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Dottor Francesco Saverio Finelli

Canonico Teologo della Cattedrale di Alife

 

CITTÀ DI ALIFE

E DIOCESI

CENNI STORICI

 

Scafati

Stabilimento Tipografico Rinascimento

1928

 

A Sua Eccellenza Ill.ma e Rev.ma

Mons. D. Felice Del Sordo

dottore in sacra teologia

assistente al soglio pontificio

pastore amatissimo

della chiesa alifana

questo modesto lavoro

in segno di filiale affetto

l’autore

o.d.c.

 

 

Lettera

di Sua Eccellenza Reverendissima

Mons. D. Felice Del Sordo

all’autore

 

Vescovado

di

Alife

Piedimonte d’Alife 25 Gennaio 1928

 

Carissimo Canonico

Con gentile ed affettuoso pensiero Lei ha voluto dedicare a me, che da tempo ho avuto occasione di conoscere ed ammirare le doti di mente e di cuore, che l’adornano, i suoi “Cenni Storici della Città di Alife”.

Ne la ringrazio vivamente, per l’atto deferente circa la mia persona, ed ancora perché ha colmato un grande vuoto che esisteva da tempo, salvando dall’oblio molte care ed utili memorie storiche.

Certamente i cittadini di Alife dovranno esserle grati per il bello ed erudito lavoro in breve tempo compito.

Mi auguro che il suo esempio sia sprone ai suoi confratelli ed ai cittadini di cotesta Città, per lavorare sempre più per l’incremento delle opere ecclesiastiche e civili di questa amata Diocesi Alifana, Benedicendola di cuore, con stima ed affetto, mi raffermo.

 

aff.mo Servo in Xto.

Felice Vescovo di Alife

 

All’Ill.mo e Rev.mo

Sig. Dott. Francesco Finelli

Canonico Teologo della Cattedrale di

Alife

 

 

 

PARTE PRIMA

Fondazione e vicende politiche di Alife attraverso i secoli

 

(pp. 7-56)

 

Introduzione.

 

Mentre lo spirito di Roma imperiale, sempre vivo nell’eterna giovinezza della Chiesa Cattolica, si va ridestando nell’anima della Nuova Italia, per compiere nel mondo l’altissima missione di fede e di civiltà, che le venne affidata dalla Provvidenza; mente dalle rovine dei secoli, balzano alla luce rifatti ed abbelliti, i monumenti e i ricordi di potenza e di gloria, mi è sembrato ragionevole portare il mio modesto contributo a quest’opera di risorgimento patriottico, facendo conoscere, in un Compendio chiaro e conciso, la storia e le glorie della vetusta città di Alife, sempre grande, sia nelle lotte sannitiche, sia nelle competizioni feudali, sia nelle manifestazioni religiose, affinché, mentre le nuove generazioni sappiano emulare le gesta dei loro maggiori, le competenti Autorità ne rialzino il prestigio per rinnovarne la gloria.

 

 

CAPITOLO PRIMO

Origine di Alife

 

Le opinioni degli storici intorno alle origini di Alife sono tante e così diverse, da far risalire la sua fondazione alla leggenda inverosimile, che il so primo Fondatore sia stato lo stesso Noè, identificando il suo nome con quello di Giano, che poi venne annoverato tra gli Dei.

  1. Alcuni affermano che Alife sia stata fondata da Ercole, generale degli Arcadii, il quale vinse e scacciò Cacco che aveva costituito il suo regno nelle vicinanze del Volturno.
  2. Altri l’ascrivono ad uno dei compagni di Diomede, allorché, di ritorno dalla guerra Troiana si fermò nelle Puglie e poi andò a fondare Benevento.
  3. Altri la vorrebbero di origine Greca, basandola sulla comune leggenda Virgiliana, che cioè Enea, colla sua gente Troiana, venne a procreare la gente Romana ed Italica.
  4. Altri la fanno derivare dall’emigrazione Sabellica, che come olocausto a Marte, seguendo la catena degli Appennini, si fermò ai piedi dei gioghi del Matese, dando origine a Boiano, Isernia, Telese, Alife ed in seguito a tutte le altre città che costituiscono l’antico Sannio.
  5. L’ultima e più ragionevole opinione, che raggiunge la certezza, afferma che Alife sia stata fondata dagli Osci o Tirreni, i quali in epoca preistorica, vennero dall’Asia a popolare la Liguria, il Lazio e la Campania.

Questo fatto è dimostrato ad evidenza:

  1. dall’Autorità di Plinio il Vecchio, il quale facendo l’elenco dei popoli discendenti dagli Osci o Pelagi, nomina espressamente gli Alifani. (Plinio Secondo - Storia naturale lib. III).
  2. dagli avanzi di costruzioni ciclopiche tuttora esistenti, quali l’Acropoli del Cila, contrafforte del Matese, e quella del Monte Acero, in quel di Telese, dove sono stati rinvenuti numerosi manufatti in pietra, come coltelli, lance ed altri utensili, il che dimostra che essi servirono a gente che visse colà appunto in quell’epoca remota. Finalmente l’evidenza di tale opinione apparisce chiaramente dall’uso della lingua Osca, che volgarmente parlavasi dai popoli Alifani, come la parlavano appunto quelli che, tornando da Falerno carichi di preda, e pernottando sulle rive del Volturno, furono scoperti dalle spie del Console Sempronio che comprendevano la lingua Osca. (Tito Livio lib. 10).

L’uso poi del linguaggio osco si rivela ancora dalle iscrizioni scolpite in numerose monete ritrovate nell’agro Alifano, ed assai più in quello Telesino.

Resta dunque assodato che, nell’età preistorica, il territorio di Alife era abitato, e che i suoi primi abitatori, riconosciuti col nome di Aborigeni, siano stati gli Osci o Pelasgi. Le immigrazioni Sannitiche dunque non fecero che accrescere, fondere, civilizzare e cambiare il nome ai popoli già ivi esistenti.

Pertanto l’origine di Alife risale a molti secoli prima di Roma, il che sarebbe vero anche nella falsa ipotesi, che essa derivasse esclusivamente dai Sabelli; imperocché tale emigrazione sarebbe avvenuta certamente prima del ratto delle Sabine, compiuto proditoriamente dai Romani, che mancavano di donne, essendosi poi uniti per formare un popolo solo; e quindi sempre prima della completa fondazione di Roma.

 

 

CAPITOLO SECONDO

Alife nelle Guerre Sannitiche

 

Lo spirito bellicoso dei Sanniti li spinse ad espandere il loro dominio sui popoli vicini. Avendo attaccati i Sedicini ed essendosi impadroniti delle loro città principali, cioè di Capua e Tifati, questi andarono a chiedere aiuto ai Romani, i quali risposero di non poterli aiutare, essendo in rapporti amichevoli coi Sanniti. Allora quelli vinti dalla disperazione, anziché subire le prepotenze dei Sanniti, preferirono di darsi spontaneamente ai Romani, offrendo loro il dominio delle loro terre e delle loro città. I Romani, divenuti così inaspettatamente Signori dei Sedicini, inviarono messi ai Sanniti, invitandoli a desistere dalle ostilità; ma avendone avuto un reciso rifiuto, inviarono loro un Feciale, per intimare loro la guerra. I Sanniti, anziché avvilirsi, si prepararono con grande ardore alla guerra. I Romani mandarono contro di essi due agguerriti eserciti, capitanati dai Consoli Valerio e Cornelio. La lotta fu aspra e sanguinosa, ma i Romani riusciti vincitori, distrussero, come afferma Tito Livio, le principali città Sannite, cioè Alife, Cullife, e Rufrio. Ciò avvenne nell’anno 427 di Roma e 325 prima di Gesù Cristo.

