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MAIURI AMEDEO

 

TREGLIA – Ricognizione nell’Agro Trebulano

 

(In Atti della R. Accademia Nazionale dei Lincei – Notizie degli Scavi di antichità – estratto dal vol. VI, Serie VI, fascicoli 4°, 5°, 6°, 1930, pp. 214-228)

 

 

Il massiccio dei Monti Trebulani fra la stretta di Triflisco a sud e il passo di Pietravairano o Borgo S. Antonio Abate a nord, tutto aspro ed impervio, con poche e strette convalli all’interno, dominato dalla vetta di M. Maggiore (m 1037), viene a costituire dopo la catena del Tifata, una vera e propria barriera che divide la pianura alifana bagnata dal medio corso del Volturno, dall’agro campano percorso dal tratto inferiore dello stesso fiume (fig. 1); a causa di questo naturale sbarramento, il Volturno, dopo aver percorso la piana di Allifae (Alife) ed essersi aperto il varco a fatica fra le estreme propaggini del Matese e le propaggini settentrionali dei M. Trebulani, entra nella stretta piana di Caiazzo per sboccare finalmente fra i Tifatini ed i Trebulani, a traverso il solo valico possibile della chiusa di Triflisco, nella pianura campana. Per questa sua ubicazione e per la sua conformazione verso la pianura campana, lungo la quale viene ad offrire con i suoi gioghi e con le sue vette eccellenti posizioni di vedetta, di difesa e di offesa contro le popolazioni del piano, il massiccio trebulano, frapposto fra la Campania ed il Sannio, doveva formare il naturale e più formidabile antemurale del Sannio alifano e de gruppo orografico del Matese. Pochi e malagevoli valichi si aprono a traverso questo baluardo di monti[1]: a nord fra Teano, Calvi, la regione del Massico, del Falerno e l’agro alifano, si apre il solo comodo passo di Borgo S. Antonio Abate fra le alture di S. Nicola e il Monte Monaco; seguono più disagevoli ed alpestri, trasformati solo in età moderna da tratturi montani in vie rotabili, il passo per Pietramelara, Baia e Latina e l’altro, più impervio ancora, che sormontato il giogo di Roccaromana, scende a Latina; a sud per gli abitanti dell’agro casilino e capuano, dovevano servire gli altri due valichi meridionali e cioè quello più breve che per Pontelatone, Treglia, Liberi, Alvignano sbocca a Dragoni nella conca di Alife: l’altro più lungo che, dopo aver sormontato il massiccio soto la rocca dell’antica Caiatia, scende con più ampia curva egualmente a Dragoni. Dei due ultimi valichi, il primo che attraversa tutto il massiccio trebulano nella sua media sezione, era guardato dalla città di Trebula (od. Treglia); il secondo dalla munitissima rocca di Caiatia. Ma se dell’antica Caiatia qualche notizia si ha dei resti delle sue difese in opera poligonale e della sua caratteristica rocca rupestre[2], pressoché nulla si conosce della topografia e degli avanzi dell’antica Trebula[3] che occupando il centro della impervia regione e sbarrando il più breve valico montano, doveva essere stata prima dell’occupazione sannitica della Campania, la più importante e più munita città di tutto il massiccio montuoso dei monti trebulani e caiatini.

Fedele pertanto al programma di esplorare con la ricognizione del terreno gli avanzi soprattutto murali dell’età preromana nelle regioni montuose contermini della Campania, per meglio delimitare intorno alla Campania la zona etnica e monumentale delle stirpi italiche che con essa ebbero rapporti di civiltà e di dominio, volli con alcune escursioni sopraluogo rendermi esatto conto degli avanzi dell’antica Trebula; mi confortarono soprattutto a ciò la segnalazione che dell’esistenza di  mura poligonali mi aveva fatto l’egregio Ispettore onorario arciprete cav. Michele Fusco, le cortesi insistenze che con l’Ispettore mi avevano rivolto i componenti della civica Commissione per le antichità[4], il fervore con cui queste egregie persone, continuando una delle più belle e nobili tradizioni della cultura italica, si occupano delle antichità della loro regione, giungendo fino a costituire nella sede del comune di Formicola il nucleo di un antiquario locale: e mi fu compagno e collaboratore prezioso in questa come in altre precedenti esplorazioni dell’agro alifano e del Matese, il dottore Mario Bagnasco della Commissione dei monumenti della provincia di Napoli, con il quale ho potuto fare quella diligente e completa ricognizione delle fortificazioni di Trebula e Castellone che consente il terreno, lo stato delle rovine e della vegetazione boscosa che le occulta, e il tempo che ad esse potevamo dedicare in brevi escursioni da Napoli.

