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Antonino Di Iorio

 

IL PROBLEMA DEGLI ITALICI DAI GRACCHI A DRUSO.

IL GIURAMENTO DEI SANNITI

(in Annuario ASMV 1998, pp. 85-99)

 

 

Le principali conseguenza delle guerre sannitiche

 

Nel 290 a.C. il Sannio, dopo trentasette anni di lotta per difendere la usa libertà ed indipendenza, firmò la pace con il console romano Manio Curio Dentato rinnovando formalmente la lega con Roma[1]. In verità i vincitori, anch’essi stanchi da una guerra così lunga e sanguinosa, non imposero ai vinti condizioni umilianti. Anche se non sono noti i termini del trattato i Sanniti subirono la perdita del territorio a sud dell’Ofanto e quello posto ad ovest del Volturno. Fu così definitivamente compromessa ogni eventuale espansione sannitica verso la valle del Liri[2].

Pur tuttavia il trattato di pace fu abbastanza pesante come si rileva dalla quantità del bottino di guerra, dalla cui vendita i Romani ricavarono più di tre milioni di libbre di bronzo per cui potettero emettere la prima serie di monete, l’aes grave. A questo vero e proprio saccheggio va aggiunto l’onere di fornire ai vincitori cibo e vestiario non solo perché in questi casi le requisizioni erano di prammatica, ma anche perché Manio Curio Dentato usò mezzi abbastanza duri. In proposito Livio nel XI libro, purtroppo non giunto a noi assieme all’intera deca, attribuisce al console Curio Dentato una duplice campagna coronata dal più vivo successo: quella del Sannio e quella della Sabina, tanto da meritarsi un trionfo. Non tutti gli scrittori (Orazio e Floro ad esempio) sono d’accordo perché sembra che il console avrebbe condotto solo la campagna contro i Sabini[3]. Tuttavia numerose e autorevoli fonti, da sempre, presentano Curio Dentato come uno dei personaggi leggendari degli antichi romani, paragonabile a Cincinnato o a Fabrizio, cioè come un modello di semplicità e di disinteresse. Chi non ricorda la visita degli ambasciatori sannitici mentre Curio Dentato stava cuocendo le rape? All’offerta dei doni fatti[4] come a persona che avesse ben meritato il console romano rispose, respingendoli, che amava meglio vincere coloro che possedevano l’oro, che non possederne egli stesso (Curius, quum in foco rapas torreret, offerentibus:  Malo  -inquit-  in fectilibus meis et aurum habentibus imperare)[5].

Naturalmente all’indomani della pace del 290 a.C. i Sanniti, oppressi dalle imposizioni subite, erano decisi a riscattarsi ed aspettavano soltanto l’occasione propizia. Questa non tardò a venire perché Pirro nel280 a.C. su richiesta dei Tarantini, sbarcò in Italia ed i Sanniti (Caudini, Irpini e molto probabilmente anche i Pentri) non esitarono a schierarsi al fianco di Pirro. Una volta cessato il conflitto con la famosa disfatta presso Benevento del 275 a.C. tutte le popolazioni di stirpe italica furono sottoposte alla più dura reazione. In particolare per i Sanniti le condizioni di pace furono molto dure non solo perché dovettero cedere altri territori, ma soprattutto perché furono obbligati a sciogliere la lega, perdendo così la loro unità interna tanto che il Barbagallo in proposito scrive[6]: “Solo la regione centrale, il cosiddetto paese dei Pentri, rimase fino ad un certo segno indipendente quasi ad indicare il luogo dove era stato il Sannio [...]. Era finita per sempre. Le catene della schiavitù si serravano sulle sue membra mutilate ed esso nell’avvenire avrà qualche volta la forza di scuoterle e di minacciare, non più di risorgere”. Certamente i Romani non furono indulgenti verso “quegli indomabili montanari, sempre pronti ad offrir il loro braccio ed il loro cuore ad ogni nemico di Roma”.