D’allora incominciò, con diverse vicende, la serie desolante delle lotte tra Romani e Sanniti, i quali ultimi combatterono i loro potenti avversarii, ora da soli, ora confederati coi Toscani, coi Bruzii, coi Lucani, coi Tarantini ed anche con Pirro re dell’Epiro. Malgrado tanta costanza e tanto valore, i Sanniti furono infine vinti e sopraffatti dalla potenza di Roma, che si mostrò tuttavia barbara, con sacrificare il valoroso generale Ponzio Telesino, dopo averlo umiliato nel trionfo di Fabio.

 

 

CAPITOLO TERZO

Alife durante le Guerre Cartaginesi

 

A rendere più disastrose le misere condizioni del Sannio, e soprattutto di Alife, sopravvennero le terribili guerre tra Romani e Cartaginesi, le quali furono causa di numerose devastazioni, nella Campania e nella pianura di Alife.

Dopo le terribili battaglie navali avvenute nei mari della Sicilia, Annibale decise di portare la guerra in Italia.

Valicate le Alpi con formidabile esercito e vinte tre grandi battaglie, sul Ticino, sulla Trebbia e sul Trasimeno ed una quarta più grandiosa a Canne, nelle Puglie, passò nella Daunia ove s’impadronì di Arpi, indi valicato l’appennino, nell’anno 218 a.C., s’impadronì di Telese, e poi passò nella pianura di Alife, puntando su Capua, allora Colonia Romana.

Intanto il Console Fabio Massimo li pedinava ed operò in modo che li tirò in agguato presso i monti di Formia a liberarsi dal quale, l’astuto Cartaginese ricorde al famoso stratagemma dei buoi, lanciati contro il nemico con fastelli di restoppia accesi e legati sulle loro corna. Allora Annibale tornò indietro, sempre seguito da Fabio, e si attendò nella pianura di Alife, mentre i Romani lo vigilavano dalle alture dei contrafforti appenninici e particolarmente dal Cila, come rilevasi dalle parole di Tito Livio lib. 22: “Fabius quoque movit castra: transgressusque saltum super Allifas, loco alto et munito consediti” vale a dire: Fabio mosse il campo (da Casilino) ed uscendo dagli stretti passi, si fermò sopra Alife, in luogo alto e fortificato. Si fu appunto in questi passaggi avvenuti ben 5 volte  e durante queste tappe di Annibale, che la città di Alife ebbe a soffrire continue rappresaglie e devastazioni. Questa misera città si trovò allora fra due fuochi. Se parteggiava pei Romani era punita da Annibale, non appena poteva farvi irruzione; se permetteva, quantunque per forza, ai Cartaginesi di entrare fra le sue mura, Fabio le faceva tosto pagare il fio della sua debolezza.

Per questa debolezza Alife fu incolpata dai Romani di diserzione e ne fu punita, col farla semplice Prefettura, ossia città senza alcun diritto di cittadinanza e di suffragio, governata da un ufficiale mandato direttamente dal Pretore di Roma.

 

 

CAPITOLO QUARTO

Alife nella Guerra Sociale

 

Le continue oppressioni dei Romai sui popoli conquistati crearono un generale malcontento, soprattutto perché privi del diritto di cittadinanza. Più volte chiesero l’uguaglianza sociale ma Roma la rifiutò. Di qui ebbe origine la lega dei popoli Italici, per la rivendicazione delle proprie libertà, lega che ebbe il suo centro nella città di Corfinio nei Peligni. Ivi si raccolsero armi e danari; ivi si costituì il Senato di 500 Maggiorenti dei paesi del Sannio, destinato a preparare l’esercito della riscossa. Ivi si nominarono i primi Consoli che furono, C. Pompedio Slone dei Marsi e C. Aponio Mutilio del Sannio, con 12 Capitani, che dovevano guidare le schiere di questi, due furono Alifani, cioè, Papio Mutilo e Cajo Papio. (Trutta, diss. 13, p. 166). Tutto il Sannio prese parte all’audace impresa e l’esercito pieno di entusiasmo e di fede, si mosse verso Roma. La guerra si svolse con grande ferocia e si versarono torrenti di sangue, Roma intimorita da questa rivoluzione, concesse la cittadinanza a tutti, meno che ai Sanniti ed ai Lucani, donde l’odio mortale di questi contro Roma (anno 89 a.C.).

Intanto sorsero discordie tra i due Generali Romani, Mario e Silla, e la guerra sociale si confuse colla guerra civile.

I Sanniti parteggiarono per Mario, che prometteva loro la desiderata cittadinanza Romana. Guidati dal secondo Ponzio Telesino, probabilmente discendente del Primo, e da M. Lamponio, i Sanniti si mossero per andare ad assalire Roma.

Fingendo di piegare verso Preneste, in soccorso di Mario, durante la notte, piombarono improvvisamente su Roma, minacciando di entrarvi addirittura per Porta Collina. Vinsero la resistenza della cavalleria di Balbo e l’ala dell’esercito comandata da Silla, ma la colonna comandaa da Crasso sfondò l’esercito Sannita, di cui, durante la notte, fu fatta terribile strage.

A ricordo di questa vittoria, Silla istituì i giuochi Circensi e poi portandosi nel Sannio vi disseminò il terrore e la morte, dicendo di voler distrugger fino all’ultimo Sannita, perché un solo Sannita bastava a tenere Roma inquieta. (Strabone, Geog. lib. 5). Alife fu rovinata ma non del tutto distrutta. (Strab. ivi).

 

 

CAPITOLO QUINTO

Epoca gloriosa di Alife: è fatta Municipio e poi Colonia

 

I popoli sottomessi dai Romani non erano tutti trattati allo stesso modo; alcune città avevano perduta ogni indipendenza e libertà ed erano interamente soggette ai magistrati ed alle leggi comuni e queste erano dette Prefetture. Tale fu Alife, dopo la seconda guerra cartaginese. Anno 430 di Roma e 320 a.C.

Altre città continuavano ad avere governo, leggi, milizie e magistrati proprii, e queste erano chiamate Municipii. In questi Municipii Roma mandava anche magistrati proprii, che governavano le Prefetture. I municipi erano di due specie: quelli col diritto di suffragio nell’elezione dei Magistrati della repubblica o dell’impero, e quelli senza tale diritto. Alife fu municipio del primo genere; ciò rilevasi dalle parole di Cicerone, il quale assimila Alife ad Arpino, sua patria, ove egli e Mario andarono per prendervi i magistrati e condurli a Roma per la votazione, nonché ad Atina, ove Plancio andò per lo stesso scopo. “Iam municipia conjunctionis etiam vicinitatis moventur, nemo Arpinas, non Plancio studuit; nemo Soranus, nemo Casinos, nemo Aquinas. Totus ille tractus Venafranus Alifanus etc” (Cic. Oratio pro Plancio).

Dal che apparisce che concorsero anche gli Alifani con gli altri, a dare nei comizii il loro suffragio a favore di Plancio. In altre città finalmente si mandavano dei coloni reclutati fra i cittadini di Roma, i quali insieme cogli indigeni, godevano degli stessi diritti e privilegi dei cittadini romani. Queste città erano dette Colonie. Lo scopo delle colonie era quello di sfollare un po’ la città di Roma, vigilare sui vinti per impedire nuove insurrezioni ed infine naturalizzarli, inoculando nei loro costumi e nelle loro leggi il carattere romano. La Colonia diveniva così, in piccolo, una riproduzione di Roma.

Le Colonie, secondo lo scopo e le persone che le costituivano, erano Civili o Militari.

Alife fu una Colonia militare, sia per la sua posizione strategica, sia per il carattere e l’indole di suoi abitanti, che come Sanniti erano naturalmente guerrieri. Ciò rilevasi dal Frontino (De Coloniis, p. 402, n. 7) “Allife oppidum muro ductum. Ager ejus lege triumvirali est assignatus; iter populo non debetur”.

