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Antonino Di Iorio

 

FORTIFICAZIONI, INSEDIAMENTI E SANTUARI DELL’ANTICO SANNIO

(in A. Di Iorio, Scritti vari, vol. II, 2003, pp. 79-89)

 

 

Poiché gli storici dell’epoca si sono interessati dei popoli dell’Italia antica solo in relazione ai rapporti che questi tennero con la civiltà romana, non è facile  -appunto per assoluta scarsezza di fonti-  poter descrivere la vita del popolo sannita. Tuttavia è possibile affermare che tutti quei recinti o centri fortificati che si notano su molti monti della Regione rappresentano la più grande realizzazione architettonica di questo eroico popolo. Posti sulla sommità dei rilievi strategicamente più importanti erano destinati a controllare anche i pascoli e le vie di comunicazione dell’epoca, che altro non erano che semplici piste erbose, dalle quali ebbero origine poi gli odierni tratturi.

È opinione diffusa tra gli storici antichi e moderni che dalla Grecia provengano tutte le stirpi cosiddette italiche, che deriverebbero dagli Aborigeni, ossia da quei Greci chiamati Lelegi, originati  -secondo Gaetano De Sanctis-  da alcune tribù preelleniche dette Pelasgi. Poiché Varrone considera la Sabina, quel territorio cioè compreso fra il Lazio e l’Abruzzo, come epicentro della espansione dei Pelasgi in Italia, si può ritenere che i Sanniti, discendenti diretti dei Sabini, fossero ad essi collegati. E proprio in considerazione di ciò buona parte delle primitive fortificazioni sono dette appunto pelasgiche per indicarne l’epoca remotissima. Difatti, contemporaneamente alla colonizzazione dell’Italia antica da parte di quei popoli venuti dall’oriente, si diffusero tali cinte fortificate, che consistevano in possenti recinti muniti di mura alquanto doppie realizzate con blocchi calcarei di forma irregolare. Questi manufatti erano delimitati da mura alte e doppie realizzate con blocchi calcarei di forma poliedrica, posti in opera a secco con la cortina formata da grandi blocchi rozzamente tagliati nella faccia esterna. Per il loro inzeppamento venivano usate scaglie o ciottoli, quasi certamente rifiuto della lavorazione della roccia che avveniva sul posto.

Generalmente nell’esterno della fortificazione, che poteva anche essere protetta da due o da tre cerchia di mura, e subito alle spalle del muro di cinta veniva realizzata una strada anulare larga fino a cinque metri, che aveva lo scopo di consentire ai difensori un rapido e facile passaggio lungo tutta la cinta, alta in media dai 3 ai 6 metri e larga da metri 1,80 a metri 2,50 e anche più. Lungo le mura si aprivano generalmente due porte: una piccola (o postierla) larga da metri 1 a metri 1,50 e l’altra grande (da metri 2 a metri 2,50) con il passaggio realizzato molto spesso da uno sdoppiamento parallelo del muro di cinta. Alle volte nell’interno della fortificazione si notano muri di terrazzamento per consentire  -ovviamente-  la costruzione in piano di capanne e qualche volta, come nella fortificazione di Carovilli-monte Ferrante, un edificio di culto.

I centri fortificati erano collegati con le strade del fondovalle o mediante sentieri scavati nella roccia o ottenuti con taglio del terreno, protetti verso la vallata con muretti a secco.

Circa la datazione queste colossali realizzazioni architettoniche non possono collegarsi direttamente con l’inizio delle guerre sannitiche, secondo una errata convinzione recentemente invalsa. Tale opinione, infatti, è storicamente non valida non solo perché tante e tante decine di fortificazioni giunte fino ai tempi presenti (certamente non sono tutte...) non si potevano realizzare in un periodo di tempo piuttosto breve, ma anche perché deve essere valutato il periodo storico immediatamente precedente quello delle guerre sannitiche. Certamente quando i Sanniti nella seconda metà del V secolo a.C. occuparono la Campania dovevano aver realizzato già un efficiente sistema difensivo; pertanto almeno dal VI secolo a.C. devono necessariamente riferirsi tutte o quasi le cinte esistenti nella Regione. Una delle più antiche del Sannio preromano è quella di Pietrabbondante-monte Caraceno la quale, secondo l’autorevole parere di Amedeo Majuri, risalirebbe al primo insediamento delle genti sabelliche nella zona ossia all’età del ferro.