 

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Dopo il bivio di Formicola, l’attuale rotabile che deve necessariamente seguire la linea dell’antico valico a traverso il cuore dell’altipiano trebulano, s’incassa fra le pareti del Monte S. Erasmo e del Monte Frigento lungo il marginale del profondo letto scavato dal torrente Pisciarello per risalire all’abitato rurale di Treglia: poco dopo l’abitato di Treglia, presso il ponte di Tora che valica il torrente, viene a sboccare ed a chiudere il passo verso Profeti e Liberi, l’altura di Monticelli che, isolata com’è da ogni lato, con i ripidi fianchi in parte denudati di roccia calcarea, in parte coperti da fitta boscaglia, forma una naturale e formidabile difesa di questo valico alpestre (fig. 2). Dalle vetta (m 467) l’occhio spazia sulla conca dei monti all’ingiro che qui si ampliano a levante verso le alture di Liberi, si chiudono a nord con le cime più alte di M. S. Angelo (m 870) e di M. Melito (810), a sud con i monti di Frigento (m 767) e S. Erasmo (m 746) verso la stretta gola di Treglia. Posizione alpestre così formidabile, chiave di volta di tutto il sistema di difesa della regione e naturale centro di popolazioni montane dedite alla pastorizia, non poteva non esser centro di abitato antichissimo, e qui infatti sono da ricercare le rovine della Trebula sannitica[5]. Il sito della città è facilmente identificabile: nel largo ed assolato pianoro denominato La Corte che si estende ai piedi dell’altura di Monticelli, delimitato ad est dal fossato del torrente, ad ovest dalla linea del muro di cinta poligonale, a sud da un lieve rialzo roccioso del terreno, è da collocare la città bassa, la cui presenza è già sufficientemente rivelata dalla presenza di una grande cisterna di acqua, attraversata dalla rotabile di Treglia-Liberi, da ruderi affioranti sul terreno di epoca romana ed inoltre da una grande platea di lastroni di travertino in cui i villici del luogo s’imbattono nell’aratura dei campi, e nella quale è probabilmente da riconoscere il foro della città romana. L’acropoli è anch’essa facilmente riconoscibile nella massiccia altura di Monticelli (m 467), poiché dal piano stesso della città e dal ponte di Tora si discernono nettamente lunghi tratti di mura poligonali disposte a varia altezza lungo l’aspro pendio del colle. La semplice veduta dei luoghi mostra, che la città e l’acropoli di Trebula organicamente collegate fra loro da una vasta e complessa opera di recinzione murale di opera poligonale, costituisce il più grandioso ed il più perspicuo esempio di città italica, che si abbia in tutte le regioni montane limitrofe della Campania.

 

 

LA FORTIFICAZIONE

 

Primo ed essenziale compito di una prima ricognizione del terreno doveva essere il riconoscimento della cinta murale che recinge l’acropoli in più ordini di mura e la città bassa; frutto di questa indagine accurata sul terreno è la planimetria esibita alla fig. 3 e che nella scarsezza che abbiamo di rilievi di piante di città sannitiche, rappresenta un risultato che gli studiosi di topografia e di storia dell’Italia antica sapranno apprezzare.

Il sistema delle fortificazioni è costituito da un possente muro esterno di recinzione (v. pianta, fig. 3-A) che dopo aver circuito d’ogni lato i fianchi dell’altura di Monticelli seguendone a media quota di altezza la linea delle terrazze o degli appiombi naturali della roccia, scendeva al piano in due lunghi bracci rettilinei che dovevano racchiudere l’area rettangolare della città bassa; di questi bracci è conservato quello del lato occidentale: quello del lato orientale che correva originariamente lungo il margine del profondo vallone solcato dal torrente Pisciarello, è andato completamente in rovina per l’erosione stessa del torrente e per la distruzione che dové farsene o durante gli avvenimenti bellici della seconda guerra punica[6] o nel periodo del municipio romano, quando una difesa di opera poligonale che occludeva la città verso l’unico sbocco della valle, doveva sembrare del tutto superflua e dannosa al traffico agricolo che costituiva allora l’unica ragion di essere della Trebula romana; tracce di questo muro si scorgono peraltro nei materiali disseminati lungo la ripida scarpata del torrente. Nessun chiaro avanzo ci è stato possibile di determinare del muro poligonale che chiudeva a sud la cinta murale della città bassa, ma seguendo gli avanzi cospicui della muraglia del lato occidentale lungo la strada mulattiera Le Càmpole, se ne può indicare l’angolo di risvolto alla località Torre che, formando una specie di rialzo roccioso del pianoro, offriva la più logica e la più naturale linea di sbarramento verso la stretta e chiusa gola di Treglia. L’intero circuito del muro esterno della fortificazione veniva così a misurare all’incirca 2500 metri, dei quali due terzi sono ancora ben conservati.