Sul principio fu Colonia Triumvirale, cioè mandata dai Triumviri, Augusto, Lepido e Marcantonio; più tardi fu detta Colonia Augustale, cioè mandata dagli Imperatori che avevano l’appellativo di Augusto.

Come Colonia romana, Alife ebbe i suoi Decurioni che erano i Governatori della Colonia;

i Duumviri, che erano come i Consoli o capi militari, la cui insegna era il Fascio littorio;

i Questori, che amministravano la giustizia;

i Censori, che facevano il censo della Colonia;

i Padroni, che erano i rappresentanti della Colonia a Roma, per difenderne gli interessi;

gli Edili e Pontefici, destinati al culto degli Dei;

ebbe insomma tutti i magistrati necessari al suo buon governo. Allora Alife si arricchì di tempii, di teatro, anfiteatro, Terme, Ville, Criptoportici, Fontane, e si ebbe il proprio Calendario Civile e religioso. Allora fu attraversata dalla Via latina, che era detta “regina viarum” e vi si celebrarono giuochi e feste. In quest’epoca la città fu abbellita da superbi edifizii nell’interno e splendide ville nei contorni. Allora un Fabio Massimo, discendente dell’antico Fabio, le rifece le mura, ristorò le terme e il tempio di Ercole. Allora, dice il Trutta, la popolazione alifana aumentò tanto che non essendo più sufficiente a contenerla lo spazio racchiuso nell’ambito delle mura, si formarono due nuovi quartieri, di cui uno fuori porta Roma e l’altro fuori porta Beneventana. Era la luce della grandezza di Roma che illuminava e rendeva glorioso anche il mondo coloniale dell’Impero. Non appena infatti l’astro delle fortune di Roma incominciò ad impallidire, anche le Colonie si oscurarono.

 

 

CAPITOLO SESTO

Decadenza di Alife

Dominazione dei Longobardi ed invasione dei Saraceni, Ungheri e Greci

 

La divisione dell’Impero fatta da Costantino e confermata da Teodosio, nell’anno 395 dell’era volgare, colla quale si costituiva l’impero di Oriente, con Capitale Costantinopoli, e l’Impero d’Occidente, con capitale Ravenna, generò discordie e lotte intestine, che distrussero l’unità militare e quindi l’antica potenza. I barbari che già da tempo bussavano alle porte dell’Impero per oltrepassarne i confini, approfittarono del momento propizio, irrompendo da tutte le parti. I Goti e Visigoti dalla Gallia, i Vandali dalla Spagna, i Borgognoni dal bacino del Rodano, i Franchi dal basso Reno, gli Anglosassoni dalla Britannia, gli Unni col terribile Attila, dalla valle del Danubio, i Saraceni dall’Africa, i Greci da Bisanzio, i Longobardi dalla Germania, si rovesciarono quali limacciosi torrenti sulla misera Italia, devastandone i territori e tiranneggiandoni i popoli.

I barbari portarono con sé, nuovi costumi, nuovi ordinamenti politici e quindi nuovi padroni e nuove leggi.

 

I Longobardi - Fra i barbari che vennero in Italia è necessario parlare in particolare dei Longobardi, così chiamati dalla parola tedesca “bard” che significa asta o lancia che essi ordinariamente portavano in mano.

Partiti dalla Pannonia, nell’anno 568 dell’era volgare, attraversando le alpi, calarono in Italia, e senza incontrare grande resistenza, s’impadronirono ben presto di quasi tutta la valle del Po; di lì penetrarono poi nella Toscana, nell’Umbria, negli Abruzzi, nella Campania, e nello spazio di quasi 80 anni, occuparono circa una metà dell’Italia, fissando la loro Capitale in Pavia. Mentre erano ancora col loro re Alboino all’assedio di Pavia, una parte di essi si avanzarono verso l’Italia Centrale e Meridionale, gittando le basi dei due Ducati, di Spoleto e di Benevento, che fecero parte dei loro vasti dominii divisi in 36 Ducati.

Il primo Duca Longobardo di Benevento fu Zotone, che riuscì ad impadronirsene coll’aiuto dei Goti rimasti nel paese e che odiavano a morte i Romani. I nuovi conquistatori, atterrirono colla loro ferocia gl’indigeni; li privarono di ogni autorità e proprietà, asservendoli alla gleba ed obbligandoli a lavorare pei loro nuovi Padroni, permettendo loro di ritenere per sé soltanto il terzo o il quarto del prodotto, onde il nome di Terziatori. Per il che tutto il contado fu sparso da Corti, Condome e Masse, vichi e Casali, secondo il numero dei villani, ovvero dei servi della gleba, che accudivano alla coltura dei poderi.

Essendo limitati di numero, per impedire qualsiasi ribellione dei popoli conquistati, li ressero con regime strettamente militare. Come crebbero di numero, presero a scorazzare il paese, rapinando ville, città e borgate e distruggendo leggi, costumi ed ogni qualità di cittadini romani, il che non fecero né i Goti, né i Greci che li avevano preceduti.

Dal 500 al mille dell’era volgare, in cui i Longobardi dominarono a Benevento, si ebbe un’epoca tenebrosa, per la desolazione della Città, per le Chiese vedovate dei loro Pastori, per monasteri dati alle fiamme e per i popoli assimilati agli schiavi.

Nel 591 a Zotone successe Arechi, il quale fu assai più umano, giacché prese molte delle costumanze romane, cinse corona, e volle perfino la sua immagine in Chiesa, anzi coniò pure moneta.

Fu opera sua il dividere il Ducato in 24 Contee, a capo delle quali pose un Castaldo, sulle prime amovibile, poi stabile ed infine ereditario.

Alife fu una delle Contee del Ducato di Benevento, sotto del quale scomparve tutta la sua grandezza e gloria romana.

Il P. Di Meo, contro il Pagi ed il Papebrochio, ragionevolmente sostiene che a somiglianza di altre sedi dei dominii Longobardi, anche Alife per lungo periodo di tempo, non ebbe più i suoi Vescovi e divenne bersaglio dell’avversa fortuna nell’incrudelire della guerra fra Greci, Longobardi e Saraceni.

Si ebbe un periodo di calma verso la metà del settimo secolo (662) quando essi per le preghiere di S. Barbato, Arcivescovo di Benevento, vinto l’imperatore Costante, che voleva soggiogarli, abiurarono l’eresia ariana ed abbracciarono la religione cattolica. Colla grazia della vera fede, essi divennero più buoni; edificarono chiese, monasteri, ville e borgate fiorentissime.

Furono particolarmente divoti dell’Arcangelo S. Michele, introducendo tale divozione in tutte le loro Contee. Tra le donazioni ai monasteri, troviamo che nell’anno 815 Alahis figlio del Duca Aregiso, donò all’Abate Giosuè del Monastero di S. Vincenzo al Volturno, i suoi possedimenti di Telese ed Alife. E nell’anno 841, il Gattola registra una donazione che Maione, Gastaldo di Telese, fece a Monte Cassino, dei suoi beni di Telese, di una Corte in Puglianello e di un’altra in Alife.

Ma non volsero due secoli e sui paesi del Ducato si rovesciò una nuova colluvie di mali. Per l’uccisione del Duca Sicardo, avvenuta a Lavello nel 839, si creò un dissidio tra i Longobardi di Salerno e quelli di Benevento, per cui i primi nominarono per loro duca Siconolfo figlio dell’ucciso, ed i secondi il tesoriere dell’ucciso medesimo, di nome Radelchi.

Conseguenza di questo dissidio fu un nuovo terribile flagello: “l’invasione Saracena”.