Ancora nel 269 a.C. un certo Lollio, uno dei Caraceni portato a Roma come ostaggio, fuggì sperando di organizzare una guerriglia. I consoli Q. Ogulnio Gallo e C. Fabio Pittore, avuto l’incarico di sedarla, sparsero ovunque terrore, giustiziarono i capi e vendettero i ribelli come schiavi. Proprio in questa occasione Aesernia e Beneventum vennero elevate a ruolo di colonia perché rappresentavano i due più importanti centri di comunicazione del Sannio.

 

 

Il Sannio dopo la campagna di Pirro. I fratelli Caio e Tiberio Gracco.

 

Una volta imposta la pace i Sanniti automaticamente divennero alleati di Roma: di conseguenza non solo dovevano subire ogni decisione in fatto di politica estera, ma erano tenuti anche a fornire le truppe per l’esercito tanto che, secondo Polibio, nel 225 a.C. si arruolarono ben 70.000 fanti e 7.000 cavalieri.

Nonostante che i Sanniti, assieme a tanti altri popoli Italici, servissero fedelmente la causa di Roma, in effetti non erano cittadini romani di pieno diritto perché erano esclusi da numerosi privilegi, compreso quello di partecipare alla distribuzione delle terre da coltivare, sempre più insufficienti a causa dell’aumento della popolazione. Erano così costretti a far ricorso all’emigrazione e l’esempio più evidente, anche se non fu il solo, è quello di Fregellae ove, a detta di Livio, nel 177 a.C. erano presenti ben 4.000 famiglie di origine sannitica e peligna.

In proposito il Salmon[7] scrive che “i contadini di lingua osca del Sannio, a differenza di quelli delle zone romana e latina, quando abbandonavano la terra non si riversavano affatto a Roma [...] e ciò forse può essere attribuito alle difficoltà che avrebbero incontrate nel farsi strada a causa della loro lingua osca; e dopo il 177 dovettero incontrare anche sbarramenti legali, perché dopo quell’anno non soltanto i Romani rifiutarono ancora di accordare la loro cittadinanza agli Italici, ma iniziarono anche ad espellere periodicamente gli Italici che si fossero ugualmente avventurati ad emigrare a Roma”.

A tale critica ed esplosiva situazione cercarono di porre rimedio in epoche diverse i tribuni Tiberio e Caio Gracco. Nel 133 a.C., infatti, venne eletto al tribunato Tiberio Gracco il quale, preoccupato delle allarmanti condizioni dello stato romano, presentò una legge detta della abrogazione agraria. Pur richiamando in vigore leggi precedenti sempre eluse, anche se non abrogate, con questa nuova norma si riaffermava il principio che ogni famiglia poteva avere 500 iugeri di terreno ed a chi aveva figli emancipati altri 250 iugeri per ciascuno di essi, fino ad un massimo di 1.000. Entro questi limiti i proprietari avevano il pieno possesso elle terre demaniali, senza nulla dovere allo stato[8]. Nel caso, poi, che tale misura fosse stata oltrepassata lo stato ne avrebbe rivendicato il possesso risarcendo le spese fatte per il dissodamento e le migliorie.

La legge, oltre a stabilire che l’agro pubblico doveva essere distribuito in piccoli lotti (forse 30 iugeri) alle famiglie povere romane ponendo come condizione la inalienabilità ed il pagamento di un canone annuo all’erario, prevedeva anche che ai Latini ed agli Italici doveva essere ridotta la superficie delle terre acquistate o assegnate illecitamente. Veniva tuttavia fatta salva la possibilità di partecipare alla distribuzione delle terre nella stessa misura concessa ai cittadini romani poveri.

L’oligarchia patrizia cercò di impedire l’approvazione della legge mediante il veto posto da Ottavio Cecina, uno dei tribuni possessori di un esteso terreno pubblico. La legge fu approvata ugualmente con grandi acclamazioni e con il voto quasi unanime delle 35 tribù anche se no venne messa in pratica attuazione per l’insufficienza dei fondi assegnati.

Tiberio, anche a causa delle agitazioni e dei disordini dovuti sempre alla impopolarità della legge, pose la sua candidatura tribunizia anche per le elezioni del 132 a.C., ma si disse che la sua eventuale rielezione era contro la consuetudine e la costituzione. A questa preoccupazione di carattere costituzionale si aggiunse una tenace propaganda contro l’avvenuta rielezione di Tiberio. Nel giorno dei comizi scoppiarono prima vivaci dissensi e poi gravi disordini che obbligarono Tiberio ed i suoi fedeli a trovare scampo con la fuga.

