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Note storiche sulla contea di Alife

 

(dall’omonimo articolo di Dante B. Marrocco in Annuario ASMV 1975)

 

 

 

Un interessante capitolo della storia di Alife è quello della sua contea che dalla metà del Medio Evo si rivela sotto tanti aspetti continuatrice del municipio romano. Scopo dello studio è anzitutto di far indagine storica su persone, date e fatti, di accennare alla lenta evoluzione dell’istituzione dalla consignorìa longobarda alla piccola monarchia normanna, di mostrare la diminuzione progressiva della giurisdizione sul territorio e nel potere, e di accennare alla fine della già ridotta giurisdizione e alla trasmissione del solo titolo.

Sono note che vogliono cogliere gli elementi essenziali, per cui strettamente essenziale è la bibliografia accennata in nota. Non vi sono grandi novità documentarie, ma non vi mancano interpretazioni nuove e correzioni di imprecisioni.

 

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Estensione ed origine

L’estensione si ricava dal celebre placito capuano del 999, quando riporta l’ubicaione dei possessi del monastero di S. Maria in Cingla, Cégna presso Ailano, qui sunt in pertinentia de ipso comitatu nostro aliphano la contea andava dal confine di Prata con Fontegreca a Sepicciano e, si può pensare, fino all’Aduénto fra Criscia-Curti e Gioia, quelli che sono anche i confini del vescovato.

Il confine a Occidente è ancor pià chiarito: dalla collina di S. Vito, oggi Valle dei lundri, un terreno in questione si trova “…de prima parte, parte Yserniensi fine flubio qui dicitur Saba (la Sava), et ab inde sicut incipit et vadit …per terras quae nun nostri Palatii pertinent, usque in ribu qui Pentemusu dicitur, et ab inde vadit per pedes de ipso Morretellu (collina di S. Lucia) usque in praedicto flubio Ete” (il Lete).

L’istituzione della contea, alla metà del secolo decimo, fu preceduta dal gastaldato.

Dal tedesco gast halten = hospitium tenere, si ha che il gastaldo era un funzionario corrispondente al castellano, temporaneo e con poca autonomia. Fra i trentatre gastaldati del principato di Benevento c’è Alife. A metà del secolo decimo ad esso succede la contea. L’anno di istituzione sembra il 965. Si tenga comunque presente che l’anno 999, già prima del conte Audoaldo c’è stato suo padre Aldemaro e suo nonno Audoaldo, e che a questi precede Bernardo.

 

L’ordinamento

La contea di Alife era parte integrante del principato di Benevento.

Proprio come nella divisione amministrativa d’Italia fatta da Augusto, anche l’amministrazione longobarda seguì la direttiva fluviale Medio Volturno-Basso Calore. La direttiva sarà dirottata dopo il 1266 verso Terra di Lavoro unicamente perché Benevento non apparteneva al reame.

Sembra faccia eccezione il privilegio del 1033 emanato a Capua, ma si spiega col fatto che il monastero di Cingla s’era trasferito lì (S. Maria delle monache).

Il potere del conte appare limitato.

Da Gattola si ricava: “…per obsecrationem Audoaldi Comitis in praefato sacrosanto episcopio, inter alia quae ibidem legitur, omnes aquas que conjuncta esse videbantur cum terra praefati episcopii, cum ripis et aquis et cursus ipsius aquae ad faciendum ibidem clusurie, et molina et alia omnia quae ad partem praefati episcopii necessaria fuisset…”. Questo il 6 Marzo 1033.

Il per obsecrationem  indica una proposta non un potere decisorio valido per alienazione di suolo ed acque pubbliche che appare riservato al principe. L’atto è stipulato a Capua, nel palazzo del principe, et ab anulis ipsorum Principum de intus et foras in cera sigillato erat. Bisogna anche distinguere fra patrimonio e giurisdizione. La contea non era patrimonio del conte.

C’è un patrimonio che sembra dotazione dell’alta carica: alia curte… quae nunc nostri Palati pertinet. E c’è pure un patrimonio della casa comunale: del conte Audoaldo è una terra presso il ponte Oroluni e S. Mauro, fine terra suaque Audualdi Comitis, et de supradictis suis consortibus.

Dalla proprietà comune alla casa si passa alla consignoria. Il placito del 999 è contrattato da Audoaldo e da Aldemaro, entrambi conti di Alife; tutti i maschi nominati usano il titolo di conte, e sono pure detti consortes fra loro. L’assenso di tutti i maschi della consorteria è necessario.

 

Rapporti con la Chiesa

Col clero secolare i rapporti sembrano cordiali. Dopo quattro secoli di vuoto il vescovato era stato ristabilito proprio in quegli anni nei quali si sono succeduti sulla cattedra Paolo e Vito, e forse è questo l’elemento che determina la cordialità: il vescovato è nuovo e povero. Assicura ciò la donazione delle acque al vescovato, di cui s’è parlato.