 

I Saraceni - Dopo l’uccisione di Sicardo, Duca di Benevento, scoppiarono ferocissime guerre fra Siconolfo figlio, come si è detto, dell’ucciso Sicardo proclamato principe di Conza e Salerno, e Radelchi proclamato Duca di Benevento. Non potendo questi principi colle proprie forze sopraffarsi, si rivolsero per aiuto ai Saraceni, nativi dell’Asia e seguaci di Maometto, i quali erano divenuti potenti in Africa e nella Spagna e perfino in Sicilia, caduta nelle loro mani.

Radelchi chiese aiuto ai Saraceni di Africa e Siconolfo a quei di Spagna, i quali corrotti con danaro da Radelchi, seminarono di stragi le Puglie,le Calabrie e il Contado di Capua, di cui Siconolfo era divenuto padrone.

A porre un termine a tanti mali, s’interpose Lodovico II imperatore e re d’Italia (della Casa Carolingia) e per suo consiglio, il Ducato di Benevento fu diviso in 2 Principati: Citra o di Salerno, a Siconolfo; Ultra, o di Benevento, a Radelchi; e ciò nell’anno 844.

Ma i rancori si riaccesero e scoppiata nuovamente la guerra, tra Siconolfo aiutato da Landone Conte di Capua, e Radelchi, aiutato dai Saraceni, Radelchi fu sconfitto successivamente a S. Agata dei Goti e Limatola, con grave danno di queste contrade che divennero preda dei vincitori.

Radelchi si ritirò a Benevento insieme a Massar Soldano di Bari, suo alleato. Era questi uomo astuto e crudele, il quale, fremendo di rabbia per la patita sconfitta, spiò il momento opportuno, ed uscito di Benevento coi suoi Saraceni, piombò su Telese ed Alife, divenute dominio di Siconolfo, e in parte le distrusse e bruciò, indi s’impadronì del Monastero di S. Maria in Cingla in Ailano, e di molti altri luoghi.

 

Terremoto dell’anno 847 - Ai flagelli delle guerre e delle invasioni dei Saraceni, si aggiunse nel 847 un terribile terremoto, che sconvolse e rovinò tutto il territorio del Ducato di Benevento, come dice l’Ostiense: Mense Junio generalis per totam Beneventi Regionem terremotus factus est magnus. (Cronaca lib. 34).

 

Lotario in Italia - In vista di tanti mali, nell’anno 848, l’imperatore Lotario discese in queste provincie, con grande esercito, discacciandone i Saraceni; ma appena egli si fu partito, quelli vi ritornarono più feroci di prima. Allora Lodovico, figlio di Lotario, si portò col suo esercito in queste contrade; assalì Benevento, ove si era chiuso Massar coi suoi Saraceni, e tutti furono o espulsi o uccisi.

Ma i Saraceni non dimenticarono mai più l’Italia, e fortificatisi in Bari, fecero di là frequenti scorrerie.

Nell’anno 851, assalirono i Duchi di Salerno e di Benevento, che si erano uniti per fronteggiarli e, dopo averli vinti, devastarono le loro terre.

Quando per insinuazione del principe di Capua, che aspirava a maggiore potenza, i Duchi di Salerno, di Benevento e di Spoleto si ribellarono a Lodovico II, e questi scese in Italia, mettendo in fuga i Duchi alleati ed impadronendosi di Alife, Telese e S. Agata, i Saraceni colsero l’occasione propizia e non appena Lodovico si fu ritirato, guidato da Seodan, ritornarono su Benevento, obbligando Radelchi a pagar loro tributo; sconfissero, fra Dugenta e S. Agata, i Conti di Telese e Boiano, che erano accorsi per vendicare la viltà di Radelchi, ed occuparono Telese, Alife, Sepino, Boiano e Venafro, distruggendole dalle fondamenta.

 

Nuova invasione Saracena nel 873-74 - Bari, per sottrarsi al dominio Saraceno, si diede ai Greci. A punire tale ribellione, il Saraceno Almagno venne dall’Africa, occupò Taranto, di cui fu proclamato Re, piombò su Bari, scacciandone i Greci, e, spintosi verso la Campania, depredò Benevento, Telese ed Alife, riportando grande vittoria sopra Radelchi.

Cresciuti in ardire, specialmente per l’alleanza coi principi di Salerno, Capua, Gaeta, Napoli ed Amalfi, contro Benevento, presero a distruggere ogni cosa nel dominio di Radelchi. Sopra sì gravi mali il Papa Giovanni VIII così ne scriveva all’Imperatore Carlo il Calvo: “I Vescovi qua e là dispersi non hanno scampo che in Roma, perché i loro Vescovadi si sono cangiati in covili di fiere”. E in altra lettera al Conte Brusone, in data 1° settembre 876, si espresse così: “I Saraceni hanno coverta tutta la superficie della terra a guisa di locuste, in modo che tolti quasi tutti gli abitatori, o uccisi, o condotti schiavi, la terra è ridotta in solitudine, o un covile di bestie”.

Invano s’interpose il Papa per pacificare i Duchi ed unirli contro il comune nemico, anzi si allearono coi Saraceni contro Radelchi, che nel 878 uccisero alle porte di Benevento. Fra i congiurati vi fu anche Patone, figlio di Potizione, che aveva beni in Alife e Telese.

 

Invasione degli Ungheri - Quasi non bastassero i Saraceni, si aggiunse una numerosa immigrazione di Ungheri, i quali devastata la Campania, passando per Alife, si diressero a Benevento, lasciando dovunque segni dolorosi della loro barbarie.

 

Greci e Saraceni - Nell’anno 943 i Greci e i Saraceni fecero una nuova scorreria sul misero Ducato di Benevento e gli ultimi si spinsero fino ad Alife ed al Monastero di S. Maria in Cingla, in Ailano, che nuovamente devastarono. Finalmente nel 1015, i Duchi Longobardi si unirono per combattere insieme Greci e Saraceni, che si avanzavano alla riscossa. I Duchi Landolfo ed Atenolfo li affrontarono nella Valle Telesina e ne fecero uno spaventoso macello restando ferito lo stesso Califfo Ali-Kun. (Iannacchino. Storia di Telesia).

 

Conti di Alife all’Epoca Longobarda - Non è stato possibile rintracciare e riordinare la serie completa dei Conti di Alife che vi dominarono all’epoca Longobarda. Riportiamo qui i nomi di quelli che è stato possibile di conoscere:

  1. Anno 972.       Bernardo nominat da Leone ostiense (Lib. 2 c. 6 f. 217 n. 868).
  2. Anno 974.       Aldemario (Gattola Hist. Cass. v. 1. p. 351).
  3. Anno 984.       Andoaldo (ivi p. 35)
  4. Anno 999.       Un altro Andoaldo (ivi).
  5. ...                    Aldemario (ivi).
  6. ...                    Pandolfo (ivi).
  7. Anno 1042. Aldemario detto Benello figlio di Aldemario (ivi p. 79) (v. Fascic. Archiv. Cattedr.).

 

 

CAPITOLO SETTIMO

Dominazione Normanna

 

La Dominazione Longobarda già in parte abbattuta dai Franchi, i quali con a capo Carlo Magno, e poi suo Figliuolo Pipino aveva costituito, d’accordo col Papa, il Regno Italico e l’impero d’Occidente, scomparve quasi completamente o fu assorbita dalla nuova dominazione Normanna.

Erano questi, popoli Germanici, entrati in Francia verso il nono o decimo secolo che pirateggiando occuparono la regione di Ruen, chiamandola Normandia. Dapprima erano idolatri, ma poi, sull’esempio del loro Capo Rollone, si convertirono alla fede cattolica.

Veri soldati di ventura, emigrarono in Italia, ove combatterono a favore dei Pugliesi, contro i Greci, gli Arabi e gli stessi Longobardi. Più tardi, altri gruppi guidati dai Fratelli Altavilla, approdarono in Sicilia, di cui si resero ben presto padroni. Finalmente un terzo gruppo fu quello che si stabilì nella Campania, di cui, a poco a poco, divennero Signori. Questo terzo gruppo fu guidato dai Fratelli Drengot.

