Piedimonte Matese Archivio
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Piedimonte d’Alife nel 1754
Ricordi e Notizie[1]
All’amico Dott. Gugliemo
Della Villa
Sindaco di Piedimonte d’Alife,
caro quanto gentile.
Dalle coste del verde colle, sul quale sorgono,
ombreggiate dagli ampi oliveti, le pittoresche mura dell’antico castello, che
nel 1229 resistette all’impeto dell’esercito papale[2],
– sull’erte pendici, tagliate da strade, da viottoli
e da abitazioni, che furono il quarterio sancti Iohannis, feudo di un
milite nei tempi normanni[3]
e giù, fin nella pianura, irrigata dal serpeggiante Torano,
si aggruppano e si distendono i molteplici e svariati edifici di Piedimonte
d’Alife, la terra più popolata, più florida, più animata, della valle alifana
del Volturno.
Vista dalla strada dei pioppi e dal lato
della ferrovia, si può dire essere Piedimonte una città fiorente e cospicua per
numero di caseggiati e di
abitanti, una città ricca di movimento, di gaiezza, di modernità. Ma,
nell’interno, alle falde del colle, lungo le anguste stridette, sulle ripide
coste, a Piazzetta, a S. Giovanni, a S. Lucia, alle Coppetelle, alla Crocevia, rivive
Piedimonte del medioevo, coi suoi vecchi fabbricati
che, attraverso i secoli, han subite le capricciose esigenze dei gusti e delle
mode, – oppur che, rimasti in abbandono, sono, qua e là, diruti o cadenti. È
qui la primitiva chiesuola di S. Giovanni a capo la Terra, originaria pieve
della gente del borgo e del contado, armonica nella sua costruzione, nella facciata
e nel campanile; – qui, a Piazzetta, il palazzo di Giovanni de Forma,
denominato de Pedemonte in tutte le scritture che lo riguardano,
Presidente della R. Camera della Sommaria e Luogotenente del Protonotario del
regno ai tempi di Giovanna II e di Alfonso I, con le finestre ad arco
semicircolare e ad arco acuto e le loro svelte colonnette, che l’arma
gentilizia de Forma armonicamente abbellisce; – qui il palazzo della Casa
Gaetani d’Aragona, feudataria del luogo, di aspetto e di forme grandiose; – e qui tanti altri
edifici e tante altre memorie, che sarebbe troppo lungo enumerare.
Una carta di tutti questi luoghi di Piedimonte
sarebbe una storia della vita locale per tutto quel lungo periodo, che dalla
più fitta oscurità del medioevo, attraverso un’orgogliosa civiltà, giunge ad una decadenza, in cui sono tutti i germi di una vita
nuova. Perché, addentrandosi nei remoti sentieri di questa pittoresca parte di
Piedimonte, sulla cima del colle, quelle ruine,
quella torre, quelle mura, spiegano le lotte e le
paci, le inimicizie e le alleanze, nonché la varia esistenza ed il costituirsi
della popolazione, aggrappata al castello ed alla pieve, a difesa o ad aiuto.
Perché quivi fu il riprodursi dei vassalli, il formarsi lento ed osteggiato della cittadinanza; quivi il primo ascendere
altero della prepotenza ed il successivo discendere a men selvaggi costumi ed a
prepotenze minori, sino a che, mentre il monte muore nella pianura, il castello
si confonde nella casa borghese.
Ma lasciamo i paurosi drammi, eccezionali anche nei
secoli del ferro e del sangue, di cui ha inorridito la storia, che li
circondava dell’immortalità ed a cui le arti cercarono
ispirazione. Guardiamo ad un’epoca a noi più vicina e
che segna il periodo di transizione dai secoli della feudalità, già, allora,
oramai, divenuta borghese, alla vita di progresso civile, che una nuova era
determinava. Osserviamo Piedimonte come fu in pieno secolo XVIII, quando già
era venuto a mancare il fondamento giuridico, su cui, nel medioevo, posavano la
divisione del lavoro, del consumo, del commercio, della proprietà e della
pubblica amministrazione, quando, per vero, perduta la feudalità
la massima parte della sua importanza, Piedimonte sviluppava nella vita
economica e nel suo affrancamento. Epperò, se lo
studio di questi fatti richiede maggior pazienza e minore immaginazione della
fabbrica di quelle tetre leggende, ed offre quindi
minor seduzione d’altra parte il ricco materiale che si raccoglie, – specie se
il modesto esempio invoglia altri a consimile lavoro, almeno per i paesi di una
regione – servirà allo storico ed all’economista per dedurre opportune
conseguenze.
Viviamo, adunque, della vita di Piedimonte durante
l’anno 1754, allorché nuovi ordinamenti formati dal
governo di Carlo III di Borbone erano emanati, facilitando quelle riforme
civili e politiche, che nei primi anni del secolo seguente rifulsero nella loro
giustizia. Gli allibramenti in un catasto – cosiddetto Onciario –
formato, anche in Piedimonte, in esecuzione delle prammatiche di Carlo III del
1741 e del 1742, son pertanto la fonte delle indagini, dalle quali risultano le condizioni della città e degli abitanti, nel reciproco
sviluppo della loro economia, delle loro industrie e dei loro beni, ed in
rapporto alla costituzione, all’intensità ed allo sviluppo delle forze
rispettive.
Innanzi tutto, il feudo e l’università,i due enti
giuridici per lunghi secoli osteggianti tra loro, cioè una signoria antica e
continua nella stessa casata, che non pure non erasi convertita in dominio
assoluto, al che sarebbe stato di ostacolo, se non altro, l’esistenza della
monarchia; – dall’altra, un’autonomia
locale, garantita dallo Stato, forte e gelosa custode dei propri diritti, della
secolare sua indipendenza.
L’eccellentissimo sig. Duca di Laurenzana D.