Il sistema difensivo dei Sanniti consisteva in un insieme di fortificazioni poste sulla cima dei monti, dai quali era possibile dominare facilmente le valli e le piste erbose sottostanti. Erano disposte a catena e perciò abbastanza possibile comunicare a vista con quelle vicine, facendo ricorso molto probabilmente a grossi fuochi. Le fortificazioni, poi, erano perfettamente allineate tra loro, sì da creare come una possente ed invisibile rete, per cui in caso di pericolo era possibile in un breve lasso di tempo mettere in allarme tutto il sistema difensivo della zona interessata e l’avversario veniva facilmente « intrappolato » prima ed annientato poi, anche perché le cinte stesse erano predisposte in modo tale da difendere abbastanza validamente una intera area geografica. Questo dimostra che l’arte militare era tenuta in alta considerazione dai Sanniti i quali erano  -a detta di Plinio il Vecchio-  le genti più forti dell’Italia, tanto che Livio li definì « Samnites enim dura gens » (infatti i Sanniti erano  -nelle armi-  gente dura).

La vallata del Trigno, con il suo bacino di circa 1.200 Kmq. ha costituito da sempre, e per gran parte della regione abruzzese-molisana, una delle più importanti vie di accesso al mare tanto che il citato Plinio  -oltre a definirlo « Trinium piscosum »-  lo dice ricco di piccoli porti. Ancora nell’XI secolo Leone Marsicano, detto l’Ostiense, nel Chronicon Monasterii S. Benedicti... parla di un « flumen Trinium cum portu suo » (cioè il fiume Trigno con il suo porto). Ecco perché questa vallata, le cui cime strategicamente più importanti vennero fortificate in epoca sannitica, è intersecata in ogni direzione da numerosi tratturi, tratturelli e bracci per cui i Sanniti erano in grado di poter condizionare tutta l’economia pastorale degli Apuli, costretti nella tarda primavera a raggiungere con le loro greggi i pascoli montani dell’alto Sannio, così ricchi anche di acque. Questo è l’unico ed il solo motivo della maggiore concentrazione di fortificazioni nel territorio dell’alto Molise e dell’alto Sangro. Del resto i territori ad essere abitati per prima dai Sanniti in epoca protostorica furono appunto quelli dell’alto Sangro (la necropoli di Aufidena con tombe del VII secolo a.C. lo dimostra a sufficienza), dell’alto Volturno e dell’alto Trigno e ciò costituisce anche un argomento di importanza quasi decisiva ai fini della localizzazione del Bovianum Vetus presso Pietrabbondante, localizzazione del resto ampiamente documentata da irripetibili iscrizioni osche e da una interessantissima zona archeologica, unica nel suo genere! Inoltre la zona compresa fra Alfedena, Castel di Sangro, San Pietro Avellana, Capracotta, Agnone, Montefalcone del Sannio, Duronia, Frosolone, Carovilli, Longano, Cerro al Volturno, zona nel cui centro insiste il territorio di Pietrabbondante, è tutta un susseguirsi di cinte fortificate che indubbiamente dicono che era quello il cuore dell’antico Sannio perché difeso e protetto da ogni dove. Il territorio di Pietrabbondante, è doveroso rilevarlo, è attraversato da molti tratturi e tratturelli, tutti al tempo dei Sabini piste erbose al servizio della pastorizia, transumante e non. Pertanto il suo territorio rappresenta un punto nevralgico, certamente uno dei più importanti di tutto il sistema dei tratturi  -naturalmente dopo quello di Foggia e di qualche altro-  al servizio delle greggi provenienti dai pascoli di pianura della vicina Apulia. Altro che territorio « tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione » come si vorrebbe dare ad intendere e per convincersene basta guardare  -sia pure di sfuggita-  una carta qualsiasi dei tratturi per notare che la zona in esame  -larga non più di Km 20-  è attraversata dalle seguenti vie armentizie, tutte di epoca protostorica:

  1. Tratturo Celano-Foggia, con larghezza normale metri 111;
  2. Tratturo Castel di Sangro-Lucera, con larghezza normale di metri 111;
  3. Tratturo Ateleta-Biferno, con larghezza normale di metri 111;
  4. Tratturello Pescolanciano-Sprondasino, con larghezza normale di metri 18,50;
  5. Tratturello Sprondasino-Castel del Giudice con larghezza normale di metri 18,50;
  6. Tratturello Pietrabbondante (località Taverna)-Agnone (località Staffoli), con larghezza normale di metri 18,50.

Al contrario  -e ciò è molto significativo-  il territorio di Boiano è attraversato da un solo tratturo (il Pescasseroli-Candela il quale fino a Forlì del Sannio ha una larghezza normale di metri 111, restringendosi poi a metri 55,55 fino a Zungoli (AV) per poi tornare a misurare ancora metri 111 fino a Candela) e da un solo tratturello. Il Cortile-Matese. Sarà senz’altro importante notare in proposito che in tenimento del comune di Boiano il tratturo Pescasseroli-Candela si restringe notevolmente, fino a misurare una larghezza minima di soli metri 8,25.

È doveroso ricordare anche che, nonostante le molte imprecisioni scritte in proposito da Valerio Cianfarani, il tratturo Celano-Foggia (passa nelle immediate vicinanze di Pietrabbondante) per importanza è stato da sempre il secondo di tutta la rete, anche per la sua lunghezza, tanto che veniva subito dopo di quello detto del Re (è il tratturo L’Aquila-Foggia). Non risulta purtroppo neppure vero quanto ha recentemente scritto Marinella Pasquinucci a proposito dei « Tratturi alfonsini » perché il tratturo Celano-Foggia, che transita a poche centinaia di metri dall’abitato di Pietrabbondante, è uno dei più antichi, tanto da essere citato in una « carta » del 1533. Questo importante documento, certamente sfuggito all’attenzione della Pasquinucci, ne riporta sette di vie armentizie e testualmente vi si legge, tra l’altro:

  1. lo tratturo de Trigno et Piferno che cala al dicto ponte rutto;
  2. lo tratturo de Sangro, Trigno et Piferno che cala a La Motta.

Senza sorta di dubbio la prima citazione si riferisce al tratturo Castel di Sangro-Lucera e la seconda al Celano-Foggia.