Secondo alcuni, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, essi approdarono a Salerno, ove trovato che il Duca Guaimaro era assediato dai Greci e Saraceni, come ferventi Cristiani, presero le parti del Duca e seppero menare si bene le mani contro quei barbari infedeli, da farne un aspro macello. Ciò indusse Guaimaro a farli restare, anzi a chiamarne degli altri, dando al loro Capo Rainulfo Drengot licenza di fabbricarsi una nuova città sulle rovine di Atella, che chiamarono Aversa, perché stava di rincontro tra Napoli e Capua.

Leone Ostiense invece, riportato dal Giorgi, riferisce un’altra opinione o leggenda sulla venuta dei Drengot nella Campania. Racconta egli, dunque, che avendo Gisilberto, capostipite della Casa Drengot, ucciso nella sua Patria un tale Guglielmo Repostello, fu da Rollone, duca di Normandia, mandato in esilio. Onde egli tolti con sé i fratelli Rainulfo, Asclittino, Osmondo e Ridolfo, tutti prodi nelle armi, se ne venne in Italia, nell’anno 1018. Qui, o combattendo al soldo dei Signori che li chiamavano in loro aiuto, o combattendo di propria iniziativa, divennero padroni di molte terre, di cui si intitolarono Conti o Principi.

 

 

CAPITOLO OTTAVO

Il Feudalesimo e la Formazione del Regno Normanno

 

I Longobardi dapprima e poi i Franchi, per premiare i loro migliori uomini d’arme, o altri che li avevano aiutati nelle guerre, ed anche per assicurarsi nell’avvenire la loro fedeltà e un certo contributo di militi e di danaro, concessero loro il dominio di certe terre che appartenevano allo Stato. Queste terre presero il nome di Castelli, di Contadi, di Feudi, di Contee, e furono classificate dal numero dei Militi e dalle once di oro che dovevano dare al Duca o Principe, che le aveva concesse.

I Signori che le comandavano presero i titoli di Baroni, di Conti, di Marchesi, di Gastaldi e furono in generale i rappresentanti e i continuatori della tirannia dei loro Padroni sui miseri vassalli. Annidati nei loro castelli e circondati dai loro bravi, si permettevano impunemente ogni nefandezza.

Era questo il Feudalesimo, che, per le gelosie dei diversi principi e Feudatarii, manteneva in quell’epoca la nostra misera Italia in continue guerre.

Questo stato di cose fu per i Normanni un’occasione propizia per mettere a prova e far fruttificare la loro attività ed abilità nelle armi.

Nel 1040 sconfissero e scacciarono gli Arabi dalla Sicilia. Nel marzo del 1041 batterono i Greci sotto Melfi, nel maggio a Montemaggiore, sull’Ofanto, e nel settembre a Montepeloso.

Terminata così la dominazione Bizantina in Italia, i Normanni divisero le loro terre in 12 grandi Contee, affidate a 12 Capitani dell’esercito, i quali scelsero come centro del nuovo Stato Melfi, formando così come una specie di Repubblica militare.

 

Occupazione di Benevento - Fra le altre terre dell’Italia Meridionale, i Normanni occuparono anche Benevento, ma siccome questa Città era stata ceduta dall’Imperatore Enrico II alla Santa Sede, in luogo di Bamberga, ceduta in Germania all’Impero, il Papa Leone IX venne a Benevento con grande esercito, per discacciare i Normanni; ma a Dragonara in Puglia, venne sconfitto e fatto prigioniero. I Normanni però non abusarono della vittoria, ma, spaventati anche dalla paura della scomunica, implorarono dal Papa pace e perdono.

Mentre i dominii dei Normanni si andavano estendendo in tutta l’Italia Meridionale, Rainulfo I Drengot, succeduto a suo fratello Gisilberto, si era stabilito in Aversa che aveva coi suoi fondata tra Napoli e Capua, per concessione del Duca di Salerno, di Sergio, Duca di Napoli e di Pandolfo di S. Agata a cui aveva prestato aiuto, assumendone nel 1028 il titolo di Conte.

Il Duca Sergio di Napoli, per meglio consolidare l’amicizia con Rainulfo I, gli dié in moglie una sua Sorella, ed Enrico IV della casa di Franconia, sceso in Italia, gli riconobbe il titolo di Conte di Aversa e di altre terre che quegli aveva conquistate.

A Rainulfo I successe nel 1053 il fratello Asclittino e poi il figlio di questo Riccardo, che prese parte all’assedio di Salerno al tempo di Gregorio VII, dal quale fu perciò scomunicato. Da Salerno egli passò ad assediare Napoli, ove, secondo una tradizione, gli apparve S. Gennaro dall’alto delle mura, imponendogli di desistere dalle ostilità, ma, continuando egli ad assediare la Città, si ammalò e morì dopo essersi riconciliato con la Chiesa (Vedi Pietro Diacono, presso Giorgi Cap. II p. 34).

A Riccardo successe il figlio Giordano, che tolse l’assedio a Napoli divenendo amico del Papa; indi espugnata Capua e Teano si proclamò Principe di Capua.

 

 

CAPITOLO NONO

Serie dei Conti di Alife dall’anno 1065 al 1805

 

I. Dinastia Drengot. 1065-1139 - L’espugnazione di Capua, iniziata da Riccardo, con l’aiuto del fratello Rainulfo secondogenito di Asclittino, e compiuta dal figlio Giordano nel 1062, contro Pandolfo V e poi contro il figlio di questi Landolfo, principi Longobardi, portò in loro dominio numerose altre terre dipendenti dal Principato di Capua e fra queste fu la Contea di Alife. Che la Contea di Alife dipendesse dal Principe di Capua, si rileva dal fatto che nel 984, volendo Bernardo Conte di Alife bruciare il Castello della Corvara, appartenente a Montecassino, l’Abate Aligerao ricorse a Landolfo Principe di Capua, il quale vi pose la pena di 1000 soldi di oro puro di Bisanzio, contro di quelli che avessero solo attentato di invadere la Corvara. (Manosc. Estratto da Montecass. Archiv. Capit. I).

Nella divisione dei nuovi dominii avvenuta nel 1065, Giordano, come discendente dal ramo principale, si disse Principe di Capua e lo zio Rainulfo II rimase Conte di Aversa a cui aggiunse la Contea di Alife. (Giorgi Lib. II p. 31).

Da Rainulfo II nacque Roberto, che successe al padre; questi nel 1096 restituì al Monastero di S. Maria in Cingla i beni di cui si erano appropriati i Normanni. (Trut. Diss. 29).

A Roberto, nel 1105, successe il figlio Rainulfo III che sposò Metilde sorella di Ruggiero Duca di Sicilia. Ora avvenne che alla morte di Papa Onorio II (1130) dovendosi eleggere il nuovo Papa, 16 Cardinali elessero Innocenzo II e dopo poche ore, altri 20, raggirati dai Pierleoni, che volevano per forza un Papa della loro famiglia, crearono antipapa il Cardinale Pietro di Leone, che si chiamò Anacleto II. Questi trovò appoggio in Roma e trasse dalla sua parte anche Ruggiero di Sicilia, che nominò Re, con Bolla del 1130, speditagli a Benevento e incoronandolo poi a Palermo, per mano del suo Legato Card. Conti. Per sostenere le parti dell’antipapa Anacleto, Ruggiero pregò Rainulfo III suo cognato e il Principe Roberto di Capua a portarsi a Roma con le loro genti.

 

Rainulfo ottiene per Alife il Corpo di S. Sisto P. e Martire - Su fu durante la sua dimora in Roma, che il Conte Rainulfo approfittando della protezione di Anacleto, domandò ed ottenne il Corpo di S. Sisto Papa e Martire affinché liberasse dalla peste, che spesso la travagliava, la sua città di Alife, ove infatti lo portò nel 1132 dichiarandolo Protettore della Città.