Nonostante che Tiberio fosse fuggito dalla città venne ugualmente raggiunto dai suoi avversari, ucciso ed il suo cadavere, unitamente a quelli di trecento suoi partigiani, gettato nel Tevere. E così sia il programma agrario, che quello politico, proposti da Tiberio, portarono poco o nulla alla causa degli Italici e lo dice egli stesso quando scrive[9]: “Anche le belve della foresta hanno la loro tana e le caverne in cui possono ricoverarsi; invece gli uomini che per l’Italia combattono e muoiono non posseggono nulla tranne l’aria e la luce [...]. Essi contestano, sì, e vengono uccisi, ma per mantenere nel lusso e nella ricchezza gli altri. Vengono detti i signori del mondo e, intanto, non posseggono neanche una zolla di terra che possono dire propria...”.

Nel 123 a.C., a dieci anni dalla morte del fratello Tiberio, venne eletto tribuno per una prima volta Caio Gracco che riuscì, con una serie di leggi, ad accattivarsi il potere popolare. La prima fu quella frumentaria che stabiliva, al posto della distribuzione gratuita del grano alla popolazione povera di Roma, la vendita di una certa quantità di grano ad un prezzo di favore (circa la metà di quello corrente). Come logica conseguenza venne proposto non solo l’ampliamento dei pubblici granai, ma anche la costruzione di alcuni nuovi da realizzarsi alle pendici dell’Aventino. Caio propose anche una legge agraria ed una militare. La prima,di cui si ignora il contenuto, certamente non fu una ripetizione di quella voluta da Tiberio, ma come pratico correttivo che avrebbe dovuto consentire una più facile attuazione. Con la seconda si ribadì il concetto di Tiberio che poneva il limite per l’arruolamento a 17 anni e si posero le basi per l’abolizione della pena di morte, o quanto meno limitarla. Si stabiliva anche che ai militari doveva essere fornito gratuitamente un vestito giacché a quell’epoca il suo importo era decurtato dal soldo.

Questo complesso di leggi, tutte regolarmente approvate, diede grande popolarità a Caio Gracco, che venni di nuovo rieletto alla carica di tribuno nelle elezioni del 122 a.C.

Oltre alla lex cosiddetta viaria, volta alla riparazione delle strade, Caio propose  -collegata con questa-  una legge coloniale per la deduzione di colonie a Capua ed a Taranto (a Squillace secondo un’altra tradizione), mentre il suo collega Rubio, con la legge detta appunto Rubia perché da lui prese il nome, propose la deduzione di una colonia nel territorio di Cartagine, rompendo così una vecchia tradizione che limitava la deduzione di colonie alla sola penisola italiana. Erano queste leggi vantaggiosissime per la plebe in quanto miravano non solo ad aprire un valido sbocco al proletariato romano ed italico, ma anche ad alleviare la disoccupazione.

Caio pensò tra l’altro di accattivarsi anche la simpatia dei cavalieri[10] e lo fece proponendo la cosiddetta legge giudiziaria la quale prevedeva, in particolare, che i giudici per i processi penali straordinari dovevano essere scelti non più dalla sola lista dei 300 senatori, ma anche da quella dei 300 cavalieri. Naturalmente il provvedimento mirava non solo a spezzare l’unità dell’oligarchia romana, ama anche ad avvantaggiare l’ordine equestre, naturalmente ai danni del Senato.

Questa legge, come era naturale, suscitò le ire del cosiddetto partito senatorio, perché non si sentì giammai vinto in quanto cercava in ogni occasione di mettere in cattiva luce Caio Gracco presso la plebe urbana. L’occasione propizia fu offerta dalla legge più rivoluzionaria di Caio[11], quella cioè di concedere la cittadinanza a tutti i Latini e la latinità a tutti gli Alleati, italici compresi. Era un progetto lungimirante perché in virtù di esso la compagine cittadina veniva fortemente rinsaldata con l’immissione di numerosi elementi e ciò non solo avrebbe consentito la riforma agraria su larga scala, ma avrebbe anche aumentate le simpatie a favore del partito democratico. Purtroppo questa legge non riscosse il favore della plebe romana, ma  -al contrario-  coalizzò tutti i ceti preoccupati dal fatto che l’immettere nelle pubbliche assemblee partecipanti così numerosi avrebbe potuto costituire un serio pericolo a causa soprattutto di abili e spregiudicati demagoghi che avrebbero, all’occorrenza, potuto facilmente manovrare tanti nuovi elettori.