Giuseppe Antonio Gaetani di Aragona,[4] di
anni 31 – come dice l’Onciario – era nel 1754 il signore del feudo di
Piedimonte, già da circa quattro secoli nella sua Casa. Nella
sua persona l’esercizio delle giurisdizioni, il mero e misto imperio, col banco
della giustizia, sui vassalli del feudo; in lui il godimento di jus e prerogative nel vasto dominio feudale. Così il
dritto del passo, che riscuoteva dai viandanti all’ingresso della città,
a Porta Vallata; quello della esclusività della vendita
delle pelli piccole; l’altro della mola per arrotare li ferri ai legnaiuoli; il jus di
farsi la Defensa nei luoghi demaniali per comodo dei suoi animali. Così i
dritti proibitivi del fitto della pesca delle tinche del lago nel monte
Matese; l’esazione dei pollastri, da coloro che
volessero irrigare i propri fondi in tenimento del feudo; il fitto della
lava dell’acqua piovana, che scorre per le strade della Vallata, quartiere
della città di Piedimonte; il bollo per riconoscere i lavori del
Lanificio, esercitato dai Consoli dell’arte. E nello stesso tempo la privativa
per l’esercizio di due molini, l’uno nel luogo detto Capo dell’Acqua seu Valletorano, accosto al Torano e via pubblica, l’altro detto dietro il
Carmine; per l’esercizio di tre Tappeti al Ponte dell’Ossa e dietro
S. Rocco, con l’esazione della decima dai cittadini, per il Purgolo nel luogo detto al Mercato, dappresso
al Torano, per levar l’olio dai panni di lana, esigendo carlini 31 per ogni panno
di canne 24; per la Tinta grande, dietro il Mercato, fittata per annui ducati
1350; per la Taverna al Mercato, fittata per annui ducati 969; per la misuratura
per ogni tomolo di grano tornesi tre, e tornesi due per ogni tomolo di altre
vettovaglie, dai cittadini e dai forestieri nei lunedì, giorno del mercato;
per lo pezzuco per ogni animale, che si
recasse al mercato; per l’esercizio della carderia della lana; per la cartiera
esistente tra la via pubblica ed il Torano; per nove valchiere, a S.
Rocco, all’Isola, al Ponte dell’Ossa, alle Tiratore coverte, alla Taverna, al Mercato e dietro
il Carmine; per la conceria delle pelli; per la ramiera
al Ponte del Carmine; per la forgia al Mercato, presso il locale
delle carceri.
Ed il fasto del feudo si
estrinsecava nella vita privata del Duca e della sua famiglia, nella numerosa
servitù, nei vasti possedimenti. Imperocché questo
duca di Laurenzana dalle sue nozze con Donna Laura de Mari, dei marchesi di
Acquaviva, aveva procreato, nel 1754, D. Nicola, figliuolo
primogenito, allora decenne, qualificato conte di Alife, Donna Rosalba, D.
Onorato, D. Gabriele e D. Francesco Maria. Costoro, insieme a D. Pasquale
Gaetani, di anni 24, investito del beneficio di S.
Lorenzo, in S. Maria di Capua, e fratello del duca, abitavano “in un palazzo di
più e diversi appartamenti, e stanze, officine e cantine, teatro, stalle,
giardini di delizie con agrumi e fiori, e con fontane d’acqua corrente, et
altri comodi, sito ove dicesi Palazzo, fini li
beni delli RR. Canonici di S. M. Maggiore, dei RR.
PP. Domenicani, di Marcellino Manzo, il Rivo, via pubblica ed
altri fini”. Ed avevano una numerosa corte,
composta dal segretario Francesco Fatti, dal guardarobiere Saverio di Iorio,
dalle cameriere Giovanna Narni e Giuditta, sua figlia, Francesco Meola e Maria
Domenica Capocollo, dai camerieri Giovanni Coppola e Pasquale Luciano, dal
paggio Marcellino Ivone, dal lacchè Marcellino Paterno, da cinque serve,
un portiere, tre lavandaie, un ripostiere con
tre aiutanti, un cocchiere, un servitore ed un volante. Tenevano per proprio
uso e comodo dodici cavalli di carrozza e sella, e tre muli.
Possedeva la Casa Ducale, in Piedimonte, – oltre il
demanio feudale delle montagne del Matese, – molteplici beni burgensatici, cioè
la Villa con l’attiguo podere con laghetto d’acqua corrente, che forma
un’abbondantissima sorgente di acqua, l’orto della Palombara con
casamento di più stanze, la masseria con casino di delizie et altro
casamento separato con Cappella, ove dicevasi la Masseria delli Pioppitelli
seu delli Cipressi,
l’oliveto del Palmento, la cesa di Iaquinto e Guadagno a Capo la Terra ed altri beni.
Aveva 120 animali vaccini, 40 bufale, 40 giumente,
2795 pecore, 470 capre e 18 bovi.
La ricchezza della Casa – rapportando la proprietà
in Piedimonte a quelle site in Gioia, in Dragoni, in
Alvignano, in Capriati ed in altri feudi della famiglia – è assai rilevante e
notevole. Congiunta agli uffici, ai parentadi, la Casa, in quell’epoca, può
dirsi perciò semplicemente potente.
Ma di contro a questa potenza,
in continua lotta per la propria egemonia, era l’Università, con le sue
leggi, il suo governo, i propri ufficiali.
Reggevasi l’Università secondo i Capitoli
e Statuti Municipali da essa formati con assenso del suo barone Onorato
Gaetani d’Aragona, conte di Fondi, nel 1481,[5]
e secondo le posteriori riforme e talune altre antiche
consuetudini. A capo della civica amministrazione stavano due Giudici e
Sindaci, coadiuvati da ventiquattro cittadini, detti Magnifici del
Reggimento, prescelti metà fra gli abitanti del
quartiere Piedimonte e metà fra quelli del quartiere Vallata. Veramente questi
ultimi, fino al 1753, erano in numero di sei, perché gli altri sei reggimentali
erano cittadini del quartiere Castello; ma separatosi Castello da Piedimonte quoad amministrationem,
proprio nel 1753, il numero dei suoi reggimentali andò a crescere quello del
quartiere Vallata.
I Giudici e Sindaci avevano anche le funzioni di Maestri
Portolani e perciò incaricati di vigilare a che non si facessero dissodazioni e cesine,
con incendi e tagli nelle montagne demaniali.
Sino al 31 agosto 1754 ressero l’Università, come
Giudici e Sindaci, D. Michelangelo Ragucci ed il mag. Marco Cavicchia. Nel seguente giorno, data
consuetudinaria, l’Università, riunita in consiglio nel convento di S. Tommaso
d’Aquino, luogo solito delle riunione dei pubblici
parlamenti, procedette alla nomina dei successori. I due Giudici e Sindaci
duravano in carica un sol anno, cioè dal 1 settembre al 31 agosto dell’anno
successivo. E l’elezione aveva luogo a maggioranza di voti dei reggimentali, su
proposta dei nuovi nomi, che era fatta dai Giudici e Sindaci uscenti.
L’elezione del 1754 ebbe una nota particolare. I
nominati Giudici e Sindaci D. Michelangelo Ragucci e D. Marco Cavicchia, che
cessavano dalla carica, nel parlamento del 1 settembre
1754, riunito, come si è detto, nel convento di S. Tommaso d’Aquino ed in
presenza del Governatore della Corte di Piedimonte e casali dott. Nicola de Honestis, proposero a loro successori nell’ufficio D.