Gli alatrini, che venerano anche essi S. Sisto come loro Protettore, anno inventata la curiosa leggenda, che passando il Conte Rainulfo per la loro città di Alatri, la mula, che portava il Sacro deposito, non volle andare più oltre e perciò il Corpo di S. Sisto rimase a loro, proclamandolo Protettore della città. Ma questo racconto apparisce incredibile ed anche ridicolo, se si rifletta: 1 alla facilità con cui, nell’ipotesi alatrina, si sarebbe potuto rimpiazzare la mula capricciosa con altra più volenterosa e docile; 2 al fatto che Rainulfo proseguì il suo viaggio per Alife, ove fu accolto trionfalmente e d’allora in poi è stato sempre venerato S. Sisto come Protettore della Città e dell’intera Diocesi Alifana. Se Rainulfo avesse lasciato in Alatri il Corpo di S. Sisto, o se per mera liberalità degli alatrini, avesse portato soltanto un dito del Santo Martire, a che scopo si sarebbe fatta tanta festa? Non sarebbe egli piuttosto ritornato a Roma per ottenere qualche altro Corpo di martire? Del resto la lunga e costante tradizione del popolo Alifano, la sacra Liturgia consacrata nell’Ufficio della Festa di S. Sisto ed il fortunato ritrovamento delle sue sacre ossa sotto la cripta della cattedrale, avvenuto per opera di Monsignor Porfirio nel giorno 8 Aprile, mercoledì Santo, del 1716, escludono qualsiasi dubbio su tale argomento.

Mentre Rainulfo si trovava in Roma, Ruggiero con nera perfidia occupò la città di Avellino e la Terra di Mercogliano ove era Riccardo, fratello di Rainulfo, a cui fece cavare gli occhi e tagliare il naso; indi condusse seco in Sicilia sua sorella Metilde e moglie di Rainulfo col figliuoletto Roberto, sotto il pretesto che ella fosse stata maltrattata del marito.

Tornato Rainulfo da Roma, restò grandemente irritato per la gesta del cognato Ruggiero, e dopo avergli chiesto invano la restituzione dei territorii occupati, nonché della moglie e del figlio, unitosi a Sergio Duca di Napoli ed a Roberto di Capua, assalì le sue forze armate, presso Montesarchio in quel di Benevento, con cui Ruggiero erasi alleato, e gl’inflisse la prima sconfitta, facendo prigioniero Ruggiero figlio del Conte di Ariano. Fremendo di sdegno Ruggiero andò a porre l’assedio alla Città di Nocera, appartenente a Roberto di Capua, tagliando perfino il ponte sul fiume Sarno per impedire ai nemici di potervi accorrere.

Ciò non ostante vi accorsero immantinente Roberto e Rainulfo con quarantamila fanti e duemila e cinquecento cavalli, e riparato subito il ponte sul Sarno, misero in piena rotta le genti di Ruggiero liberando Nocera, il dì 24 luglio 1132. Ruggieo non si smarrì, e tornato in Sicilia, ammassò un altro formidabile esercito e tornò alla riscossa.

Intanto Rainulfo e Roberto, trovandosi esausti di forze, si rivolsero dapprima al Papa Innocenzo II, di cui riconobbero l’autorità, e poi a Lotario II, che allora trovavasi a Roma; ma riusciti vani questi tentativi, Roberto andò a chiedere aiuto a Pisa, mentre Rainulfo rimase solo contro il cognato Ruggiero. Vedendo di non poterlo affrontare colle armi, si rappacificò con lui, promettendogli fedeltà ed ottenendone in cambio le terre, la moglie e il figlio.

Tornò Roberto con mille Pisani, ma vedendo che non erano sufficienti all’impresa li licenziò. Sennonché nel 1135 essendosi sparsa la notizia che Ruggiero fosse morto, rinacque in Roberto e poi anche in Rainulfo la speranza di una rivincita. Roberto ritornò a Pisa e ne ottenne 20 navi cariche di armi e di armati, che condusse a Napoli, mentre Sergio e Rainulfo raccoglievano genti nelle loro terre. Ma ecco, con loro grande sorpresa, che il 15 di giugno Ruggiero, che credevano morto, sbarcò a Salerno con numerose genti, e senza indugio corse ad Aversa, città di Rainulfo, ed ardendo di sdegno la diede alle fiamme.

Gli Alifani, temendo la stessa sorte, si arresero senza resistenza al Cancelliere Guarino, capitano di Ruggiero, e lo stesso fecero Cajazzo e Raviscanina.

Rainulfo fu costretto a fuggire, mentre Ruggieo entrava trionfalmente in Alife, tornandosene poi vincitore in Sicilia.

Non potendo più da soli far fronte a Ruggiero, Roberto e Rainulfo ricorsero nuovamente a Pisa. Vi andò soltanto Roberto e trovando colà anche il Papa Innocenzo II, ugualmente irritato per le rappresaglie di Ruggiero sulle terre della Chiesa, lo supplicò di volersi unire a loro per frenare la prepotenza del tiranno. Il Papa acconsentì di intervenire colle sue forze, ma per agire con maggiore sicurezza di riuscita, consigliò Roberto di proseguire per la Germania, onde persuadere l’Imperatore Lotario a scendere egli pure in Italia per partecipare all’impresa. Il Papa mandò anche, come suo rappresentante, il Cardinale Gerardo, il quale, unito a Roberto, andarono in Germania e riuscirono a piegare Lotario al loro consiglio.

In breve, concentrate in Roma tutte le forze, Lotario col suo esercito prese la via degli Abbruzzi, dove incontrò Rainulfo ed insieme con lui occupò tutte le terre tolte a costui da Ruggiero.

Il Papa intanto, colle sue genti, s’avviò verso la Campania, e toccando Montecassino, riprese Capua ed Avellino, restituendo la prima a Roberto, la seconda a Rainulfo. Passò poi a sottomettere Benevento, ed inoltrandosi ancora, s’impadronì delle Puglie di cui, d’accordo con Lotario, creò duca Rainulfo. (Ciarlante lib. IV. c. 1-2-3 e seg.).

Pacificate le cose, il Papa tornò a Roma e Lotario in Germania.

Non appena però Ruggiero conobbe che il Papa e l’Imperatore avevano abbandonata la Campania, riarse di nuovo sdegno contro Roberto e Rainulfo, specialmente per l’investitura di quest’ultimo a Duca delle Puglie. Per iscongiurare il pericolo d’un nuovo intervento del Papa e dell’Imperatore, spedì loro ambasciatori per chiedere pace e perdono, insieme all’investitura dei suoi dominii, e specialmente delle terre occupate nel patrimonio ecclesiastico. Raggiunto l’intento ed ottenuta la fiducia del Papa, mise in armi un formidabile esercito, formato di gente infame, barbara e selvaggia e colla rapidità del fulmine piombò sulle terre di Puglia, di cui era Duca Rainulfo e le mise tutte a sacco e fuoco, facendo lo stesso delle terre appartenenti agli altri Baroni seguaci di Rainulfo. Inoltrandosi poi per la chiusa di Ariano, si diresse verso Telese, che rovinò dalle fondamenta, ed infine, schivando l’incontro di Rainulfo, piombò sopra Alife che abbandonò al furore della sua soldatesca e, dopo averla derubata e spogliata, dopo aver fatto subire ai cittadini tutte le umiliazioni e tormenti, la diede alle fiamme.

Così sparirono nella cenere tutti i monumenti e tutte le glorie di Alife, mentre i pochi abitanti superstiti si rifugiarono nella vicina Piedimonte.