La linea esterna della fortificazione se fu giudicata sufficiente alla difesa del pianoro della cità bassa, non si ritenne bastevole alla difesa dell’acropoli; e sull’acropoli infatti il sistema di difesa si raddoppia. Due lunghe mura trasversali (B-B’) vengono a racchiudere lo stretto e denudato acrocoro della collina in modo da costituirne la più alta ed inaccessibile rocca di difesa; inoltre, lungho il pendio orientale del  monte più facilmente accessibile del pendio occidentale e più esposto verso il valico, una terza linea di sbarramento (C) è costituita da un muro di opera poligonale che innestandosi su un angolo di risvolto della muraglia esterna A e terminando nel punto m, veniva a formare una difesa intermedia fra la cinta esterna e la cinta interna dell’acropoli. La presenza di questa terza muraglia di sbarramento e di terrazzamento del terreno è forse da mettere in rapporto con la presenza di una lunga e bella terrazza erbosa (F) che, nel terreno, accidentato dell’acropoli, non può non essere oggetto di particolare esame. È uno stretto e lungo pianoro di m 150 di lunghezza per 18-20 di larghezza che, per la sua forma regolare, non può che esser riferito a lavoro artificiale di spianamento e di terrazzamento del terreno: il muro della fortificazione esterna lo delimita e lo terrazza verso il pendio a valle, mentre il terzo muro C, a quota alquanto superiore, viene a racchiuderlo e a delimitarlo a monte. Non si può a meno di supporre che in questa terrazza, unica qual è in tutta l’area dell’acropoli, favorevolmente esposta a sud-est, naturalmente racchiusa fra la cortina del M. Frigento e del M. S. Angelo, con l’ampia veduta aperta verso la conca di Cese, Marangeli e Liberi, fosse il principal luogo di riunione di festività o di ludi che nel periodo della città sannitica dovevano celebrarsi sull’acropoli.

Il muro esterno della fortificazione dell’acropoli, lungo il lato orientale, si inizia al punto d’innesto della rotabile sul ponte di Tora, dove affiora anche la costruzione di un tardo acquedotto che portava l’acqua alla città bassa: la muraglia, superato il primo pendio della collina dove per la prossimità stessa delle moderne opere stradali, ha subito i maggiori danni, si eleva gradatamente in altezza, raggiungendo nei tratti segnati con la lettera A l’altezza di circa 4 metri, e nel tratto seguente che è per tecnica e conservazione fra i più imponenti, l’altezza di più di 5 metri (tav. IX A): lo spessore del terrapieno di rincalzo varia, a seconda delle ineguaglianze del terreno da m 2,50 a m 3,20 al massimo. Segue, dopo un leggero angolo di risvolto (b), un lungo tratto dove il muro, nascosto dalle frane del terreno e dalla vegetazione, è peraltro chiaramente rivelato dall’allineamento stesso della lunga terrazza alla quale abbiamo accennato poc’anzi: la muraglia torna a riapparire ancora ben conservata all’angolo nord-ovest, dove si osserva anche una posterla a sezione trapezoidale coperta di lastroni a piattabanda ed attualmente ostruita dal terreno. Da questo punto il muro si eleva sul margine roccioso dell’acropoli e, dopo averne circuito il fianco nord-ovest, scende quasi rettilinearmente al piano per prolungarsi nella difesa della città bassa. Del muro intermedio C che, come abbiamo detto, si innestava sul muro esterno di recinzione, non restano che due tronconi estremi (c-c’) dell’altezza di 2-3 metri; ma che questi fossero collegati da un unico sistema di muro, appar chiaro dall’allineamento stesso dei materiali franati che si osservano in tutto lo spazio intermedio: abbiam già supposto che il muro C servisse di sbarramento e di terrazzamento, e non è da escludere che oltre a delimitare, come si è detto, l’area della grande terrazza inferiore, servisse anche di muro di sostegno ad una strada che da questo lato poteva guadagnare la vetta dell’acropoli.