La centralità del territorio dell’attuale Pietrabbondante rispetto al sistema viario di epoca preromana, costituito unicamente dalle piste erbose al servizio quasi esclusivo della pastorizia transumante, fu un altro validissimo motivo per essere scelto come punto di riunione delle antichissime tribù sannitiche (era questa la funzione della « capitale », che non può e non deve intendersi  -così come si tenta-  come centro burocratico e, quindi, urbano). Perciò quando Adriano La Regina scrive che il territorio di Pietrabbondante era segregato nel cuore del Sannio, non si sa a cosa voglia riferirsi anche perchè in argomento la sempre invocata Tavola Peutingeriana non c’entra affatto! Data per certa la vicinanza di tanti tratturi e tratturelli c’è da chiedersi: prima di fare una affermazione così autoritaria, ha il La Regina tenuto presente una carta dei tratturi o intendeva aggiungere confusione a confusione? Personalmente sono per la seconda ipotesi, considerati i significativi precedenti. Altrettanto illogica è l’altra sua affermazione che fa quando, interpretando ad usum delphini perché non tiene in nessun conto le teorie dei più illustri glottologi come il Pisani, il Bottiglione ecc. asserisce che quel BUVAIANUD che risulta da una epigrafe osca proveniente dal Calcatello di Pietrabbondante sta a significare che il citato magristrato Vesiullaeo, stando nel territorio dell’attuale Boiano, deliberò di costruire in Pietrabbondante un tempio, in prosieguo di tempo divenuto il « santuario » della intera comunità dei Sanniti Pentri, come egli stesso dice. Premesso che i santuari presso i popoli italici assolvevano « nella società antica al compito di integrare all’interno della comunità un complesso di funzioni economiche, sociali e politiche », come scrivono storici di indubbia fama, è mai possibile che un governo saggio e prudente (e quello dei Sanniti lo è sempre stato) deliberava di istituire, in dispregio ai più elementari motivi di praticità soprattutto viaria, stando a quanto afferma erroneamente il La Regina, e di prestigio politico, il punto di riunione dell’intera tribù dei Pentri (e su questo non vi sono dubbi se si vuol dare credito ad unici reperti epigrafici in lingua osca provenienti da Pietrabbondante, che nominano i sommi magistrati, il consiglio e la questura, cioè i massimi organi amministrativi dello stato sannitico) in un territorio sperduto tra i monti e di difficile accesso, specie nella lunga stagione invernale? È come se il Consiglio regionale del Molise deliberasse di istituire alle falde di monte Capraro, in quel di Capracotta, il punto di riunione degli amministratori, che possono ben paragonarsi  -senza offesa alcuna-  ai capi tribù dell’epoca, con la differenza che oggi anche le zone più impervie sono facilmente raggiungibili in qualunque periodo dell’anno. Mi sembra che, argomentazioni archeologiche e storiche a parte, certe affermazioni non reggono alla logica più comune.

Alcuni di queste poderose rocche, generalmente considerate dagli storici più come villaggi fortificati che come fortezze vere e proprie, erano in effetti stabilmente abitate non solo dai pastori, ma anche dai contadini che coltivavano i terreni posti o lungi i fianchi dei monti opportunamente terrazzati oppure nelle sottostanti vallate, campi facilmente raggiungibili attraverso i numerosi sentieri giunti fino ai tempi nostri. Poiché Appiano riferisce che durante una battaglia combattuta nel corso della guerra cosiddetta sociale presso il lago del Fucino, i Marsi, inseguiti da Silla, trovarono sicuro rifugio oltre i muri che proteggevano i loro vigneti, c’è da pensare che nei recinti, almeno quelli più grandi e situati in favorevoli condizioni climatiche, una parte della superficie compresa nella cinta poteva essere anche coltivata.

Naturalmente nel periodo invernale le greggi che stanziavano nei centri fortificati venivano condotte o nei pascoli delle sottostanti vallate, oppure in quelli dell’Apulia, attraverso gli appositi e vicini sentieri erbosi.

Per una maggiore comprensione della funzione di queste cinte è opportuno ricordare la superficie di alcune di esse: Baranello-monte Vairano ettari 50 circa, San Pietro Avellana-monte Miglio ettari 20 circa, Frosolone-Civitella ettari 15 circa, Carovilli-monte Ferrante ettari 8 circa, Chiauci-monte Sant’Onofrio ettari 5 circa. Un riferimento particolare merita la cinta di Pietrabbondante-monte Caraceno, nonostante che ufficialmente non ne sia mai stata calcolata la superficie. Tenendo presente non solo che le attuali emergenze archeologiche, ma anche quelle importantissime e validamente documentate avvenute nel secolo scorso ad opera dei noti Ambrogio Caraba e Francesco Saverio Cremonese che parlavano di mura rinvenute a circa 100 metri a sud-ovest del teatro e sicuramente appartenenti al perimetro delle fortificazioni di monte Caraceno, la sua superficie è almeno uguale alla cinta di Baranello-monte Vairano.

Per quanto attiene alla poca valorizzazione della zona archeologica di Pietrabbondante, almeno in questi ultimi tempi, mi sia consentito qualche raffronto unicamente per mettere a fuoco alcuni atteggiamenti almeno strani, evitando volutamente di incorrere nelle esagerazioni cosiddette campanilistiche, almeno perché qualunque sia il ruolo che l’archeologia cosiddetta ufficiale vuol riservare alle antichità di Pietrabbondante rimane indiscutibile un problema di base: le sue monumentali vestigia di epoca sannitica fanno della mia Terra di origine un centro archeologico tra i più prestigiosi di tutta l’Italia centromeridionale. E ciò da solo è sufficiente per riempire di legittimo orgoglio non solo il più acceso campanilista, ma ogni molisano verace che si sente orgoglioso dei suoi antichi progenitori!