In proposito il Mommsen scrive[12] che l’opposizione alla legge che cercava di dare alla cittadinanza la massima diffusione dei diritti civili trovò i suoi oppositori “specialmente in quella turba che, d’ordinario disposta a tutto, prestava il suo sì sovrano a quanto comprendeva e non comprendeva e ciò per il semplice motivo che questa gente, parendole la cittadinanza romana per così dire un’azione che direttamente o indirettamente le dava diritto ad ogni sorte di reali vantaggi, non aveva quindi la menoma voglia di aumentare il numero degli azionisti”.

Questo rapido e decisivo capovolgimento della pubblica opinione alla proposta di Caio Gracco spinse il Senato ad una serrata opposizione perché fece proporre dai consoli (compreso quel Fannio che, benché eletto con l’appoggio di Caio, era stato guadagnato al Senato) una disposizione che proibiva prima della votazione della legge “agli Italici non solo di recarsi o di risiedere a Roma, ma addirittura di avvicinarsi a meno di sette miglia”. I contravventori a tale norma, cioè Latini ed italici, sarebbero stati espulsi dalla città a viva forza.

Nonostante che Caio avesse formalmente promesso di proteggere coloro che avrebbero resistito al decreto al momento opportuno ritenne di non fare ricorso alla violenza.

 

 

Il tribuno Marco Livio Druso e la fine di Caio Gracco.

 

Il nobile Marco Livio Druso, collega nel tribunato di Caio Gracco ed eletto nel 122 a.C, presentò con l’appoggio del Senato riforme di carattere molto più incisive di quelle presentate da Caio, anche se in un secondo momento si servirono di lui per tradire le aspettative del popolo più misero nonostante che apparentemente si dimostrasse più radicale degli stessi riformisti.

Presentò le seguenti leggi:

  1. abrogazione del tributo che dovevano pagare allo stato i beneficiari delle terre demaniali;
  2. l’abolizione della pena capitale e di quelle corporali che venivano inflitte ai soldati Latini ed Italici durante il servizio militare;
  3. la deduzione non solo di due colonie, come aveva proposto Caio, ma di 13 con 3.000 lotti ciascuna riservati indistintamente e senza eccezioni a tutti i proletari.

Queste proposte, anche se non furono giammai presentate ai voti, raggiunsero ugualmente l’effetto voluto e cioè il distacco della plebe da Caio e ciò fu favorito dal fatto che questi dovette assentarsi da Roma per oltre due mesi: si recò a Cartagine per la fondazione della colonia.

Rientrato in Italia Caio ripresentò la sua candidatura per la terza volta, ma non venne rieletto; i comizi elessero tribuno Quinto Munucio Rufo, accanito avversario delle leggi gracchiane. Nei comizi del successivo autunno venne eletto console uno dei maggiori esponenti del partito senatorio e cioè Lucio Opimio, più noto come il distruttore di Fregellae.