Ma la vera e propria difesa dell’acrocoro superiore è costituita dalle due muraglie B-B’ che pur innestandosi indipendentemente l’una dall’altra al perimetro esterno, vengono a formare una vera e propria cinta dell’acropoli; del muro B a nord-ovest e nord-est si conservano tratti imponenti alle due estremità di allacciamento con la cortina esterna (tav. IX B), mentre nello spazio intermedio, restano solo i materiali di franamento e, segno evidente di sistematica per quanto parziale demolizione, il letto di posa della muraglia tagliato nel vivo della roccia: del muro B’ lungo il fronte meridionale della collina è facilmente riconoscibile l’intero allineamento. Le frane e gli scoscendimenti del terreno e la mancanza di salienti di rientranze non permettono di riconoscere vere e proprie porte di accesso e di comunicazione fra l’una e l’altra cinta dell’acropoli: ma è da notare che il muro B, al punto di giunzione con il muro esterno A verso nord-ovest, non s’innesta struttivamente con questo ma termina sul limite interno del muro, in modo da lasciare libero il passaggio per quanto è consentito dallo spessore stesso della muraglia. Altrettanto incerto è il determinare l’accesso dalla città bassa all’acropoli:data la natura del terreno e la presenza del muro di sbarramento B’, le sole vie di accesso potevano esser date dal ripido pendio della collina lungo i lati della muraglia e della recinzione esterna.

L’area che veniva ad essere inclusa fra i muri della cinta interna dell’acropoli è, come si scorge dalla pianta, limitata alla cresta superiore dell’acrocoro; e la natura del terreno, scabro, roccioso ed ineguale, che si rispiana solo nel brevissimo spazio di una lieve insellatura mediana, non consente altro uso e destinazione all’infuori di un recinto fortificato. Né tracce evidenti di altri edifici si scorgono in tutto l’ampio recinto esterno ed interno dell’acropoli: solo dal lato orientale lo spianamento evidentemente artificiale della lunga terrazza F lascia supporre, come abbiamo supposto, la presenza di un pubblico luogo di riunione e la esistenza di qualche edificio pubblico o religioso.

Il muro occidentale della città bassa, il solo conservato, non è che la diretta continuazione del muro dell’acropoli: lo stesso allineamento e la stessa tecnica. La muraglia nascosta da cespugli, conservata per l’altezza media di 3 metri circa, costituisce anche il muro di terrazzamento del pianoro su cui si elevava la città (fig. 4); l’unica rientranza che si osserva nel punto P deve corrispondere alla presenza di una porta di accesso: in p’-p’ restano ancora intatte due posterle dello stesso tipo di quella osservata nel muro esterno dell’acropoli, formata negli stipiti da grossi lastroni rettangolari e chiusa in alto da un grande architrave monolitico di maggiori dimensioni dei blocchi degli stipiti.

Il materiale per la costruzione di una così vasta opera di difesa, tutto di calcare locale, venne evidentemente tratto dagli stessi banchi di roccia che affioravano sulla collina dell’acropoli: sono ovunque evidenti i tagli ed i piani risultanti dall’opera delle cave, e si direbbe anzi che il taglio operato sugli appiombi e sulle balze delle rocce, oltre a fornire il materiale necessario per la costruzione delle varie mura di recinzione, servisse anche a rendere più scoscesi e più inaccessibili gli approcci alla fortezza. La tecnica della costruzione è pressoché uniforme in tutto il perimetro della recinzione esterna ed interna, tanto da doversi ritenere coeva o senza valutabili differenze di epoca e distinguibili parti di rifacimento. È lo stesso tipo di poligonale primitivo che abbiamo, in altri nostri precedenti rapporti, osservato in altre cinte murali della regione del Matese, sul M. Cila, a Faicchio, a M. Acero, a Sepino[7]: la struttura risulta di blocchi di ogni forma e dimensione giustapposti secondo i piani naturali di taglio, rozzamente eguagliati nella faccia esterna, con gli interstizi riempiti di blocchetti minori e di scaglie e rifiuti di lavorazione. Prevalgono i blocchi di media grandezza, ma non mancano massi di grandi dimensioni generalmente a piani orizzontali di posa (se ne osservano in un tratto della cinta superiore taluni di più che 2 metri di lunghezza), adoperati indifferentemente come nel Cila ed a Faicchio, negli strati inferiori e superiori del muro[8] segno manifesto che l’opera di costruzione progrediva insieme con il taglio e l’estrazione del materiale e che la tecnica era del tutto subordinata alle forme ed alle dimensioni dei blocchi che venivano a mano a mano forniti dalle cave. Alla cortina del muro trovasi addossato l’aggere formato da terra e pietrame minuto, residuo della lavorazione che i blocchi subivano nell’atto del loro collocamento, e che, con la sua varia profondità, serviva da terrapieno fra il terreno naturale della collina e la cortina murale. Come i quasi tutte le cinte poligonali italiche e particolarmente in quelle del Sannio alifano, anche nella cinta trebulana, il muro poligonale ci si presenta soprattutto come muro di terrazzamento di piani naturali o artificiali del terreno, e tale era il tipo e la struttura essenziale del poligonale italico nella sua fase primitiva ed originaria. Solo in un breve tratto, nel punto cioè di giunzione della cinta superiore V con la cinta Esterna A, il muro, in una depressione del terreno, si inizia con un doppio paramento a cortina poligonale dello spessore di m 2,40 circa.