Tornando all’argomento devo far notare, e mi smentisca chi può, che la necropoli della contrada Macchia di Pietrabbondante (ha restituito tombe sannitiche, le più antiche delle quali vanno datate al VI secolo a.C., tanto che Giacomo Devoto le assegna (« alle soglie dei tempi storici ») non viene inclusa dalla Soprintendenza archeologica di Campobasso fra quelle del periodo arcaico, ove si notano invece citate necropoli con datazioni molto più basse. Per Boiano, invece, avviene esattamente il contrario ed un esempio valga per tutti: Valerio Cianfarani, che a giusta ragione può considerarsi l’archeologo delle nuove frontiere per quanto attiene l’archeologia molisana (teorie che hanno retto poco o niente al vaglio dei sommi studiosi come Ranuccio Bianchi Bandinelli e Massimo Pallottino i quali hanno, rispettivamente affermato nel 1976 e nel 1981 che presso Pietrabbondante va localizzato il Bovianum dei Sanniti) attribuisce alla « scultura arcaica dell’area molisana » una testa di centauro proveniente, egli dice, dal territorio di Boiano. Senonché a distanza di appena un ventennio, Bruno d’Agostino, Soprintendente a Campobasso fino a qualche anno fa, non solo ritiene la citata scultura di « provenienza ignota », ma addirittura la colloca « in età post classica, nella tradizione provinciale della scultura romanica ». Questo fatto, non ancora rilevato da nessuno e certo molto interessante ai fini dell’archeologia di casa nostra, non dovrebbe far seriamente riflettere quelli  -e non sono pochi-  che credono ciecamente alle teorie di quegli studiosi « addetti ai lavori ». Ripeto ancora, tuttavia, che scrivo non per saziare l’appetito di un campanilista, ma unicamente perché desidero che si faccia ad ogni livello piena e completa luce sulla nostra antichissima storia.

Tornando all’argomento c’è da ricordare che le cinte servivano non solo per difendere i punti nevralgici del territorio, ma anche come centri di raccolta delle tribù viciniori nei momenti di maggiore pericolo. Naturalmente questi recinti fortificati dovevano necessariamente assicurare, in caso di prolungata e forzosa permanenza, anche i pascoli alle greggi. Pertanto dovevano disporre di una adeguata superficie, come anche i dati innanzi riportati dimostrano. Tale requisito non pare possa attribuirsi a quella “piccola struttura circolare di circa 110 metri di perimetro che racchiude un’area di poco meno di 900 mq” rinvenuta qualche anno fa sulla vetta di monte Crocella, nelle immediate vicinanze di Boiano. Dai dati si evince chiaramente non solo che essa non poteva materialmente assicurare protezione agli abitanti di una consistente tribù ed alle greggi  -come farebbe supporre il ruolo che si vuole attribuire a quel territorio in epoca preromana-  (poteva contenere al massimo un migliaio di capi di bestiame in posizione eretta e disposti a mò di sardine nella scatola e privi del necessario pascolo), ma doveva essere anche strategicamente insignificante, data la limitatissima superficie a disposizione dei difensori ed ogni paragone con tutte le altre sarebbe ozioso. Se è vero come è vero che l’area di una qualsiasi cinta fortificata è sempre in diretto rapporto con l’importanza del territorio in cui insiste, è provato ancora che quella dell’attuale Boiano in epoca sannitica « è fino ad ora quasi nulla », come autorevolmente attesa Giacomo Devoto.