Francesco Rossi per il quartiere di Piedimonte e D. Giuseppe Andrea Greco per
quello di Vallata. La maggioranza si raccolse sul primo nome; il Greco invece
ebbe una parità di voti. Per derimere questa parità
si ricorse al sig. Duca Padrone, il quale, come primo cittadino e
barone, aveva il diritto di dar voto nella elezione e
confermare i Giudici eletti. Il Ragucci andò ad
interpellare il Duca, il quale dette il suo voto al Greco, che così ottenne la
carica. Nello stesso parlamento, a proposta dei Giudici e Sindaci uscenti, si
procedette, come era sistema, alla nomina dei nuovi
reggimentali dei due quartieri.
Anche nei parlamenti e dai reggimentali era fatta la
nomina dei Governatori e dei Razionali delle cappelle laicali della città. A 7 giugno 1754 il mag. Giuseppe Martini fu
nominato Governatore della Cappella dell’Annunziata di Vallata, e nel 12 luglio
successivo furono nominati: Governatori della Chiesa e Confraternita di S. M.
di Costantinopoli dello Scorpeto i mag. Francesco Rossi e Sebastiano Gambella; economi della
Cappella del SS. Di Piedimonte il mag. Pasquale della
Torre; dei quella di Vallata D. Marzio Trutta e
Pasquale Costantini e dell’altra di Sepicciano il suddetto Gambella, il
cancelliere dell’Università era il not. Carlo
Ciccarelli, sostituito tre anni dopo per irregolarità commesse.
Il Governatore della Corte baronale, che pure
annualmente esercitava il suo ufficio, doveva essere sottoposto a sindacato
dell’Università. Nel 22 novembre 1754, riunito il parlamento in
presenza del mag. Dott. Vincenzo d’Agnese,
mastro della fiera di S. Martino, sulla richiesta del governatore de Honestis, si procedette alla nomina dei sindacatori, due
per Piedimonte e due per Vallata. Nel detto giorno furono anche nominati i
Razionali per la revisione dei conti dei passati
Sindaci e dei gabellotti ed altri arredatori dell’Università per l’anno
1753-54.
Per dieci volte si riunì il pubblico parlamento nel
1754 e quasi sempre per procedere ad elezioni a cariche
ed uffici. Notevole il parlamento del 26 aprile, che ricorda le questioni fra
Piedimonte e Gioia “sulla pretenzione di quella di
voler fidare gli animali dei cittadini di questa Città e suoi casali, che vanno
a pascolare nel Feudo di Carattano, che per lo Gius di pascolare, e pernottare, e legnare corrisponde
questa Università all’Abbate beneficiario di detto feudo di Carattano annui
ducati sei”, per cui fecero procura al dott. Tiburzio de Parillis,
di Piedimonte, residente in Napoli “che difese la stessa causa anni addietro”. Rilevante l’altro del 18 agosto, in cui fu deliberato che sugli
introiti delle gabelle dell’Università “si paghi all’Ecc.mo Duca Padrone l’adiutorio per le doti di
D. Marianna Gaetani sua sorella, giusta la costituzione Quam
plurimum di Guglielmo I il malo”, ossia una
sovvenzione pel matrimonio della sorella del feudatario, superstite dritto
costituito nei tempi più antichi e più gravosi delle soggezioni feudali.
Perduravano nel 1754 i giudizi per una serie di gravami,
relativi ad abusi ed occupazioni addebitati al
barone, da parecchi anni prima dedotti dall’Università nei tribunali del S. R.
Consiglio e della R. Camera della Sommaria, e che furono soltanto decisi dalla
Commissione Feudale con le sentenze 15 maggio e 31 agosto 1810.
Completa le figure del feudo e dell’università,
lo stato della popolazione, nella sua entità, nelle sue diverse gradazioni
sociali e nel movimento della sua ricchezza. All’uopo ricordo che nel 1754,
giusta l’onciario, Piedimonte era abitato da 4632
individui, componenti 876 famiglie, così divise:
Ø Famiglie cittadine n. 856,
persone n. 4390;
Ø id. di napoletani privilegiati
n. 9, persone n. 56;
Ø id. forestieri abitanti n. 11,
persone n. 64;
Ø Monaci e monache n. 122.
Erano fuochi assenti altre tre famiglie, con 17 persone, che non fanno parte della suddetta somma..
Questa popolazione era composta da
n. 2106 maschi e n. 2526 femmine. Erano di età inferiore ai 15
anni, n. 1310 individui dei due sessi; avevano superato il 75° anno di età n.
64 persone. La più vecchia della città era Caterina d’Amore di anni 97, madre di Tommaso Meola, falegname al Mercato, ed abitante
in casa propria nella località Gradelle.
Seguivano i novantenni Porzia Fatti e mag.
Giuseppe de Stefano.
Delle riferite 876 famiglie, abitavano in casa
propria, n. 628, ed in casa di affitto n. 248,
avendosi così che circa i ¾ della popolazione era proprietaria della propria
dimora. Invece, delle stesse 876 famiglie, soltanto
332 possedevano terreni, contro le restanti 544, che possedevano la sola casa o
non possedevano nulla, ossia che i ⅔ della popolazione non era
proprietaria terriera.
Per il governo dell’Università esisteva una certa
separazione di ceti, e perciò si trovano quali Nobili viventi i mag.
Antonio e Domenico Confreda, Giuseppe Paterno,
Giacomo Mazza, Giuseppe e Sebastiano Gambella, Gio. Angelo Pagano, Marcellino e Giuseppe de Clavellis,
Michelangelo Ragucci, Luigi Pertugio, Pasquale Potenza, Marzio Trutta, Domenico de Stefano, Vincenzo Pitò, Cosmo di Giorgio e Pasquale de Antonellis.
Cinquantuno famiglie vivevano con le rendite dei
propri beni ed erano, come dicevasi, franche di
testa, ossia immuni dal pagamento delle once. E sia tra queste
famiglie, come fra quelle che vivevano nobilmente, parecchi individui si
trovavano nell’esercizio di professioni liberali e di decorosi uffici, anche in
Napoli. Troviamo infatti dottorati in legge, Giulio,
Giuseppe e Pasquale Paterno, Giuseppe Gambella ed i fratelli Marzio e canonico Gio. Francesco Trutta,
l’autore delle Antichità Alifane; e poi Domenico Noratelli,
Filippo de Benedictis e suo figlio Luigi, Marcellino
e Carlo Ciccarelli, Francesco d’Amore, Tiburzio de Parrillis
e suo figlio Ignazio, e Vincenzo e Francesco d’Agnese.
Esercitavano la medicina i dottori
fisici Marcellino de Marco, Giuseppe Vertollo,
Francesco Pollastrini, Germano De Lisi, Francesco
Greco, Antonio Barra e Giuseppe Iannitelli. Chirurgo,
Stefano Buontempo. E nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, il professore di
chirurgia Francesco Coppola, di anni 25, figlio di
Luigi, barbiere.