Parlando di questa terribile devastazione Guibaldo Abate Cassinese così si esprime, in una lettera all’Imperatore Lotario: “Ruggiero e i suoi soldati hanno costretto, coi più crudeli tormenti, gli uomini di ogni età, sesso e condizione a consegnare il danaro e tutti i loro averi. Testimoni della verità delle mie asserzioni sono le città di Pozzuoli, Alife e Telese, delle quali può dirsi che non sono più, e se di qualcuna rimanevano in piedi dei ruderi, sono stati rasi al suolo, come è avvenuto di Capua; imperocché dopo aver rubato gli averi ed uccisi gli abitanti, sono state date alle fiamme”. (Ciarl. vol. 4 c. 4).

Questa vittoria a nulla sarebbe valsa a Ruggiero se il Conte Rainulfo non fosse stato colpito da fiero morbo e poi dalla morte nella città di Troia, il 30 di Aprile del 1139, mentre stava organizzando la controffensiva per dare al barbaro cognato la lezione che meritava.

Liberato dal suo capitale nemico, Ruggiero occupò tutti i dominii della Casa dei Drengot e giunto a Troia volle fare l’ultimo insulto alla memoria del valoroso Rainulfo, imperocché, fattone disseppellire il cadavere, lo fé trascinare per tutte le strade della città. (Ciarl. v. 4 c. 5).

Fu Rainulfo valoroso in guerra, profondamente religioso, devotissimo alla Santa Sede, considerato perciò da Innocenzo II come il suo principale difensore. Fu anche amicissimo di S. Bernardo di Chiaravalle, il quale, quando fu mandato dal Papa a trattare con Ruggiero II per indurlo a più miti consigli, senza però riuscirvi, trovò invece in Rainulfo un principe docile e divoto, ed in questa occasione molto probabilmente venne anche e dimorò in Alife.

 

Terremoto del 1125 - Durante la dominazione di Rainulfo e propriamente la notte dell’undici ottobre 1125 Alife col Sannio tutto, fu sconvolto da terribile terremoto, che distrusse molti paesi e città compresa la stessa Roma. (Ciarl. v. 3 c. 38).

 

II. Dominazione di Ruggiero e di Andrea Drengot di Rupecanina (1139-78) - Dopo la morte di Rainulfo II, re Ruggiero, aiutato specialmente dal suo figlio naturale Ruggiero, che nominò Duca delle Puglie e delle altre terre appartenute a Rainulfo, in breve ne divenne padrone e dopo essersi umiliato e sottomesso al Papa Innocenzo II ne ottenne anche da lui conferma e beneplacito. (Ciarl. v. 4 c. 5-7).

Morto Ruggiero e succedutogli nel regno il figlio Guglielmo detto il Malo, nel 1154, questi si ribellò al Papa ed a capo dei suoi soldati andò ad espugnare Benevento, appartenente alla Chiesa, senza però potervi riuscire, per la valorosa resistenza dei Beneventani, i quali uccisero perfino Pietro loro arcivescovo, perché amico di Guglielmo. Non contento di ciò, quantunque abbandonato da molti dei suoi Baroni, andò a devastare la campagna Romana, ed al ritorno abbatté le mura di Aquino, Pontecorvo ed altri Castelli di Montecassino, donde scacciò quasi tutti i monaci. Per tutti questi fatti, nel 1155, il Papa lo scomunicò solennemente e con un forte esercito entrò nel regno, dove era chiamato da molti Baroni perseguitati da Guglielmo, tra cui Roberto Drengot, che già aveva rioccupato il principato di Capua, ed Andrea di Raviscanina il Contado di Alife, e dove erano attesi anche i Greci, mandati dall’Imperatore contro Guglielmo. Questi, atterrito, pensò di riconciliarsi col Papa, il quale mostravasi a ciò condiscendente, ma l’opposizione di alcuni Cardinali, partigiani dell’Imperatore Greco, impedì l’accordo. Allora Guglielmo andò ad assediare Brindisi, ove vinse i Greci e buona parte dei Baroni delle Puglie. Di là si portò ad assediare Brindisi, dove era il Papa cogli altri Baroni, ed in breve la costrinse alla resa. Dopo molti contrasti, nel 1156, Guglielmo conchiuse la pace col Papa, ma non coi Baroni perciò dovettero fuggire e cercare scampo fuori i confini del regno. Andrea di Raviscanina tornò a rioccupare Alife nel 1160, combattendo contro Aquino di Moac, valoroso capitano di Guglielmo, mandato a difendere quel dominio. Guidati dal Conte di Loretello, i Baroni giunsero ad occupare perfino le Puglie e la Calabria ma ritornato il re dalla Sicilia, non poterono resistergli e si salvarono colla fuga. (Ciarl. ivi). Guglielmo morì nel 1166 e gli successe il figlio Guglielmo il Buono, fanciullo di 12 anni, per cui prese la Reggenza la Regina Margherita sua madre, che per amore della pace perdonò a molti Baroni ribelli, che poterono perciò tornare nei loro dominii. (Ciarl. v c. 8).

Guglielmo fu un ottimo Principe, assai devoto del Papa Alessandro III. Rifiutò di sposare la figlia di Federico Barbarossa perché nemico del Papa e sposò Giovanna figlia del Re d’Inghilterra, dalla quale non avendo avuti figli, per consiglio del Papa, che si era riconciliato col Barbarossa, onde provvedere alla successione del troni di Sicilia, fece sposare la Zia Costanza, figlia postuma di Ruggiero, ad Enrico V figlio di Federico Barbarossa, col diritto di successione al trono.

 

III. Dinastia Gaetani. 1178-1194 - Nle 1178 Guglielmo il Buono diede la contea di Alife a Riccardo figlio di Filippo della nobilissima famiglia Gaetani, Signore di Fondi e di Traetto, il quale dominio gli fu commutato con Alife e colle Signorie di Alfedena, Cuccari, Ametrano, Fuscaldo, Sangro e Gicia, come risulta dal relativo diploma, che si conserva nell’archivio di Casa Gaetani in Napoli (v. Castelmola - Storia della Casa Gaetani p. 73).

Riccardo fu il primo Conte di Alife, della Famiglia Gaetani, la dominazione della quale in Alife non fu continuata, come vorrebbe far apparire il Castelmola, ma interrotta da altre Signorie, come rilevasi da quanto diremo in appresso. Egli la tene fino al 1194.

 

IV. Dinastia Schweisspeunt. 1194-1220 - Alla morte di Guglielmo il Buono, avvenuta nel 1189, due partiti si contrastarono il governo, l’uno favorevole a Tancredi, conte di Lecce, cugino del re defunto, l’altro fautore di Enrico VI e di Costanza. Prevalse il primo e Tancredi fu coronato re a Palermo nel gennaio del 1190. Ma Enrico VI, fatti grandi preparativi, coronato imperatore a Roma dal Papa Celestino III, aiutato dalla flotta di Pisa e di Genova, nel maggio del 1191 penetrò nel regno e giunse fino a Napoli, quasi senza colpo ferire; solo una fiera pestilenza lo costrinse ad abbandonare l’impresa. Poco dopo moriva il suo competitore Tancredi, lasciando il regno al figliuolo Guglielmo III, ancora bambino, sotto una debole Reggenza. Enrico tornò nel Regno nel giugno del 1194; Napoli gli aperse le porte, Palermo fu data alle fiamme e poi, passato il faro, andò ad occupare la Sicilia, ove commise orribili stragi, facendo perfino accecare ed imprigionare il piccolo Guglielmo III.

Il Governo di Enrico VI trovò molte opposizioni e creò molti malcontenti, specialmente per aver dato il dominio di molte terre a Signori tedeschi, come fece appunto per Alife, di cui, nella sua prima venuta in Italia, creò conte Diopoldo di Schweisspeunt.

Arrigo VI morì in Sicilia, nell’estate del 1196, nella florida età di 32 anni. Né la moglie Costanza gli sopravvisse di molto. Essa morendo nel 1198 raccomandò suo figlio Federico, ancora bambino, al Pontefice allora eletto Innocenzo III.