Per meglio chiarire alcuni concetti esposti in precedenza si trascrive un elenco delle cime fortificate rinvenute nel territori dell’antico Sannio ufficialmente note, chiedendo venia per involontarie ed eventuali omissioni: 1) Agnone monte San Nicola e località Civitelle. 2) Alfedena (AQ) monte Curino, Civitalta e Manna. 3) Baranello Busso monte Vairano. 4) Belmonte del Sannio Rocca Labate. 5) Boiano monte Crocella. 6) Campobasso monte Sant’Antonio. 7) Campochiaro Civitella e Civitavecchia. 8) Capracotta monte Cavallerizzo. 9) Carovilli monte Ferrante e Coste Ingotta (Colle Arso?). 10) Castel di Sangro località Castello. 11) Castelromano. 12) Cecemaggiore monte Saraceno. 13) Cerro al Volturno monte Santa Croce. 14) Chiauci monte sant’Onofrio. 15) Civitanova del Sannio la Civita. 16) Duronia Civita. 17) Ferrazzano. 18) Frosolone Civitella. 19) Guardiaregia Colle di Rocco. 20) Isernia circonvallazione Orientale. 21) Longano monte Lungo. 22) Montefalcone del Sannio monte La Rocchetta. 23) Pescolanciano Santa Maria. 24) Pietrabbondante monte Caraceno ed ancora sulla morgia detta dei Corvi e sul castello. 25) Rionero Sannitico bosco Pennataro. 26) Roccacinquemiglia (AQ). 27) San Pietro Avellana monte Miglio. 28) Santa Maria del Molise. 29) Sepino Terravecchia. 30) Trivento porta Caldora (località Serraconi). 31) Vastogirardi Santa Margherita. 32) Venafro Madonna della Libera. 33) Vinchiaturo Monteverde.

 

 

Gli insediamenti ed i santuari

 

Argomento strettamente connesso a quello delle fortificazioni è l’altro relativo agli insediamenti sannitici. Anche se non è possibile trattarlo compiutamente per tirannia di spazio, mi limiterò a poche osservazioni per chiarire i momenti più importanti dell’argomento.

È storicamente assodato che i Sanniti, come del resto i Sabini loro antenati, non abitavano in città intese nel senso tradizionale, ma sparsi nella campagna tanto che Strabone (V, 250), parlando dei loro insediamenti, dice che « nessuno era degno di essere considerato una vera città ». Quando Livio, parlando delle guerre sannitiche, ricorda alcuni centri in cui gli abitanti si concentravano, non si può interpretarlo alla lettera perché lo stesso afferma che Aquilonia e Cominio (X, 44), prese dopo poche ore di assedio, furono interamente incendiate. Appiano (B.C. I, 5) aggiunge che Silla dopo un’ora di assedio si impadronì della irpina Aeclanum perché minacciò gli abitanti di soffocarli incendiando le mura della città, formate soltanto da travi di legno.

Evidentemente ha ragione il Gabba quando afferma che « un qualche sviluppo urbanistico non si ebbe nel Sannio che con la colonizzazione romana ».