Erano notai, i mag. Antonio Pernotti,
Francesco d’Orsi, Giuseppe e Carlo Scasserra,
Domenico Paterno, e Giuseppe Cavicchia; giudici a contratti, Crescenzo
de Iacobellis e Lucantonio Girardi;
speziali di medicina, Alberto di Marco, Cosmo Gismondi, Bernardo Panno e
Pasquale Villano.
Tre fratelli della famiglia Trutta
esercitavano uffici in Napoli, cioè il dott. Giacomo Trutta,
qual Segretario della Città di Napoli, Girolamo, Maestro di Cerimonie, ed il dott. Gio. Antonio, Agente
della Soprintendenza del duca d’Andria. Il nob. Luigi Pertugio era
Usciere di Camera della Regina; il mag. Giuseppe de
Giorgio, Ufficiale della compagnia degli Invalidi; D. Pasquale del Giudice,
Capocaccia del Re.
Nel ceto ecclesiastico, oltre ventinove sacerdoti e
canonici, si trova il Can. Decano D. Nicola Occhibove, vicario generale della diocesi di Alife, il Can. Ignazio de Benedictis,
Primicerio della Cattedrale, e quattordici clerici, ed
inoltre due monaci cisterciensi ed un monato di S.
Pietro d’Alcantara, figlioli di Don Pasquale Potenza.
E tenevano uffici in Piedimonte, Marcellino Barbato,
esattore delle gabelle dell’università; Abramo Castaldo, esattore della molitura
della farina; il mag. Nicola Iasimone, Credenziero del Purgolo della
casa Laurenzana; Sisto Vetere, Credenziero delle Valchiere del Duca; il mag.
Francesco Fatto, Segretario dello stesso Duca; Ambrogio Buontempo, giurato
dell’Università.
Vi erano inoltre ventidue studenti alle lettere,
e tre donzelle educande in Monastero. Nonché 5
soldati, un paggio in Napoli, un sagrestano, 8 fondachieri,
44 servi e 4 nutrici.
Le famiglie abitanti avevano i seguenti cognomi:
Dell’Abbondanza, d’Agnese, Albanese, Altieri, Amato,
d’Ambrosa, d’Amico, Amodio, d’Amore, Amoroso,
d’Andrea, de Angelillis, de Angelis, dell’Anno, Antidoto, Antonellis, Aperto, d’Aprile, d’Ariesto,
Aucella, Auriemma, Azzillo;
di Baia, Barbato, Barra,
Battiloro, de Benedictis, Benevenia,
Bianchino, Bianco, de Biase, Bisceglie, Boggia,
Brando, Bravo, Broccolo, Bruno, Bucci, Buontempo, Burgo;
Chiazza, Campagna,
Campanile, Campochiaro, Cancello, Candelarese,
Capriata, di Caprio, Carancio, Carbone, Cardillo, di
Carluccio, Caropreso, Carpentino,
Carrello Carullo, Caso, Cassella, Castelli, Cavicchia, Berillo, di Cesa, Chiarizia, Cianci, Ciarlo, Cibalerio,
Ciccarelli, Cimaglia, Cimminelli, Ciollo, Cipullo,
Cittadino, Civitella, Civitillo, Codone, Colalillo,
Coletta, Colombiano, Colucci, Conca, Confreda,
Consola, Contenta, Coppola, Corona, Costantino, Crispino, Cristallino, di
Crosta, Curtopasso;
di Dio, di Domizio, Donia;
Fantauccio,
Farelli, Farina, Fasulo, Fatone, Fatti, Federico, de
Felice, Feola, Ferraioli, di Ferrante, Ferraro, Terrazza, Ferretto, Fidanza, di Filio,
de Filippis, Fioravanti, Fisco, Fontana, Fontanella,
di Fonzo, Fossa, di Francesco, di Franco, Francomacaro,
Frascarelli, di Fundo, di Fusco;
Gabriele, Gagliardo,
Galante, Gambella, Garofano, Gaudello, Gaudino, Gaudio, Gautiero,
Giammarco, Gianfrancesco, Giordano, di Giorgio, Girardi, Gismondi, Giugno, Giunti;
de Iacobellis,
Iafusco, Iameo, Iannella, Iannitelli, Iannitto, Iannotta, Iannuccio, Iaquinto, Iasalvatore, Iasimone,
dell’Imperatore, di Iorio, Izzo;
Lamberti, Larduccio,
Leone, Leggiero, di Lello, di Leo, Liardo, de Lisi, Lobrico, Loffreda, Lombardo, di Lorenzo, Losco, de Luca,
Luciano, di Luise, di Lullo, Luzzi;
Macaro, Macolino, Madonna,
de Magistris, Maioccolo, Mancino, Manzo, Mannone, Marano, Marchetti, di Marco, Mariano, Martello,
Martino, Martone, Mastrangelo, Mastrolorenzo, Mastronardo, di Matteo, Mazza, Mazzucco;
Natalizio, Navarro, Nelli, Nigro,
Noratelli, di Notaro;
Occhibove, d’Onofrio, d’Orlando,
d’Orsi;
Pacella, Pagano, Palmieri,
Palombo, Panarello, Panella, Pannone, di Paolo, Paparo,
de Parrillis, Pascale,
Pasquale, Paterno, Pece, Penna, Pepe, Per azza, Perfetto, Perillo, Perrino,
Perrone, Pernotti, Pertugio, Petruccio, Piccarelli, Pierleone, Pietrangelillo, Pietrosimone,
Pimpinella, Pisa, Pitò, Pittarelli,
Pizzella, Pizzuto, Pollastrino,
Porcello, Potenza, Pragna, Panno, Pugliese;
Rabbino, Raguccio,
Raiano, Rapa, di Renzo, Reverazzo, Ricciardi, Riccio,
Riccitelli, Rinaldo, della Ripa, Risella, Ristoro,
del Roi, Romano, Rosato, Roscietti,
Rossi, Rozzo, Ruggiero, Russo;
Sacchetti, Salomino,
Salomone, Sansiviero, Santagata, Santangelo,
Santillo, Santino, de Santis, del Santo, Santomassimo, Sapio, di Scania, Scappaticcio, Scasserra,
Schiacchi, Sconcia, Sepe,
Semola, Serra, Signorelli, de Simone, Simonelli, Simonetta, Sponziano,
Sposato, di Stefano, Stellato;
Taglione, Tamburo, Tancredone, Tartaglia, Tardone, Tedesco, Tella, Tennerello, Teodoro, Testa, di Tommaso, della Torre,
Truccio, Trutta, della Tuzia;
d’Urso, Ussiello;
Valente, Valentino, Vastano,
del Vecchio, Venditto, Vertolla,
Vetere, della Villa, Villano, di Vinco, de Vito, de Vizio;
Zampino, Zarro, Zazzarino, Zicchinelli, Zucchi, del Zullo.