La forma e la tecnica della murazione trebulana, rivelano chiaramente la sua perfetta analogia con le murazioni sannitiche del M. Cila e di Faicchio della vicina regione alifana: anche a Trebula, come nel M. Cila e come a Faicchio, si ritrova lo stesso principio informatore di difesa strategica del terreno: una non grande altura, distaccata come antemurale da un grande massiccio montuoso, a cavaliere di ardui ma necessari valichi alpestri, viene prescelta come linea di difesa rivolta esclusivamente verso la pianura campana; trattasi anche qui di una grandiosa opera di sbarramento del più breve e rapido valico che si apriva attraverso il massiccio dei monti trebulani, ma a differenza del Cila e di M. Acero, dove la natura dei luoghi e la estensione della cinta murale non lasciano riconoscere se non una semplice linea di difesa del terreno[9], a Trebula invece si ha la difesa organica e completa di un abitato di città, poiché, come abbiam detto, nel pianoro La Corte doveva senza dubbio alcuno estendersi anche l’abitato della città preromana coeva del periodo della fortificazione poligonale. Città ed acropoli non potevano che appartenere alle stesse popolazioni sannitiche del Sannio alifano che padrone, com’erano, del corso superiore del Volturno fino al suo sfociare nell’agro Campano e già asserragliate sulle balze del massiccio del Matese, avevano inteso il bisogno di estendere il loro dominio ai Monti Trebulani che, per la loro ubicazione e conformazione, venivano a formare la linea avanzata di difesa della retrostante regione. Ignari come siamo delle vicende belliche delle stirpi sannitiche nella regione contermine della Campania, dobbiamo però ammettere che la costruzione di questa vasta opera fortificatoria sia di non poco anteriore alla conquista sannitica della Campania, quando, cioè, popolazioni montane dedite esclusivamente alla pastorizia nella chiusa convalle dei monti trebulani, sentirono la necessità di asserragliarsi contro le temute incursioni delle popolazioni osche ed aurunche della Campania e della regione del Massico e del Garigliano; l’età pertanto a cui dev’essere riferita la fortificazione trebulana può venir determinata, per le ragioni stesse della tecnica primitiva della sua struttura, entro il VI secolo av. Cr.[10].

Da quanto abbiamo detto sul carattere e sull’età di questa cinta fortificata, risulta evidente l’importanza singolarissima che dové avere nel periodo del VI V secolo la città sannitica di Trebula destinata, insieme con la rocca di Caiatia, a difendere i principali valichi fra la pianura campana e la pianura alifana; ed è facile altresì intuire l’eccezionale importanza che dovrebbe avere l’esplorazione dell’abitato e della necropoli trebulana nel periodo anteriore alla conquista campana, esplorazione che, per particolari condizioni del luogo rimasto libero da sovrapposizioni di abitati medioevali e moderni (le difese del passo di Treglia si ebbero nel medioevo a Pontelatone, e l’odierna Treglia è fuori della cerchia delle mura), si presenta in circostanze eccezionalmente favorevoli. Troppo poco sappiamo ancora, al di fuori delle cinte poligonali di città fortificate, dell’edilizia pubblica e privata delle stirpi sannitiche nell’età anteriore alla loro espansione politica verso la Campania e la Lucania, ché troppo poco ha dato in questo campo l’esplorazione di Alfedena nella valle del Sangro[11] e troppo già sottoposti all’influenza ellenistica ci appaiono i monumenti di Pietrabbondante[12]. Se, come è certo, l’esplorazione di una città sannitica nel momento decisivo della storia d’Italia, fra l’VIII ed il V secolo av. Cr., è supremo ed essenziale dovere dell’archeologia nazionale, la città di Trebula con l’area dell’abitato ancora intatto, con le necropoli più antiche non ancora frugate, offre il modo di compiere agevolmente e compiutamente questo dovere. Ed inoltre, per la sua estrema vicinanza alla Campania, Trebula potrà forse meglio di Allifae[13], mostrare il lento processo civilizzatore per il quale gli aspri Sanniti discendenti dalle stirpi neolitiche autoctone dell’Appennino, vennero ad assimilare gradatamente i prodotti e le arti della civiltà greca attraverso quegli stessi valichi montani, che essi asserragliavano con le forti difese dell’opera poligonale italica.