Col monachesimo, ricco, esente da ogni giurisdizione ecclesiastica e civile, che porta fuori della contea i prodotto dei suoi latifondi, che permette evasioni, la cosa è diversa.

Fastidioso inquilino della contea era, fra i tanti monasteri, quello di monache benedettine di S. Maria in Cingla, Cégna presso Ailano. Fondato verso il 748, dopo due secoli aveva una proprietà immensa. I latifondi che possedeva si estendevano dalle basse valli del Lete e della Sava fino a Sepicciano, senza contare altre terre nelle contee di Venafro e Teano. Dal 943 si trasferì a Capua, mantenendo una “cella”, una piccola comunità a Cégna. Esentato da imperatori e principi dalla giurisdizione ordinaria sia quanto a imposte sull’esteso patrimonio, sia per azione di legge sulle persone dipendenti, uomini liberi, servi, impiegati, il conte di Alife vedeva sfuggire al suo controllo un’estesa parte della contea. Qualche tentativo di agire sull’ente-monastero c’era stato. Principi quali Grimoaldo e Pandolfo, e imperatori quali Ludovico e Ottone III l’avevano ridotto al silenzio: “Nullus Princeps, Dux, Marchio, Comes, Gastaldeus, Judex, Schuldahis…” osi toccare persone o cose nei nove latifondi del monastero nella contea di Alife! Questo in entrambe le cause, nel 999 e nel 1033. In quest’anno, il conte Aldemaro rivendica altre chiese e terre che trentacinque anni prima non appartenevano a Cingla.

 

Evoluzione della giurisdizione

Coi Longobardi la giurisdizione del conte di Alife si esercitava su tutta la contea. Coi Normanni anche la contea di Alife assunse altre caratteristiche. Finita con la morte, la superiore personalità di Rainulfo III, il potere del conte si esplicò solo in dicta civitate et eius territorio. Un feudo fra gli altri.

Come distinzione, Alife era feudo nobile, conferito immediate et in capite a Regia Curia. Nel catalogo dei baroni appare che i territori della cessata contea longobarda sono in tutto indipendenti dal vassallaggio verso il conte di Alife. Non sono suffeudi di quel conte, ma sono concessi da altri.

Così, Pratella risulta concessa da Ruggero conte di Molise. Così Rainone signore di Prata, che tiene in demanio anche Sant’Angelo e Tino (Letino), non è citato quando si parla dei feudi posseduti in Alife. Nel 1267 Goffredo di Dragone possiede anche Sant’Angelo e Raviscanina, senza possedere la contea. Nel 1498, Re Federico III ordina al giurista De Trasmundis di procedere alla reintegra dei beni usurpati nei feudi dei Garlon. Ebbene l’indagine è staccata per ognuno dei feudi.

 

I diritti feudali

Dagli statuti del 1503, dal Notamento del 7 Novembre 1782, e dalle sentenze della Commissione feudale del 1808, si ricavano i seguenti diritti che rappresentavano tante entrate della Camera comitale. Forse quelli riportati non sono tutti quelli che apparivano negli atti della Commissione, in quanto sono molto più pochi rispetto a quelli pagati a Piedimonte.

Nel decimo secolo erano come quelli riportati per Cingla: “…judicalia et fiscalia…”, e cioè escatico, herbatico, siliquatico, portatico, caseatico, plateatico… Nel 1808 erano:

1.     Zecca e Portolania – Il Portolano era eletto dal popolo in pubblico parlamento e confermato con patentiglia dal conte. L’ufficio veniva fittato per ducati 45 annui. Su richiesta dell’università fu abolito nel 1755 dal S. R. Consiglio.

2.     Mastrodattia (giurisdizione sulle cause civili e criminali). L’ufficio era fittato per duc. 120 annui. Fu abolito nel 1806.

3.     Diritto di grana 12 per oncia (L. 0,53 per 25,50 al cambio 1861), sulle compravendite di animali e vettovaglie in Alife. Nel 1498 era di grana 12 e ½ per ogni salma, di tarì 12 e ½ per ogni 100 animali vaccini grossi; di tarì 2 e ½ per ogni 100 animali minuti. Il diritto di pesa era di 1 tornese a decina. Fu abolito nel 1806.

4.     Diritto sulle taverne – dal 1780 era compreso nel precedente. Fu abolito nel 1806.

5.     Fida grande per il pascolo di animali vaccini nella piana e nelle montagne, ad eccezione del territorio “Sequestrato”. Nel ‘600, rendeva ben 3.500 ducati, ma nel 1782 era sceso a 1.164-58 e 1/3. Fu abolito nel 1810.

6.     Fida piccola per il pascolo di pecore e capre. Si fittava solo quando le pecore andavano in Puglia. Decaduto alla fine del ‘700, fu abolito nel 1810.

7.     Decima sulle montagne. Abolita nel 1810.

8.     Decima dell’acqua – Un carlino a ducato (L. 0,43 circa per L. 4,25) ma cresceva secondo l’uso da parte dei canapinari per gli orti da irrigare. Abolita nel 1810. Pare sia questo il diritto dei “pollastri”.