Fiorivano nel
All’agricoltura ed all’industria armentizia erano
addetti 4 fattori di campagna, 27 campieri, 19 bovari, 15 partori
e 5 caprai, mentre 358 bracciali coadiuvavano sia i lavori agricoli, che quelli
industriali.
Le arti e mestieri nella città erano esercitate
così: 52 calzolai, 2 doratori, un pittore, 4 fucilieri o scoppettieri,
27 sarti, 17 falegnami, 2 ciabattini, 12 barbieri, 5 ferrari,
2 forgiari, 2 artiglieri, 21 muratori, 5 maniscalchi.
E poi 14 salumai e pizzicaroli, 3 molinari, 26
ortolani, 10 carbonari, 4 panettieri, 2 maccheronai, 5 macellai, 7 conciatori
di pelle, 3 cantinieri, 3 verdumari, 2 bottegai, 2 fontanari, un cuoco, un venditore di vetri, 4 stallieri, 3
vetturini, 2 apparatori, 2 venditori di stoviglie, 3 dolcieri, 10 vaticali, 5 mulattieri, 15 legnaiuoli,
un fuochista, un venditore di tabacchi, 5 tiratori, e 3 cocchieri. Un individuo
si trovava in galera e tre vivevano di elemosine.
Assai notevoli, per antichità, ricchezza ed
importanza, erano in quel tempo le istituzioni di culto in Piedimonte. Due
Collegiate, cioè l’Insigne Collegiata Matrice e Parrocchiale Chiesa di S. Maria
Maggiore e l’Insigne Collegiata e Parrocchiale Chiesa della SS. Annunziata; la
Parrocchia di S. Marcello di Sepicciano; – le chiese di S. Giovanni Batt., di S. Rocco, di S. Filippo Neri, di Gesù e Maria
della Vallata, di S. Biagio, di S. Lucia; le altre chiese laicali di S. M. Occorrevole, di S. Maria di Costantinopoli e dell’Annunziata
con l’annesso Ospedale; – le cappelle di S. Marcellino, di S. Maria della
Libera e di S. Sebastiano nella chiesa dei Carmelitani, di S. Sebastiano
nell’Annunziata, del Rosario nella chiesa dei Domenicani, del Sacramento in S.
M. Maggiore, erede di Filippo di Mastrodomenico, del
Sacramento nella parrocchia di Sepicciano, del Nome di Dio in S. Domenico, e
del Sacramento nell’Annunziata; – il Monte delle Sorelle del Rosario in S.
Domenico; – le Congregazioni di S. M. Occorrevole,
della Morte, delle Sorelle di S. M. del Carmine nel chiostro inferiore del
convento dei Carmelitani, del Sacramento in S. M. Maggiore, del Rosario nel
chiostro inferiore del convento dei Domenicani, dei RR. Preti sotto il titolo
della B. Vergine dei Sette Dolori, del Sacramento dei fratelli nobili, nel
chiostro superiore del detto convento dei Domenicani, e quella di S. Maria
della Libera nell’Annunziata; – li RR. Preti extraparte,
legatari di D. Antonio Confreda seniore, – finalmente
i due monasteri benedettini di donne sotto i titoli di S. Benedetto in Vallata
e di S. Salvatore in Piedimonte, ed i monasteri di S. M. del Carmine, dei PP. Domenicani,
di S. M. d’ogni grazia dei PP. Celestini e dei Chierici Regolari Minori – tutti
dotati di vistosi beni, rendite e capitali – e quelli di S. Francesco
dell’Osservanza e di S. Pasquale degli Alcantarini, dimostrano come le
elargizioni alla Chiesa siano state rilevanti e fruttifere, da far prosperare
così numerosi Enti di culto. Nel monastero di S. Benedetto di Vallata, retto
dalla badessa D. Aurora Longo dei Mr. di Vinchiaturo, erano rinchiuse 19
monache, 2 novizie, 3 educande, con 7 serve. La monaca più vecchia era D. Lucia
Longo di anni 75, la più giovane D. Emmanuella Fantacone
di anni 18. Più importante, anche per la sua vetusta origine, l’altro monastero
di S. Salvatore, governato nel 1754 dalla badessa D. Maria Casta de Benedictis, con 22 monache professe, 3 educande e 9 serve,
ricco di beni e di crediti, tra i quali duc. 1550
contro Laurenzana e duc. 6830,40 contro l’università.
A capo del monastero dei Domenicani stava il Padre
Lettore Raimondo Guerra, con 9 monaci, 6 studenti, 5 novizi, 5 conversi, ed uno
speziale di medicina addetto alla pubblica farmacia del monastero, posta
nello stesso edificio. Maestri agli studii P. D. Giuseppe
Paterno e P. D. Anselmo Finiziano; baccelliere P. D.
Marcantonio Angelillo; lettore di Filosofia P. D. Giacinto Cilento. Fra i
novizi, Ottavio Chiarizia, più tardi stimato
scrittore di politica ecclesiastica. Favorito da cospicui legati di parecchi individui
nella casa Gaetani, di Camilla Revertera, Cecilia
Acquaviva, Cassandra e Diana di Capua, e ricco per territori, case e capitali,
questo monastero dei Domenicani era il più importante fra quelli di Piedimonte.
Priore del monastero di S. M. del Carmine,
dell’omonimo Ordine, era il P. F. Pietro Fiorillo, con 8 monaci, 4 laici ed un
garzone. I monaci erano quasi tutti di Piedimonte, cioè il P. Maestro F.
Giuseppe Laurenza, P. Giuseppe Paterno, P. Angelo Branno,
P. Clemente Onoratelli e P. Alberto Laurenza.
La Casa della Congregazione dei PP. Chierici
Regolari Minori – più tardi, nel 1777, soppressa con quella di Alife, – era
retta dal P. Preposito D. Francesco Marziale, con 6 monaci, 3 conversi e 2
garzoni; con territori e capitali, tra cui duc. 2111
sull’università di Piedimonte e parecchi legati di messe. Tra queste, le 75
messe disposte da D. Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzana, sulle rendite
del territorio detto la Masseria della Signora.
In ultimo, era Abate del monastero di S. M. di Ogni
Grazia dei PP. Celestini, D. Francesco M. Pisano, con 4 monaci e 3 laici. Anche
fornito di beni e capitali, fra cui quello di duc.