Nel frattempo fu fatta spargere la voce che i primi coloni dedotti da Caio Gracco in Africa erano stati letteralmente atterriti da impressionanti prodigi, e ciò si fece passare come una vendetta degli Dei perché si era voluto fondare una colonia sul suolo di Cartagine che era stato maledetto al momento della sua distruzione. Per tali motivi la fondazione della colonia, che avrebbe dovuto chiamarsi Junonia, venne abrogata. Di conseguenza Caio si recò al Campidoglio per cercare di difendere la sua proposta, ma tra gli opposti gruppi scoppiarono incidenti nel corso dei quali i gracchiani uccisero lo sconosciuto Quinto Antillo. Caio cerco di arringare il popolo per invitarlo alla calma, ma poiché lo fece mentre stava parlando un tribuno del partito senatorio venne accusato di vilipendio nei riguardi dell’autorità tribunizia. Sciolta l’adunanza il console L. Opimio ottenne la sospensione delle garanzie costituzionali affidando ai consoli stessi l’incarico di salvare la repubblica perché seriamente minacciata. Di conseguenza venne intimato a Caio ed a Flacco di rendere conto dell’accaduto. Mentre Fulvio Flacco, il vincitore dei Galli, organizzò la difesa ed insieme ai gracchiani si rifugiò sull’Aventino, luogo sacro alle agitazioni della plebe, trincerandosi nel tempio di Diana, il console Opimio prima fece occupare il Campidoglio e dopo assaltare i ribelli sull’Aventino promettendo amnistia a coloro che si sarebbero arresi.

Nel corso della breve lotta i democratici furono sopraffatti e morirono ben 250 gracchiani, tra i quali lo stesso tribuno Fulvio ed il suo figlio maggiore. A Caio venne impedito di uccidersi e consigliato a fuggire oltre il fiume Tevere; giunto nel bosco detto delle Furie si fece uccidere dal solo fedele che gli era rimasto, certo Filverato, che lo segui nella morte. Il capo reciso di Caio venne portato al console e pagato a peso d’oro, i corpi delle vittime gettati nel Tevere, le loro case saccheggiate ed alcune migliaia di fautori di Caio nel giugno del 121 a.C. furono fatti morire in carcere. Oltre a maledire pubblicamente la memoria di Caio alla madre Cornelia venne proibito di portare il lutto, mentre la moglie Licinia fu privata della sua dote[13].

Dopo la tragica fine di Caio Gracco venne restaurato il governo oligarchico che provvide subito ad epurare tutta la legislazione da lui proposta: non vennero più fondate le colonie di Capua, di Taranto e di Cartagine, venne abolito il decreto di alienazione proposto da Tiberio per i lotti assegnati, fu sospesa ogni ulteriore assegnazione di terre. In Italia ritornò la calma più assoluta e non si parlò più né di riforma agraria e né di questione italica perché non più posta, nemmeno al tempo dell’agitato periodo di Glaucia e Saturnino (103 a.C.), promotori i quella nota legge agraria che prevedeva la deduzione di colonie in favore di Mario, vincitore dei Cimbri[14].

Nel 91 a.C. Marco Livio Druso, figlio dell’omonimo tribuno eletto nel 122 a.C. e che aveva servito la causa dei conservatori benché, come è stato già detto, fosse un acceso radicale, risultò eletto tribuno della plebe dopo aver partecipato ad una dura ed accanita lotta elettorale contro Saturnino e Glaucia.

Innanzi tutto si adoperò per cercare di risolvere quella grave crisi politica in ci si dibatteva la repubblica romana sin dall’epoca dei Gracchi, non trascurando nel contempo il programma dei democratici che prometteva ancora la cittadinanza agli Italici, la fondazione di Colonie in Campania ed in Sicilia e la distribuzione di grano a prezzo ridotto. Non ebbe, purtroppo, l’appoggio dei cavalieri rimasti oltremodo delusi perché Bruto aveva fatto abolire quella legge voluta da Caio Gracco in virtù della quale avevano ottenuto la facoltà di poter controllare la pubblica amministrazione. Di conseguenza il Senato approfittò di questa seria frattura e trovò nel tribuno Druso il mezzo idoneo per ripetere quella stessa operazione che aveva già dato frutti cospicui quando, per lo stesso motivo, si era servito dell’opera del padre al fine di realizzare il piano contro i cavalieri.

Druso, giova ricordarlo, era “ambizioso”, demagogo e teatrale negli atteggiamenti, violento nei mezzi, simulatore e disonesto, facinoroso nel suscitare sempre nuovi problemi, parlatore infuocato, ma superficiale, egli aveva tutti i numeri per diventare un trascinatore di folle[15]. Circa la sua superbia Velleio Patercolo[16] riferisce che si manifestò tale anche quando, colpito a morte e nell’atto di spirare, esclamò: “La repubblica non avrà mai un cittadino che mi potrà eguagliare”.