 

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Assai scarso è il materiale archeologico che è venuto alla luce dall’area della città e dell’acropoli di Trebula; esso è andato quasi del tutto disperso nelle mani di privati collezionisti e di antiquari per i quali la documentazione storico-topografica si annulla dinanzi al valore intrinseco dei singoli oggetti: sembra peraltro che le fortuite scoperte avvenute per il passato soprattutto nell’area dell’abitato antico compreso nella località la Corte siansi limitate allo strato romano della città, e non abbiano toccato in profondità gli strati della città sannitica[14]. Lo stesso dicasi della necropoli della quale si è solo fortuitamente scoperta qualche tomba nell’interno dell’abitato moderno di Treglia, e che possiamo ritenere nel suo complesso e per il periodo più antico delle deposizioni pressoché intatta. Merita pertanto di essere segnalata ed incoraggiata la generosa iniziativa che alcuni benemeriti cittadini hanno assunto di raccogliere in un antiquario nella sede comunale di Formicola, attuale capoluogo della regione, quanto poteva venire in luce nell’agro trebulano.

Tra i materiali che ho avuto occasione di esaminare e che hanno più particolare interesse per la civiltà più antica della regione vanno segnalati:

1°. Un bell’esemplare di punta di freccia (lungh. Mm 65), raccolto dal dott. Parillo nella sua Masseria allo sbocco della gola di Pontelatone verso la pianura, costituisce fino ad ora, per quanto io sappia, il primo documento dell’industria litica dell’agro trebulano: è in selce bionda, e per l’accurata rifinitura di una delle facce, rivela la stessa eccellente tecnica di lavorazione dei pugnali eneolitici della regione del matese[15]. Questo manufatto va comunque ricollegato con i manufatti litici raccolti nel Museo di Piedimonte di Alife e con altri, di proprietà privata, provenienti dall’agro di Caiazzo.

2°. Una serie di vasi grezzi, a corpo a tronco di cono ovoidale, con ansa a linguetta, di un rozzo impasto rossiccio marrone, offre il tipo della primitiva ceramica locale derivata da forme sopravvissute della ceramica eneolitica (fig. 5). Ma a meglio determinare l’epoca è necessario che altre scoperte e qualche scavo sistematico ce la presenti con il necessario complemento dei dati stratigrafici del terreno e con l’associazione di altri oggetti[16]

3°. Fra i materiali prevalentemente di epoca romana del sepolcreto di Trebula, si nota il corredo proveniente da una tomba preromana a cassa a lastroni di tufo composto di fittili a vernice nera monocroma di fabbrica campana e probabilmente della vicina Cales (II secolo av. Cr.) (fig. 6).

 

 

 

IL FORTILIZIO DI CASTELLONE

 

In una delle escursioni compiute la scorsa estate nell’agro trebulano, mi veniva segnalata dall’ispettore Fusco la presenza di una piccola cinta fortificata nella località Castellone, sulle alture che sovrastano i comuni di Bellona e di Camigliano, là dove la tradizione dotta locale colloca l’accampamento di Fabio durante la campagna di Annibale nell’autunno del 217, identificando la Masseria la Colla con il Mons Callicula famoso per il noto stratagemma che frutto al duce cartaginese la libera evasione dall’accerchiamento degli eserciti romani[17]. Non esitammo a visitare la località segnalataci per meglio identificarne la posizione ed il carattere (cfr. la cartina a fig. 1).