2250 sull’università di Piedimonte, teneva il peso di n. 2258 messe quotidiane
perpetue, per pie disposizioni.[6]
Circa gli altri surriferiti luoghi pii, è notevole
che la chiesa di S. Rocco, grancia della R. Chiesa di S. Maria Occorrevole, era obbligata, nel martedì dopo Pentecoste, a
recarsi processionalmente con i suoi cappellani e con la confraternita della
Morte nella suddetta R. Chiesa e presentare ai Governatori pro tempore una
candela del peso di una libbra in segno di tributo. Si trova che la stessa
chiesa corrispondeva ai PP. Scalzi di S. Francesco annui duc.
230 di elemosina, 8 staia di olio, 15 tomoli di grano e di formaggio.
Somministrava cere e torcette all’altare di S. M. Occorrevole
ed alle chiese di S. Sebastiano e di S. Giacomo; elargiva due maritagli di duc. 24 per legato di Giacomo Pironti,
distribuiti dal duca, un maritaggio di duc. 18, nella
chiesa, ed un altro simile di duc.
Si trova pure che le rendite dei capitali e dei beni
della cappella di S. Marcellino protettore, in S. M. Maggiore, erano spese
tutte per messe e servizi di culto; che la chiesa di S. M. di Costantinopoli
dava un maritaggio di duc. 15, nella festività della
titolare; che la cappella laicale dell’Annunziata, oltre l’Ospedale, in cui
ricoverava sei malati, pagando al medico l’onorario di carlini 36 ed al
chirurgo quello di carlini 15, e celebrandovi gratis le messe i PP.
Carmelitani, concedeva in ogni anno due maritagli di duc.
15 ognuno; che un altro maritaggio di duc. 10 era
dato nella festa del Rosario dall’omonima cappella nella chiesa dei Domenicani;
che la cappella del Sacramento in S. M. Maggiore, per disposizione di Filippo Mastrodomenico, elargiva altri due maritagli di duc. 12 all’anno.
Troppo poca spesa di pubblica beneficenza in verità,
da parte dei numerosi enti di culto che nel 1754 fiorivano in Piedimonte e che
assorbivano, puossi dire, gran parte della ricchezza
terriera e immobiliare della contrada.
Infatti il territorio di Piedimonte nel 1754 era
coltivato e posseduto dai cittadini, dai monasteri, chiese e cappelle e dalla
Casa Laurenzana, per la superficie complessiva di tomoli locali 4.313 e coppe
2, pari ad ettari 1.390,99,61. Questa superficie era divisa in tomoli 2.895 e
coppe 05 (ett. 933,77,18) in mano dei cittadini;
tomoli 1.304,03 (ett.420,62,05) presso i monasteri, le chiese e le cappelle; e
tomoli 113,06 (ett. 36,60,38) di proprietà
Laurenzana. In quest’ultima estensione, naturalmente, non sono calcolate le Montagne
del Matese, che allora formavano un corpo
feudale.
I terreni privati, ossia tomoli 2.895,05 (ett. 933,77,18) erano costituiti: da pastini o cese arbustate
e vitate con olivi, tomoli 1.921 (ett.
619,52,26); aratori, tomoli 311,06 (ett. 100,45,88); cese demaniali, tom. 261,01 (ett. 84,19,94); querceti, to,. 203 (ett.
65,46,75); orti e cannavine,
tom. 12, 06 (ett. 4,03,14);
vigneti, tom.
33,10 (ett. 10,91,08); ed oliveti, tom. 152, 06 (ett. 49, 18,13). Vi sono compresi tom.
10 (ett. 3,22,50) di cese arbustate e vitate; altri tom. 10 (ett. 3,22,50) di aratori; e tom.
1 (are 32,25) di oliveto, posseduti
da bonatenenti
forestieri, ed iscritti nell’onciario.
I suddetti Enti di culto erano proprietari di tom. 125,04 (ett. 40,41,98) di pastini e cese arbustate e vitate; tom.
781,11 (ett. 252,16,80) di terreni aratori; tom.
23 (ett. 7,41,45) di orti e cannavine;
tom. 21 (ett. 6,77,25) di oliveti; tom.
8,06 (ett. 2,74,13) di vigneti; tom. 221 (ett.
71,43,38) di aratorio boscoso; e tom. 123 (ett. 39,66,76) di querceti. Figurano come maggiori proprietari
di cese o pastini arbustati,
il monastero dei PP. Celestini, con tom. 32; quello
di S. Salvatore, con tom. 29,04; e l’altro del
Carmine, con tom. 22. Erano invece maggiori
possessori di terreni aratori, la
collegiata di S. M. Maggiore, con tom. 367 e quella del’Annuziata, con tom. 116; il
monastero di S. Salvatore, con tom. 85,03; di S. Domenico,
con tom. 78. La cappella laicale di S. M. Occorrevole possedeva tom. 216,06
di terreni aratori boscosi.
La casa Laurenzana possedeva, con la qualità
burgensatica, tom. 46 (ettari 14,83,50) di cese arbustate e
vitate; tom. 49,06 (ett.
15,96,38) di oliveti; tom. 8,06 (ett. 2,74,12) di
terreni aratori; e tom. 9,06(ett. 3,06,38) di
terreni boscosi con querce.
Da ciò risulta che il territorio di Piedimonte (tom. 4.313) era posseduto per 2/3 dai cittadini (tom. 2.895) e per 1/3 dagli Enti di culto e da Laurenzana (tom. 1.418); e che i detti Enti possedevano quasi la metà (tom. 1.304) di quanto alla loro volta erano proprietari i
cittadini (tom.2.895).
Siccome più innanzi si è visto che soltanto 332
famiglie nel 1754 possedevano terreni, così, facendo il conto del frazionamento
della proprietà terriera in mano alle suddette famiglie e sempre sugli
allibramenti dell’Onciario, riusulta che possedevano
fino a due tomoli di terreno (are 64,50), famiglie n. 84; da
Il dott. Filippo de Benedictis
di anni 84, era il maggior proprietario di terreni in Piedimonte con tomoli
127; seguivano il dott. Vincenzo d’Agnese con tom.
110, di cui tom. 64 del querceto Speziali; D. Sebastiano
Gambella, nobile vivente, con tom. 96; D. Antonio Confreda, anche nobile vivente, con tom.
93 e D. Nunzio Onoratelli, con tom.
91.
Fiorivano le industrie armentizie. Nel 1754 si
tenevano 9225 pecore,delle quali 2795 di
Laurenzana, 2000 di D. Gio. Antonio d’Amore, 1480
della chiesa di S. M. di Costantinopoli, 1200 di D. Vincenzo Candelarese e 989 della chiesa di S. M. Occorrevole.
Le capre erano 3220, delle quali 470 di Laurenzana, 400 del detto
d’Amore e 334 di S. M. di Costantinopoli. Bovi n. 289, dei quali 120 di
Laurenzana; vacche n. 420, delle quali 40 dello stesso d’Amore, 56 di S.