Druso, appena eletto tribuno, come prima cosa cercò di agitare la plebe promettendo larghe concessioni sociali, ivi compresa una legge agraria. Tuttavia, per assecondare il piano voluto dal Senato che mirava  -lo ricordo-  soprattutto a togliere le giurie nei tribunali dalle mani dei cavalieri  -violando una apposita disposizione che vietava di includere in uno stesso progetto legislativo leggi eterogenee-  pensò di inserirla in un cartello di leggi che prevedeva molte e larghe concessioni ed il tutto doveva approvarsi contestualmente: la plebe, allettata dalle riforme ad essa favorevoli previste dalle leggi frumentaria ed agraria, avrebbe certamente votato anche quella detta judiciaria, che tanto importava al Senato.

A questo programma di riforme si opposero tenacemente i cavalieri servendosi dell’opera di Servilio Cepione, fratello della moglie di Druso e a sua volta marito della sorella di costui. Una volta che sia Cepione che Druso divorziarono dalle rispettive consorti una rivalità insanabile li divise anche sul piano politico, tanto che Plinio[17] ritiene che la Guerra Sociale sarebbe stata provocata anche da questa funesta rivalità.

È certo, comunque, che il disaccordo venutosi a creare fra Druso ed il cognato Servilio creò subito serie difficoltà almeno perché bisognava dare subito esecuzione alla lex agraria, prima delle altre proposte dal cartello. Era necessario, tuttavia, salvaguardare gli interessi della nobiltà e ciò poteva avvenire solo a spese degli alleati Italici ai quali, invece, era stata promessa sia la cittadinanza romana, sia la garanzia che non avrebbero perduto le loro terre o, quanto meno, avrebbero potuto usufruire delle medesime assegnazioni previste per i cittadini romani.

E così Druso ed il Senato vennero a trovarsi “in serie difficoltà”: negare la cittadinanza agli Alleati pregiudicando l’approvazione della lex judiciaria, oppure concedere loro la cittadinanza contro la volontà del console Filippo e dei cavalieri? Ci furono momenti di pericolosa esitazione, ma gli alleati insistevano sempre più tanto da costringere Druso a simulare un attacco di epilessia per giustificare il ritardo nell’approvazione della legge attesa dagli Italici, che si preoccuparono a tal punto da organizzare pubbliche preghiere per la sua guarigione. Poiché esistevano evidenti segni premonitori di una rivolta italica la maggioranza del Senato preferì non insistere nelle riforme proposte mentre Druso si fece ancora trascinare dalla sua insanabile ambizione e preferì andare fino in fondo anche per non essere succube della opposizione guidata dal suo ex cognato. Con questo suo atteggiamento riuscì a suscitare grande entusiasmo tra il popolo a tal punto che al suo ingresso a teatro la folla si alzava in piedi per applaudirlo.

In seguito a tale enorme popolarità Druso credette di poter fare a meno dell’appoggio del Senato in quanto la simpatia che godeva sia tra il popolo minuto, sia tra gli Italici gli consentiva una solidissima base elettorale. Pensò anche di dare ospitalità al marso Q. Pompedio Silone per concertare, forse, insieme la concessione della cittadinanza agli Italici e fu proprio in quella occasione che venne redatto il testo di un giuramento da parte degli Italici, circostanza questa poco conosciuta o quanto meno trascurata dagli storici. Il testo lo conosciamo da Diodoro[18] ed anche se l’autenticità del documento è notoriamente controversa il Gabba[19] ritiene “che si era pensato di risolvere il problema (quello cioè dei rapporti tra Roma e gli Italici, N.d.R.), conciliando le diverse esigenze, con un giuramento di fedeltà o di alleanza, in cui coloro che avessero avuto la cittadinanza per merito di Druso riconoscevano in Roma la patria comune. In tale formulazione sembra evidente il sottinteso che la fedeltà a Roma si attuasse nel rispetto appunto delle possibilità autonomistiche locali, se pur spoglie di ogni valore propriamente politico...”.