9.     Diritto dei mulini – Esistente nel sec. X, dal ‘600 avvantaggiato con la retrocessione di vecchie concessioni (fra cui quelle a S. Maria della Ferrara). Abolito nel 1808.

10. Diritto sulle scafe nel Volturno.

I diritti dei mulini, della pesca nei Torani, e dei pollastri per l’irrigazione erano nati da una questione: il Torano era feudale o burgenzatico? Dalla cronaca dell’abate telesino appare burgenzatico: chiunque voleva se ne portava nell’orto un rivo, ma questo fatto non esclude che si potesse pagare un diritto. Questo portò a vari processi; a volte barone e università procedevano d’accordo, a volte in opposizione. Così, nel processo presso il S. R. Consiglio del 5 Febbraio 1505 si negava da Alife a Piedimonte il diritto di dividere l’acqua dei due Torani ab libitum ipsiius D.ni Ducis (il signore di Piedimonte), seu Universitatis predicte (di Piedimonte) fuit solitum levare aquam a solito cursu, puta a Torano novo, inducendo aquam in Torano veteri, et quod factus fuit novus cursus seu nova forma per quam nuc ducitur aqua ad dicta molendina civitatis Alifie, quod non fuit nec esse verum nec posse probari, nihilominus procurator Universitatis Alifie probari intendit…”.

E il 22 Gennaio 1613 gli Eletti dell’università fittarono al vescovo Seta il diritto della pesca, et facere nassalos in Toranis predicte Civitatis Alipharum. Che se dal primo ‘700 il diritto alla pesca veniva esercitato dal conte, l’università gli riconosceva questo diritto, purché pagasse ad essa 12 ducati l’anno.

Da tutti questi apprezzi e decreti appare chiaro che i due Torani, il nuovo (quello innanzi a Porta Napoli) e il vecchio (oltre la croce dei pioppi), erano burgenzatici.

 

L’amministrazione feudale

Non va confusa con l’università, i suoi eletti e il governatore.

Un visconte vicecomes, rappresentava il conte durante i periodi di assenza che, a volte duravano anni. La carica esisteva già nel 1094: Ego qui supra Citrus vicecomes. Compare pure negli statuti di Alife del 1511. Nelle nomine del ‘700 non compare più.

Il capitàneo era a capo della polizia locale. Imponeva e riscoteva le multe, e dava l’arresto e la prigionia.

Il castellano, successore dell’antico gastaldo, comandava il castello, e ne controllava le difese e le carceri. Se ne ha notizia nelle grazie chieste al conte Ferrante Diaz Garlon nel 1503.

L’Erario mantenne la sua funzionalità fino alla legge eversiva, ed è logico, poiché amministrava il patrimonio, anche se il potere diminuiva. I suoi compiti, essenzialmente economici, sono contenuti nella lettera di nomina. Aveva a disposizione un Caporale e una squadra. Ogni mese mandava un bilancio di introito e di esito in Computisteria, e si firmava Procurator et generalis Aerarius. Però dal ‘600, l’Erario di Alife funzionava solo per la contea, quello generale stava a Piedimonte.

Oltre alle nomine, il conte aveva diritto ad alcune conferme.

Fra proposta e nomina era quella del governatore: un dottore in legge, forestiero, annuale quasi sempre.

La conferma del conte era necessaria per la validità della elezione del Portolano, per la giurisdizione della Zecca e Portolania. Vi ho già accennato nei “diritti”.

 

Giustizia feudale

La corte di giustizia di Alife era presieduta dal conte, ed aveva il potere di giudicare e condannare mero mixtoque imperio cum gladii potestate, cognitione causarum civilium et criminalium. Questi poteri della corte alifana esistono, pare, fin dall’epoca longobarda. La corte poteva condannare ai tratti di corda e a morte. Mentre per Piedimonte si conosce l’ultima condanna a morte della corte piedimontese, data nel 1697 a un omicida plurimo, per Alife non si ha memoria di condanne capitali.

Funzionavano in Alife due carceri, una nella terra, e cioè in città, e l’altra, forse per colpe più gravi, nel castello. Oltre all’applicazione della legge generale, la corte vigilava e puniva con multe ogni violazione degli statuti comunali.

Un Mastrodatti, magister actorum preparava la stesura e l’esecuzione delle cause. Era alle dipendenze del visconte e poi del capitaneo.

Il delicato ufficio veniva fittato. Nel 1499 rendeva 10 ducati di carlini d’argento alla camera comitale, e nel 1780 rendeva 120 ducati. Il mastro degli atti non aveva stipendio: si rifaceva nelle cause esigendo i diritti. Ad Alife, per ogni cassatura esigeva 1 grano (cent. 0,04), per ogni lettera 5 grani. Fu abolito nel 1806.

Il Baglivo era specializzato specialmente per danni campestri.

 

La serie dei conti

 

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