M. Occorrevole e 32 di S. M. di Costantinopoli; n. 40
bufale di Laurenzana; n. 150 cavalli e giumente, di cui 40
di Laurenzana; n. 130 asini, e n. 187 maiali. Tenevano cavalli da
sella e per esclusivo uso di carrozza, il dott. Filippo de Benedictis, il dott.
Francesco Pollastrino, D. Gio. Antonio
d’Amore, D. Giuseppe Andrea Greco, D. Marcellino d’Orsi, D. Marcandrea
Ciminelli, D. Pasquale del Giudice, il dott. Vincenzo d’Agnese, D. Marzio Trutta e D. Sebastiano Gambella. La casa ducale teneva 12
cavalli da sella e da tiro.
Altro elemento della ricchezza è fornito dal
movimento dei capitali. Nel 1754 i crediti dei cittadini di Piedimonte sommavano
a ducati 35203 ½ , pari a Lire 149614,88; quelli dei trentadue Enti di culto
ascendevano all’ingente cifra, in rapporto ai tempi, di duc.
104485, pari a L. 444061,25. Possedevano maggiori capitali il monastero di S.
Salvatore (duc. 19072), quello di S. Benedetto (duc. 15870), la chiesa di S. M. Occorrevole
(duc. 12073). Seguivano il convento del Carmine (duc. 8684) e la Collegiata di S. M. Maggiore (duc. 6023); i capitali degli altri Enti oscillavano fra i duc. 4888 (Monte delle Sorelle del Rosario), e i duc. 1088 (Cappella del Rosario); dodici Enti avevano
rispettivamente capitali inferiori a duc. 500.
E gli stessi cittadini nel industrie tenevano
impiegati duc. 26918 di capitali (L. 123401,50), così
distribuiti: industria della lana, duc. 10310;
fondaci, duc. 4382; pizzicherie, duc. 566; negozi di grano e vino, duc. 250; negozio suini,
duc. 200; macelleria, duc.
40; farmacie, duc. 360; industria delle pelli,
duc. 300; panetterie,duc.
140; negozi di ferri e polvere da sparo, duc.
50; spezierie manuali, duc. 20; negozio di verdure,
duc. 300.
Anni appresso, il solo D. Gioacchino Boiani teneva impiegato nell’industria della lana un
capitale di duc. 20 mila.
Come la popolazione di Piedimonte in tal guisa
prosperava, così pure la parte edilizia si vede notevolmente cresciuta sui
primi nuclei originari di S. Giovanni e dei borghi di S. Rocco, di S.
Sebastiano e di Vallata. Infatti le abitazione nel 1754, dalle falde del colle
e dappresso la vetusta pieve di S. Giovanni, e propriamente da Capo
la Terra, si distendevano a S. Nicola, a Piazza Cavallara, alla
Scalpella, a S. Lucia; giù per Sotto S. Cristoforo, a Piazzetta,
e poi al Palazzo, divergendo poscia per S. Marcellino e per
la Strettola o li Perroni,
alla Crocevia, presso il Cortile di Dragonetti; e girando,
per l’altra parte, per le Coppetelle e le Sprecatore,
alla Piazza ed a S. Domenico. E di qui, risalendo per la Crocevia,
per il Ponte dell’Ossa, a S. Rocco, alla Conceria, a Piazzetta
S. Rocco, al Toranello, alle Chianchetelle,
alle Case Tammarelle. E poi, da un lato,
per la Petrara, a S. Giacomo, alla Santella, allo Scorpeto, e dall’altro, per Sotto e Sopra
la Pietà, per l’Isola, a S. Sebastiano, e di qui di nuovo al Mancinello. Discendendo da S. Domenico, per
S. Antonio arrivavano al Mercato, ove dappresso stava la Taverna.
Dal Mercato l’abitato di Piedimonte
proseguiva per il Carmine, e per il Ponte del Carmine, a Porta
Vallata ed all’omonimo quartiere; saliva per Ficolandina
o la Dottrina Cristiana, ai Celestini, ed oltrepassata la Crocevia
del Vallone, da una parte proseguiva per l’Ospedale, per l’Annunziata,
al Seminario e Sotto il Seminario o Campo, e dall’altra
parte girava per il Trigio di Farfazio e Fontana ed arrivava al Vicinato.
Dall’Annunziata, inoltre, per Sotto il Campanile, per Cetrangolo,
raggiungeva il Pontone del Vicinato, raggruppandosi, a sinistra, a Paterno
ed al Trigio di Paterno, e continuando
per Sotto la Chiesa di S. Filippo e per S. Filippo, fino a Capo
Vallata, ove a ponente, terminava, come tuttora termina, il detto abitato
della città.
La borgata Sepicciano teneva talune proprie
località, ma il punto più notevole era Avanti la Parrocchia di S. Marcello.
Così trovasi costituito
Piedimonte nel 1754, e salvo più recenti costruzioni al Mercato ed un
successivo allacciamento di case, fra l’una e l’altra contrada, che risultano
divise, puossi dire che Piedimonte attuale poco
diversifichi da come era nella metà del secolo XVIII.
Le case palaziate e
le abitazioni delle famiglie cospicue, più numerose nelle contrade di antichi
raggruppamenti, non mancano nelle altre località.
A Capo la terra o S. Giovanni la casa
di Francesco del Santo, padre di Paolo, da più anni in servizio della duchessa
di Laurenzana. A Piazzetta le case ed i palazzi del mag.
Francesco dell’Imperadore, Giuseppe Simonetta,
Giuseppe Albanese, Nicola Bucci, Giuseppe di Giorgio, Domenico di Domizio e
Luigi Pertugio. A S. Cristoforo quelli del mag.
Francesco de Angelis, del sig. Giuseppe Clavellis,
dei baroni di Alvignano e privilegiato per antica concessione aragonese. Ed
alla Porta del Rivo quello del mag. Francesco
Perrotti. A Piazza Cavallara la casa, con giardino di delizie, del dott.
Antonio Barra. Alla Crocevia i palazzi del mag.
Antonio Perrino, del medico Francesco Greco, del dott. Filippo de Benedictis, del medico Giacomo Iannitelli,
del dott. Marcellino Ciccarelli, del mag. Pasquale
della Torre, del dott. Pasquale de Antonellis, nobile
vivente, della mag. Cassandra Buontempo, vedova di
Ercole Pagano. Quivi il palazzo, in confine della chiesa di S. Biagio, dato in
enfiteusi dai PP. Domenicani al mag. Dott. Marcellino
de Marco e fratelli e poscia passato a D. Gioacchino Boiano.
