se sopravvisse ancora nel ricordo perché diede il nome alla IV regione dell’Italia ai tempi di Augusto, regione chiamata appunto “Sabina et Samnium”.

Poiché il mio dire è giunto alla fine, voglio augurami che esso sia stato sufficiente ad illustrare  -sia pure in maniera sintetica-  il patrimonio storico e culturale dell’antico Sannio. Se poi gli avvenimenti sinteticamente narrati sapranno suscitare in voi interessi tali da consigliarvi più minute ricerche per conoscere meglio le venerande memorie del Sannio, mi sentirò veramente soddisfatto.

Comunque sono certo che l’iniziativa di gemellare i giovani del Liceo Classico di Treviglio, laboriosa cittadina alle porte di Bergamo, con quelli di Frosolone, patria di un artigianato illustre, servirà anche a ricordarvi che la società ha urgente bisogno di amore, di fratellanza, di comprensione, di lavoro perché tutti abbiamo contribuito, non importa in che misura, a distruggere in questi ultimi decenni anche i più elementari fattori, che rendono possibile e giusta ogni convivenza sociale.

Ed a chi affidare questo nobile, urgente messaggio se non a voi tutti, o cari giovani destinati in un futuro prossimo ad assumere la guida di questa nostra oramai stanca ed esausta società, che accusa sempre più malanni gravi e pericolosi?

Con tale auspicio vi ringrazio per l’attenzione e cordialmente auguro un presto arrivederci in questa Terra molisana, ove regna ancora una ospitalità patriarcale e quasi sacra, come del resto lo fu presso il generoso e tenace popolo sannita, del quale abbiamo in questa incantevole cornice tanto ricca di storia ricordate insieme saggezza, civiltà, glorie militari e costumanze civili.

 

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