Lungo il crinale dei monti trebulani che ne forma l’estremo limite verso la pianura campana con le propaggini delle colline di Calvi e di Pignataro ed i colli di Pastorano e di Vitulazio, si apre nella interposta sella fra Castellone e M. Grande (m 367), un valico montano percorso da una mulattiera che sbocca verso la sottoposta conca del Rio S. Giovanni: l’altura di Castellone domina a nord-ovest la sella ed il valico, ed è contrassegnata dalla quota di m 310. È  pur nella sua breve altezza una posizione eminentemente strategica dominando a sud l’agro Stellate, lo sbocco dei tratturi di Camigliano e di Pastorano, il basso contrafforte delle colline della Masseria di Monticelli, mentre a nord scopre l’acropoli di Trebula e ad est la piana di Caiazzo. L’acrocoro stretto ed allungato com’è tutto il crinale dei monti Trebulani e Tifatini che fronteggia la pianura, è occupato da un fortilizio che ne segue la linea marginale orientandosi secondo l’asse maggiore da nord-ovest a sud-est: misura lungo l’asse longitudinale che corrisponde in cresta alla linea di confine tra i comuni di Pontelatone e di Camigliano, circa 140 metri, lungo l’asse trasversale non più di 25-30 metri; l’intero perimetro può calcolarsi a circa m 400 (fig. 7).

Le mura conservate per l’intero circuito si elevano da m 1,00 a m 1,50 circa, e seguono con angoli rientranti e qualche saliente la linea naturale dell’acrocoro; lungo il lato meridionale è chiaramente riconoscibile una porta. All’infuori dell’angolo sud-est e degli stipiti della porta dove, per la necessità stessa delle strutture murarie, trovansi adoperati blocchi ad assise orizzontali, tutto il resto è in opera poligonale a blocchi grandi, medi e piccoli, di proporzioni minori del muro dell’arce trebulana, ma di tecnica sostanzialmente identica. La muraglia che, lungo i lati di ovest, di sud e di est, misura in media lo spessore di m 2, culmina nel lato di nord-ovest rivolto verso le quote più alte del crinale, con opere più massicce di difesa non ben riconoscibili per il terreno e le rovine che le nascondono, ma che, per il maggiore imponente spessore della cortina poligonale di 3-4 metri, sembrano accennare alla presenza di un possente bastione che doveva costituire la ridotta di tutto il piccolo fortilizio: fra le rovine e la fitta boscaglia si intravvede una cisterna della quale solo con l’opera di sterro può determinarsi l’epoca di costruzione. La quantità dei blocchi cadenti tutt’intorno, e che si osservano rotolati a valle lungo il pendio, attesta che questo fortilizio non tanto deve la sua distruzione a naturale decadimento delle strutture, quanto piuttosto a violenta opera bellica che possiamo pensare avvenuta o durante le guerre sannitiche o nel corso degli avvenimenti della seconda guerra punica[18], quando la sola presenza di una così formidabile vedetta aperta sulla fortezza di Casilinum, sul campo Stellate e sull’agro Falerno, in mano di popolazioni nemiche o sospette, costituiva di per sé sola una grave minaccia per gli eserciti romani e per la conquista romana della Campania.

Da quanto ci è stato possibile rilevare da una semplice ricognizione di questo singolarissimo fortilizio di opera poligonale possiamo dedurre che esso, di non molto posteriore alla costruzione della fortificazione trebulana, doveva organicamente e logicamente completare la difesa strategica della conca di Trebula, sbarrando uno dei valichi più facilmente accessibili dalla pianura e venendo a sorvegliare e a dominare, come una temibile vedetta, ogni movimento che dalle popolazioni osche della zona del basso Volturno fosse rivolto verso il territorio dei Sanniti. E poiché tale necessità strategica dové per i Sanniti della regione trebulana ed alifana presentarsi di urgente necessità poco prima della loro vittoriosa conquista e dell’espugnazione di Capua, possiamo ritenere che la costruzione del fortilizio di Castellone risalga alla metà circa del V secolo av. Cr.

Così con la ricognizione della fortificazione di Trebula e del fortilizio di Castellone, veniamo non solo a stabilire quelli che erano nell’età preromana i precisi confini del Sannio verso la Campania, ma riusciamo altresì ad intendere quella che fu la preparazione difensiva ed aggressiva dell’avvenimento decisivo della civiltà della Campania, della sua prima cioè salda unificazione politica sotto le popolazioni italiche del Sannio.

 

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[1] Cfr. KROMAYER-VEITH, Antike Schlachtfelder, I, 1912, p. 218 sg. e carta n. 7.