A S. Marcellino i palazzi dei nob. Antonio e Domenico Confreda;
a S. Nicola, vicino S. Cristofaro, quello del nob.
Cosmo de Giorgio. A S. Domenico o Piazza S. Domenico l’altro del
dott. Vincenzo d’Agnese, che vi abitava con la consorte e figliuoli, tra i
quali Ercole, allora di anni 9, martire della libertà nel 1799. Ed alle Coppetelle gli altri dei nob.
Giuseppe Gambella e Marcellino de Clavellis e del
dott. Tiburzio de Parrillis.
A S. Rocco la casa del mag.
Pietrantonio de Stefano, console dell’arte dei panni. Alla Petrara i
palazzi del mag. Bernardo Meola e del mag. Giacomo Mazza, nobili viventi. A S. Sebastiano le case
del mag. Francesco Fatti, segretario del Duca, del
chirurgo Stefano Buontempo e del mercante Pasquale de Marco ed il palazzo del mag. Gio. Antonio d’Amore.
Al
Molino il palazzo del mag. Pasquale Potenza,
nobile vivente. A S. Antonio quello di D. Michelangelo Ragucci.
Alla Ficolandina il
palazzo del dott. Giuseppe Paterno, nob. vivente e le
case dei mag. Bernardo de Iacobellis
e Michelangelo Pasquale; dirimpetto i Celestini il palazzo di D.
Pasquale del Giudice, guardiacaccia del Re. Al Trigio
di Farfazio il palazzo del nob.
Vincenzo Pitò ed al Vicinato quelli del mag. Costantino Paterno e del dott. Marzio Trutta. Al Pontone del Vallone l’altro del mag. Vincenzo Candelarese; a Paterno
le case del not. Domenico Paterno, ed al Trigio di Paterno il palazzo del dott. Giuseppe
Vertollo. Alla Cortiglia
longa la casa del mag. Giuseppe Andrea Greco;
alla Cortiglia del Prota
quella del mag. Pasquale Costantini; sotto l’Annunziata
l’altra del mag. Giuseppe Cavicchia a Capo Vallata
quella del mag. Marco Cavicchia.
Nella località Arbore i palazzi del dott.
Domenico Noratelli e del mag.
Nunzio Noratelli. Avanti la Parrocchia di
Sepicciano quello del nobile Sebastiano Gambella.
E trovo al Mercato case terranee per uso di
fondaci, case di abitazione e palazzi non ancora ultimati. Quivi possedevano
fabbricati il mag. Filippo Baffi, il nob. Gio. Batt.
di Tommaso, il nob. Giuseppe Ciccarelli, Silvestro
Guadagno, i Rev. Carlo e Ferdinando Buontempo, la chiesa di S. M. delle Grazie
ed il monastero degli Agostiniani, tutti dell’università di Castello. E quivi
la casa del mag. Bernardo Meola, non ancora
terminata, il fondaco di sei vani del mag. Gio. Ant. d’Amore; la curia del not. Gio. Giacomo Gallo in casa
di fitto del dott. Antonio Barra; l’azzimaria di
Carlo Farina; la vendita del tabacco esercitata da Giacomo Treglia.
E poi, le tiratoie
da spandere panni, presso il Mercato, della famiglia d’Angese
e del dott. Paterno; la tintoria di D. Nunzio Noratelli
al Ponte dell’Ossa; le spezierie di medicina della cappella di A.
G. P. fittata a D. Cosimo Gismondi, del monastero di S. Domenico, fittata a D.
Simone Fusco; l’altra sotto il convento dei PP. Carmelitani, fittata a D. Carlo
Semola.
Fra tant’altro, che non riesce notare, rilevo che il
suddetto monastero di S. Domenico possedeva una casa terranea sotto la cappella
del palazzo vescovile, a S. Domenico, “luogo detto la Pietra del Pesce,
che serve per comodo delli pescivendoli”, i quali,
per il relativo uso, corrispondevano al Monastero un rotolo di pesce a soma.
Tante conseguenze lo storico, l’erudito e
l’economista potranno trarre da queste sommarie indagini sullo stato e sulle
condizioni di Piedimonte nel secolo XVIII, specie se si voglian
mettere in relazione con i tempi che furono e con l’epoca a noi più vicina. E
poiché questo studio, per svariate esigenze, offre lacune, specie per
identificazioni e confronti, che pure avevo in animo di eseguire, sembra a me
che altri faccia bene a consacrarvisi, per far conoscere le vicende fortunose
della città ed i suoi pregi in quel caratteristico secolo.
Certamente da quei raffronti risulterà che Piedimonte ha seguito la via di civile progresso che i tempi nuovi han determinata e resa necessaria. Ha saputo così essere degna dei tempi moderni, senza dimenticare le sue tradizioni, senza venir meno al culto mobilissimo dei suoi antichi ricordi.
Piedimonte Matese Archivio
Storico: Raffaele Alfonso Ricciardi Home page
[1] Le ricerche esposte nella presente nota sono tratte dal Catasto Onciario di Piedimonte d’Alife del 1754, conservato in quell’Archivio Comunale. Vol. in 4° di pag. 777, con le sottoscrizioni autografe dei Deputati e dei Sindaci e Giudici dell’Università.
[2] Dice Riccardo di Sangermano nella sua Cronaca, narrando le mosse dell’esercito del Card. Pelagio: similiter et castrum Pedemontis, quod erat Comitis memorati (di Acerra), turris tamen castri ipsius est ad fidem ipsius Comitis conservata.
[3] Catalogo dei baroni ecc. pubblicato dal Borrello: Vindex neap. nobilitatis, e da altri.
[4] Con decreto di preambolo della G. C. della Vicaria del 29 gennaio 1735 il surriferito D. Giuseppe Antonio Gaetani successe al duca Francesco, suo padre, morto in Piedimonte agli 11 agosto 1735. Nel 28 settembre 1770 ebbe l’intestazione nel Cedolario per Piedimonte e casali, Alife, baronia di Alvignano, Dragoni e Maiorano di Monte, baronia di Gioia, detta Laurenzana col titolo di Duca e col feudo di Pianoliscio e baronia di Capriati, Ciorlano, Fossaceca e S. Maria dell’Oliveto. Cfr. Cedolario di Terra di Lavoro dal 1767 al 1806 vol. 64 t. a 67. Morì nel 21 aprile 1782.
[5] Ms. originale conservato nel Museo Civico di Piedimonte.
[6] Non risultano dall’Onciario il nome ed il numero dei monaci residenti nei monasteri dei PP. Alcantarini e di S. Francesco, perché non vi furono annotati pel fatto che la costituzione francescana vietava il possesso dei beni ed il catasto del 1754 fu formato esclusivamente per allibrare le proprietà soggette alle once.