Il testo del giuramento fatto a Druso così diceva: “Giuro per Giove Capitolino e Vesta di Roma ed il suo patrio dio Marte e il capostipite Sole e la Terra benefattrice degli animali e delle piante e semidei che furono fondatori di Roma e gli eroi che contribuirono ad aumentare il suo dominio, che avrò gli stessi amici e gli stessi nemici di Druso, e che non risparmierò né la mia vita, né i miei averi, né la vita di alcuni dei miei figli e dei miei parenti, in favore di Druso, e di coloro che fanno questo giuramento. E se diverrò cittadino per la legge di Druso, considererò Roma la mia Patria e Druso il mio più grande benefattore. Questo giuramento lo trasmetterò al massimo numero di cittadini che potrò. E, se manterrò fede a questo giuramento, possa io acquistare ogni bene; se non lo manterrò, possa accadermi il contrario”.

Da parte sua il Senato per motivi di prudenza decise di non sopraffare più il veto dei cavalieri, anzi accettò la loro collaborazione; sennonché Druso aveva già preso accordi con Q. Pompedio Silone: un esercito di 10.000 Marsi al suo comando doveva marciare su Roma per imporre con la forza l’approvazione della legge agraria, radicale a tal punto  -si diceva-  che avrebbe lasciato da dividere “soltanto il cielo e le paludi”. Tutto lasciava preveder che il Senato avrebbe concesso l’equiparamento nei diritti tra i cittadini romani e gli Italici.

A queste proposte, però, si riaccese l’egoismo dei grandi possessori terrieri a tal punto che proprietari Umbri ed Etruschi, sollecitati dai consoli, si recarono a Roma per protestare contro le proposte agrarie avanzate da Druso perché esse avrebbero quanto meno introdotto  -si disse-  fra gli Italici “un principio di uguaglianza incompatibile con la loro organizzazione sociale”.

Appiano[20] riferisce che si fece strada in quella occasione l’intenzione di sopprimere fisicamente Druso, tanto è vero che questi girava scortato da una guardia del corpo formata unicamente da Italici. E così quella stessa nobiltà che aveva così caldamente appoggiato le proposte del tribuno Druso e la sua azione politica non esitò[21] “ad armare o contribuire ad armare la mano dello sconosciuto che una sera del 91 a.C., profittando del crepuscolo per dileguarsi senza essere visto, immerse nel fianco di Druso un pugnale, mentre questi rientrava a casa accompagnato da uno stuolo di alleati acclamanti. Nessuna inchiesta, infatti, fu istruita dal Senato per identificare i colpevoli”.

La improvvisa e violenta morte di Druso fece perdere agli Italici tutte le speranze tanto che Roma, nonostante che fossero stati pochissimi a non sconfessarlo, non esitò ad istruire i processi contro coloro che ne avevano caldeggiato l’opera con le loro forze, già in movimento come dimostra la marcia di Pompedio Silone su Roma. E così si misero in moto Sanniti, Umbri, Sabini, Lucani, Brutii, Marsi, Peligni, Etruschi unitamente a tutti gli altri alleati Italici che da tempo fedelmente servivano Roma. Decisero di imbracciare le armi perché, pur sentendosi Romani a tutti gli effetti, non erano cittadini con pari diritti e, di conseguenza, esclusi da molti privilegi, il più importante dei quali era quello di non poter partecipare alla distribuzione delle terre.

Poiché l’insurrezione era decisamente antiromana la maggioranza dei popoli latini non vi prese parte. Anche quando il Senato nell’89 a.C. con la legge Plautia Papiria decise di estendere la cittadinanza a quegli alleati che, pur avendo partecipato alla lotta, avessero deposte le armi i popoli sabellici, che costituivano la maggioranza in seno ai rivoltosi, continuarono la lotta fino all’estremo: solo nell’80 a.C. Silla potette rioccupare Aesernia, dove si erano asserragliati gli ultimi insorti.

Di conseguenza “i Sanniti furono allora esposti alla durissima punizione del vincitore. Silla ebbe modo di sfogare liberamente tutto l’implacabile odio che nutriva nei loro confronti. Massacri, proscrizioni, efferatezze di ogni genere si abbatterono sui Sanniti più che su qualunque altra componente della fazione filomariana. A chi gli rimproverava di essersi spinto troppo nella punizione, Silla rispondeva che “dall’esperienza aveva imparato che non uno solo dei Romani avrebbe potuto vivere in pace finché i Sanniti avessero formato una comunità a sé”[22].