[2] Una veduta della rocca di CAIATIA v. in PAIS E., Storia di Roma durante le guerre Puniche, I, tav. CIII.

[3] Breve cenno nel NISSEN, Ital. Landeskunde, p. 800 sg.: una descrizione sommaria del sito della città e del materiale epigrafico in FARAONE, Scavi di Treglia in Boll. dell’Istit., 1878, pp. 51-3: cfr. il MOMMSEN in C.I.L., X, p. 442.

[4] Oltre all’ispettore cav. Michele Fusco, debbo esprimere la mia viva riconoscenza al dott. Parillo, al maggiore medico cav. Bartoli, al podestà di Formicola Bartolomeo Fusco.

[5] C.I.L., X, p. 442: rudera extant in loco Tregliae quae nunc est proximo qui dicitur Ortole satis conspicua, ut ipsa moenia dignoscantur: cfr. FARAONE, loc. cit., p. 51.

[6] Caduta Trebula in dominio di Annibale nel 215, sarebbe stata di nuovo sottomessa da Fabio (Livio, XXIII, 39): cfr. PAIS, op. cit., I, p. 264.

[7] Per le fortificazioni del M. Cila v. Not. d. Scav., 1928, p. 450 sgg.; per quelle di Faicchio e M. Acero v. Not. d. Scav., 1929, p. 207 sgg.; per gli avanzi della Sepino sannitica v. Not. d. Scav., 1926, p. 250, fig. 4.

[8] V. Not. d. Scav.,1928, p. 452; cfr. Not. d. Scavi, 1929, p. 211.

[9] Cfr. Not. d. Scav., 1928, p. 453 e Not. d. Scav., 1929, p. 211.

[10] Per la datazione delle fortificazioni poligonali del Matese cfr. Not. d. Scav., 1928, p. 454 e Not. d. Scav., 1929, pp. 209 e 211.

[11] MARIANI, Aufidena in Mon. Ant. Linc., X, 1901.

[12] Il tempio ed il teatro di Pietrabbondante non risalgono oltre il III secolo av. Cr.

[13] Sulla necropoli di Conca d’oro presso Alife, v. VON DUHN, Ital. Gräberk. p. 610 sgg.; nuovi materiali sono raccolti dal DELLA CORTE in Not. d. Scav., 1928, p. 229 sgg.

[14] Fanno eccezione alcune armille di bronzo preromane provenienti da Trebula ed acquistate nel commercio antiquario di Napoli: cfr. MAIURI, Armille di bronzo preromane dell’Italia meridionale in Bull. Palet. It., 1926 sg.

[15] Sugli esemplari raccolti nel Museo Alifano di Piedimonte v. Not. d. Scav., 1928, p. 457 sg., fig. 6: per il bellissimo esemplare telesino v. la letteratura da me citata in Pugnale siliceo eneolitico da Riccia in Bull.Paletn. It., 1926, pp. 4-5.

[16] Diverso impasto ma forme analoghe presentano i fittili preistorici del M. Cila da me illustrati in Not. d. Scav., 1928, p. 454 sgg,. Figg. 3-5.

[17] La vasta letteratura sullo stratagemma del Mons Callicula e l’evasione di Annibale dall’accerchiamento di Fabio è discussa e criticamente analizzata dal KROMAYER-VEITH, Antike Schlachtfelder, I, p. 214 sgg. (cfr. carta n. 7). Non ostante le riserve del PAIS, Storia di Roma durante le guerre puniche, I, p. 340 sg., nota 96, le ragioni addotte dal Kromayer per escludere che l’evasone avvenisse a traverso la stretta gola di Triflisco e per identificare invece Mons Callicula con l’altura di Pietravairano e il passaggio dell’esercito cartaginese per il valico di Borgo S. Antonio Abate, mi sembrano, dopo una ricognizione dei luoghi, convincenti.

[18] L’occupazione da parte di Annibale nelle campagne del 216-5 delle alture del Tifata e l’espugnazione di Trebula, portò necessariamente con sé l’occupazione del fortilizio di Castellone da parte del generale cartaginese che poteva solo con il Tifata e Castellone assicurarsi quella via di ritirata verso il cuore del Sannio e la Puglia che ebbe così minacciosamente preclusa nella prima campagna del 217. Possiamo perciò legittimamente ritenere, che la parziale distruzione del fortilizio di Castellone sia stata opera dello stesso Annibale al momento del definitivo abbandono della Campania (215-4) e del suo ritiro ad Arpi.