Le teorie esposte sono validamente confermate dalla circostanza che strutture urbanistiche di epoca sannitica (strade interne, abitazioni private, ecc.) sono archeologicamente inesistenti perché, come documenta l’insediamento di monte Curino presso Alfedena (il primo per importanza nella regione), almeno fino al II secolo a.C. il Sannio raggiunse un grado di urbanizzazione modestissimo. Risulta così provato il perché gli antichi storici erano concordi nel ritenere che solevano vivere in abitazioni sparse, tanto che il Salmon parla di agglomerati formati da capanne, costruite per durare qualche anno soltanto. Pertanto i Sanniti, dalla vita piuttosto nomade prevalentemente dediti alla pastorizia, si possono immaginare topograficamente divisi in tribù, nella loro lingua dette « touta » ossia nuclei etnici affini, di preferenza concentrate sulle falde delle montagne (ad vicatim scrive Livio), nelle vicinanze delle cinte fortificate e lungo le vie di comunicazione (sentieri o piste). Questi villaggi, che i latini chiamavano « vici », si articolavano in quella specie di unità territoriale già ricordata e detta touta. Tali « vici », attestati nella regione un po’ dovunque, come risulta da sporadici ritrovamenti archeologici, oltre a tenere unita la gente rurale assumevano anche la funzione di mercati, perché ubicati in posti ove dovevano necessariamente transitare gli armenti nel corso della transumanza. Erano, cioè, località ove si scambiavano prodotti agricoli ed artigianali. Pertanto i Sanniti non conobbero giammai quegli insediamenti che abitualmente si definiscono comunità urbanizzate, intese cioè come complessi di servizi pubblici e soprattutto privati. Questa totale assenza di strutture cittadine in epoca preromana non pregiudica minimamente i problemi della loro convivenza politica, religiosa, economica e sociale. In questi territori urbanisticamente inarticolati l’espressione delle diverse comunità o touta si manifestavano esclusivamente nei santuari i quali non si limitavano, come comunemente potrebbe credersi, ad instaurare soltanto rapporti fra divinità e credenti. Infatti svolgevano soprattutto quelle attività cosiddette di rappresentanza perché assolvevano ad importantissime funzioni sociali. Le diverse tribù, convenendo nei santuari, riaffermavano anche, e soprattutto l’esistenza di tradizioni e di interessi comuni e le cerimonie religiose che vi si tenevano servivano anche a rinsaldare la propria unione e la propria libertà. Un altro importante ruolo del santuario era quello di favorire la circolazione interna ed esterna, ragion per cui doveva essere facilmente accessibile, naturalmente mediante le strutture viarie dell’epoca.

Ecco perché nel Sannio, come presso tutti i popoli detti Italici, i santuari erano piuttosto numerosi e sparsi un po’ dovunque; naturalmente imponevano il proprio controllo sulle comunità circostanti perché costituivano il punto di unione tra funzioni politiche. Pertanto assicurarsi il controllo su di un santuario qualsiasi significava affermare la propria autorità sul territorio in cui sorgeva, come giustamente affermano Luca Cerchiai ed altri autori. Da quanto detto, sia pure brevemente, si arguisce chiaramente che il santuario rappresentava l’elemento portante della struttura territoriale italica, e quindi sannitica, non soltanto amministrativa, politica ed economica ma anche militare perché ivi si davano convegno le più alte cariche o per coordinare una difesa comune in caso di pericolo oppure per dichiarare la guerra.

Tutte le attribuzioni demanate a questi santuari, che possiamo definire di importanza locale, venivano opportunamente coordinate in sede di riunione dei capi delle diverse tribù, riunioni che avvenivano in un santuario di importanza federale, il quale risulta archeologicamente ed epigraficamente localizzato nel territorio di Pietrabbondante, ove si davano convegno i componenti dei più grandi istituti amministrativi della federazione sannitica, come si legge in numerose iscrizioni osche colà rinvenute, per adottare tutti i provvedimenti riguardanti l’intera collettività. Ciò lo si legge anche in un’altra iscrizione, ove si cita il termine SAFINIM, che diede origine all’etnico Samnites, come afferma Massimo Pallottino. Se a tanto si aggiunge la circostanza che dalla zona, universalmente nota per la sontuosità e maestosità degli edifici rinvenuti, proviene anche l’unica epigrafe osca che ricorda il mitico BUVAIANUD dei primi Sabelli giunti in epoca protostorica nelle nostre contrade, non vi sono dubbi sul ruolo importantissimo e preminente che il territorio di Pietrabbondante assolse in epoca preromana. Del resto ciò è stato esplicitamente ammesso dai più autorevoli storici contemporanei: dal Barbagallo al Pais, dal Ferrabino, al Pareti e per ultimo, in ordine di tempo, da Massimo Pallottino, universalmente riconosciuto come il maggiore rappresentante sul piano internazionale degli studi sull’Italia preromana. Scrive infatti il Pallottino (anno 1981) che presso Pietrabbondante va localizzato il BOVIANUM di epoca sannitica.