Tuttavia la vittoria romana, conseguita a caro prezzo, non significò l’abbandono di tutte le concessioni fatte in precedenza agli Italici. Poiché erano diventate patrimonio degli insorti Roma dovette venire a patti con la solidissima struttura delle singole comunità dei Soci insorti[23].

Da questa spaventosa guerra, che mise l’intera penisola a sacco e fuoco facendo correre a Roma ripetuti e seri pericoli come ai tempi di Annibale, gli Italici finalmente ottennero quanto chiedevano da secoli: prima della guerra sociale i cittadini romani erano circa 400.000, dopo passarono a circa 900.000.

La grande vittoria che i soci italici conseguirono con la concessione della cittadinanza, scrive il Devoto[24], “non è la vittoria di cittadini liberi, ottenuta per la loro libera nazione, ma il riconoscimento di un diritto a cui essi possono pretendere giuridicamente, in quanto moralmente si sentono non diversi dai loro simili, cittadini romani”.

 

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[1] Mommsen Theodor, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, 1979, vol. II, p. 473 (traduzione di Baccini, Brigiser, Cacciapaglia).

[2] Salmon E. T., Il Sannio e i Sanniti, Torino, Einaudi, 1967, p. 287, traduzione di Barbara McLeod e Antonello Venturi.

[3] Tagliamonte Gianluca, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, Longanesi, Milano 1996, p. 147.

[4] Forni Giovanni, Mario Curio Dentato primo democratico, in “Athenaeum” 1953, Pavia vol. XLI, nuova serie, v. XXXI, pp. 193 e ss.

[5] Ibidem, p. 177.

[6] Barbagallo Corrado, Storia Universale, Torino, UTET, 1931, vol. II, t. I, pp. 173-179.

[7] Salmon E. T., Samnium, loc. cit., p. 329-330.

[8] Era una misura di superficie che corrispondeva nel nostro sistema agrario a 25,182 are.

[9] Plutarco, Tiberio Gracco, 9,4,5.

[10] Presso i Romani l’ordine senatoriale, costituito dalla nobiltà ereditaria, era formato da una classe di grandi proprietari fondiari che tenevano in mano il governo per mezzo del Senato e della Magistratura. L’ordine cavalleresco, invece, era formato da una nobiltà prettamente personale che era in possesso della grande ricchezza mobiliare in qualità di commercianti e finanzieri. L’opera di Caio Gracco non fece altro che accentuare la distinzione fra le due classi opponendole l’una contro l’altra.

[11] Bernardi Aurelio, La guerra sociale, in “Nuova rivista storica”, XXVIII-XXIX, (1944-45), pp. 75 e ss.

[12] Mommsen Theodor, Storia di Roma, loc. cit. p. 143.

[13] Corrado Giuseppe, I Gracchi, in Fedele Pietro (a cura di), Grande dizionario enciclopedico, Torino, UTET, 1957, sub voce.

[14] Bernardo Aulerio, La guerra..., loc. cit., pp. 60-69.

[15] Ibidem, pp. 82-83.

[16] Velleio Patercolo Caio, Historia romana, II, 14.

[17] Plinio, Naturalis historia, XXXIII, 20.

[18] Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri XXI-XL. Frammenti su Roma e l’ellenismo, (a cura di Giorgio Bejor), Rusconi, Milano 1988, XXXVII, c. II.

[19] Appiano, Storia romana. Bello civile, I, 36.

[20] Appiano, Storia romana. Bello civile, I, 36.

[21] Bernardi Aurelio, La guerra sociale, l. c., p. 97.

[22] Tagliamonte Gianluca, I Sanniti, loc. cit. p. 155.

[23] Gabba Emilio, Le origini della guerra sociale e la vita politica romana dopo l’89 a.C., in “Athenaeum”, 1954, XXXII, n. s., passim.

[24] Devoto Giacomo, Gli antichi Italici, Firenze, Vallecchi, quarta edizione, p. 281.