E così anche in considerazione delle numerose e preminenti attività politiche, economiche, sociali, religiose, ecc. svolte dal santuario cosiddetto di Pietrabbondante, viene automaticamente a cadere l’ipotesi già riferita del La Regina circa la sua ubicazione in zona isolata e lontana dalle... grandi vie di comunicazione. Se ciò rispondesse al vero come potrebbe conciliarsi tale ipotesi con la grande importanza del santuario stesso (addirittura di interesse federale), al quale dovevano necessariamente ed abbastanza frequentemente affluire dall’intera regione popolo ed autorità di ogni rango? Del resto il teatro, l’unico rinvenuto in tanti e tanti santuari tornati alla luce, lo attesta inequivocabilmente perché l’edificio deve intendersi anche come luogo di convegno oltre che di divertimento.

Per concludere in merito ad una così rumorosa e spesso contraddittoria contestazione, è doveroso ricordare che da sempre  -cioè sin dall’epoca dei primi scavi predisposti nel 1857 dal governo borbonico insigni studiosi del tempo localizzarono nella zona archeologica di Pietrabbondante ANCHE UN SANTUARIO. Tali teorie sono state successivamente condivise da tutti i più insigni studiosi di ogni nazionalità vissuti nell’ultimo secolo e mezzo. Infatti Amedeo Maiiuri la definì « il santuario sacro e federale di un popolo di guerrieri e di pastori » e Ranuccio Bianchi Bandinelli scriveva nel 1976: Pietrabbondante, borgo d’Italia nel Molise, antico centro sannita, il Bovianum Vetus dei Romani; vi rimangono un teatro dipendente da un santuario e una necropoli. Pertanto ritengo che Valerio Cianfarani prima e Adriano La Regina poi (unitamente a tutti gli altri studiosi noti e meno noti) abbiano detto poco o niente di nuovo quando affermano con inusitata e plateale sicurezza che presso Pietrabbondante va localizzato soltanto ed unicamente un... santuario sannitico.

È doveroso anche accennare brevemente ad una per lo meno strana affermazione di Maria J. Strazzulla: in una pubblicazione patrocinata dalla Soprintendenza Archeologica di Campobasso scrive che a Pietrabbondante non si notano “fasi urbanistiche” di epoca preromana (quella romana non interessa il presente saggio), e pertanto, non può essere il Bovianum Vetus (naturalmente le attestazioni epigrafiche in lingua osca vengono sottilmente e cavillosamente annullate...). Tenute presenti le osservazioni innanzi esposte e, soprattutto, la totale assenza nel territorio dell’intero Sannio di strutture monumentali come quelle che affiorano a Pietrabbondante, c’è da pensare che l’antistorica affermazione abbia il solo scopo di portare... ufficialmente acqua al mulino della contestazione.

Sono questi i cosiddetti simpatizzanti dei « dotti baroni », che prima accettano supinamente certe ipotesi (emblematicamente sempre definite “suggestive”) senza alcun vaglio critico e poi ne diventano banditori e divulgatori. Così dopo qualche tempo quella che in origine era soltanto una « suggestiva ipotesi » diventa per forza di cose una realtà storica, anche se qualche volta in netta contraddizione con quelle enunciate precedentemente dalla stessa fonte.

È auspicabile, pertanto che convegni e tavole rotonde a tutti i livelli non siano più “riservati”, ma diventino al più presto aperti perché nella vera cultura non può trovare posto il cosiddetto pascolo abusivo, che si suole imputare ai non addetti ai lavori. Infatti non è più tollerabile che a tali iniziative culturali intervengano esclusivamente personalità di comodo perché anche nella nostra Regione vi sono tanti cultori di storia patria, che potrebbero avere molte cose da dire, naturalmente sempre con il massimo disinteresse non potendo essi aspirare a carriere rapide o a notorietà.

Perciò sembra giunto il momento di instaurare anche nel nostro Molise rapporti di collaborazione fra i cosiddetti addetti ai lavori e studiosi locali, anche perché da sempre la dialettica è alla base di ogni vera cultura.

 

Da: Risveglio del Molise, 1982, n. 9-10, p. 17 e n. 11-12, p. 10 e XXIII, 1983, nn. 1-2, pp. 20-21, XXIII, 1983, nn. 2-3, p. 16

 

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