Durante la minore età di Federico II, il regno fu governato da ministri deboli ed interessati, i quali permisero financo di farlo occupare da n principe straniero, cioè Ottone di Brunswich, figlio del Duca di Baviera, il quale, messosi a capo della fazione dei Guelfi, riuscì a trarre dalla sua parte perfino il Papa, che lo coronò Imperatore. Ma poi, non volendo egli, mantenere le promesse fatte, il Papa lo scomunicò, facendo acclamare Imperatore il giovane Federico di Svevia, che coronò, dopo avergli fatto promettere di tenere la Sicilia come feudo della Chiesa e d’intraprendere al più presto una crociata contro gl’infedeli.

Però non tutti i Ministri e Signori beneficiati da Enrico VI, furono fedeli a Federico, specialmente durante al sua minore età. Fra questi fu appunto Diopoldo Schweisspeunt Conte di Alife, il quale cercò di favorire Mercoaldo d’Anveiler, gran Cancelliere dell’Impero, il quale cercava in tutti i modi di impadronirsi del regno. Tali disegni però riuscirono vani per l’ingrato Diopoldo, il quale, in un primo tentativo contro Montecassino, per invadere lo Stato Pontificio, fu vinto e fatto prigioniero da Guglielmo Sanseverino Conte di Caserta. Morto costui, venne liberato dall’omonimo successore, a cui Diopoldo diede in isposa, una sua figlia; ma ripresi i suoi tentativi d’invasione, fu scomunicato dal Papa, e sconfitto nel 1201, prima presso Capua da Gualtiero di Brienne, comandante dell’esercito pontificio, e nell’anno seguente in Puglia, ove fu fatto nuovamente prigioniero e chiuso nel castello di S. Agata. Fuggito, tornò in Terra di Lavoro, unendosi a Mercoaldo, ma rottosi anche con costui, lo assalì presso S. Germano.

Nel 1205 si scontrò nuovamente con Gualtiero di Brienne a Salerno, ove fu sconfitto; ma nel giugno dello stesso anno, riordinate le sue forze, sorprese e catturò a Sarno il Brienne, che morì di crepacuore. Allora il Papa si riconciliò con lui.

Nel 1207 fu per breve tempo in suo potere il piccolo Federico II e la custodia del palazzo reale di Palermo. Rimasto potente fin dopo la maggiore età di Federico, si diede completamente ad Ottone IV di Brunswich, che venne ad occupare il regno appartenente a Federico.

In cambio di Salerno e di tutti i Contadi e Castelli che possedeva nelle nostre provincie, gli fu dato nel 1210 da Ottone il Ducato di Spoleto. Ma Ottone IV, scomunicato dal Papa e sconfitto da Federico II e Filippo Augusto di Francia, dové abbandonare l’impresa.

Ristabilitasi l’autorità dell’Imperatore Federico, Diopoldo, legato sempre ai nemici di Casa di Svevia, tentò, nel 1216, rientrare nel regno, ma, riconosciuto a Roma, fu tratto in prigione. Liberatosi per danaro, come afferma lo Scandone, varcò il confine l’anno seguente, per riaccendere la guerra civile. Ma nel 1219 venne arrestato da Giacomo Sanseverino, conte di Avellino, e rimase in carcere fino al principio del 1221, quando Federico II, rientrato nel regno, si fece restituire la Città di Alife e di Caiazzo, occupate da Siegfrid fratello di Diopoldo.

Pietro di Celano. Negli anni di dominazione sulla città di Alife attribuiti a Diopoldo, vi è inframezzata la dominazione del Conte Pietro di Celano, il quale nel 1205 venne in possesso di Alife ed occupò la rocca, ma come udì la rovina e la morte del Conte di Gualtieri, lasciata libera la rocca e posto fuoco alla terra, di là s partì.

Pietro Gaetani. Al Conte di Celano successe il Conte Pietro Gaetani, come risulta da una lettera di Federico II ad Enrico Gaetani, nella quale lo chiama Milite diletto fratello di Pietro Gaetani Conte di Alife: “Miles dilectus frater Petri Gaetani Comitis Alifae”.

Osservazione. Si rileva che nel 1221, Alife, Caiazzo e Piedimonte si trovano ancora occupate da Siegfrid fratello di Diopoldo, mentre nel 1210 costui aveva già ceduti i suoi castelli ad Ottone IV per il ducato di Spoleto e che lo stesso Ottone IV si ritirò nel 1214, dopo la sconfitta subita. A spiegare questa contemporaneità di conti in Alife, si deve supporre che Ottone lasciò in Alife dei presidii sotto il comando di Siegfrid, che vi rimase tollerato, anche nei primi tempi di Federico. (Marrocco - Memorie Stor. di Pied.).

 

V. Dinastia della Casa d’Aquino. (1221-1269) - Devoluta allo stato la contea di Acerra con tutte le sue dipendenze, cioè Alife ed altre terre, per la cessione che ne aveva fatta Diopoldo ad Ottone IV e rimasta in potere di Federico II fin dal 1220, questi la concesse a Tommao I di Aquino che coprì anche la carica di Giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro.

Egli seguì Federico II nella crociata in Terra Santa (1227-29) ed al ritorno, come dice Riccardo di S. Germano, lo troviamo in difesa dell’Imperatore contro l’esercito del Papa Gregorio IX, che si era messo a capo dei comuni Guelfi del settentrione d’Italia e che Federico voleva sottomettere all’impero. Per questa opposizione, Tommaso I di Aquino fu assalito, nel 1229, da Pelagio capitano pontificio, che gli tolse il dominio di Alife ed Ailano; ma sopraggiunta la notizia che Federico era ritornato in Puglia, l’esercito papale, intimorito, cominciò a sbandarsi.

L’imperatore, toccando Capua, Riardo e Calvi, giunse al monastero di S. Maria della Ferrara (presso Vairano) ove si trattenne tre giorni (settembre 1229), indi riconquistò Presenzano, Rocca d’Evandro, Isernia, Alife etc. costringendo il Cardinale Pelagio a rifugiarsi a Montecassino coi vescovi di Alife ed Aquino.

A Tommaso I d’Aquino, morto il 27 febbraio 1251, successo l’omonimo nipote Tommaso II, il quale, al dire dello Scandone, sposò Margherita, figlia naturale di Federico, divenendo così cognato dei re Corrado e Manfredi, ambedue figli e successori di Federico sul trono di Sicilia.

A Tommaso II, prima ancora che morisse, successe il suo congiunto Federico, di cui si hanno scarse notizie; sappiamo soltanto che egli fu spogliato dei suoi domini da Carlo d’Angiò nel 1269.

 

VI. Dinastia della Casa di Fiandra. (1269-1301) - A Federico II successe sul trono il figlio Corrado IV, il quale regnò appena quattro anni, senza riuscire a far riconoscere la propria autorità. Alla sua morte il governo di Sicilia, fu assunto da un altro figlio di Federico II, Manfredi, il quale riuscì invece molto abilmente a reprimere ogni ribellione e a far valere la propria autorità, poté anzi aiutare la riorganizzazione delle forze ghibelline anche nel resto d’Italia e dare appoggio a quelle di Toscana, che nel 1260 riuscirono infatti a vincere a Montaperti le forze dei Guelfi, capitanate da Firenze. Questi successi di Manfredi impaurirono il Papa, il quale strinse perciò accordo con Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, invitandolo ad invadere il regno di Sicilia e ad abbattere Manfredi, promettendogli il dominio di quel regno, purché lo tenesse come feudo delle Chiesa.

A Carlo d’Angiò arrise la fortuna in quest’impresa. Vincitore nella battaglia di Benevento, dove Manfredi morì (1266), egli s’impossessò del regno; e due anni dopo respinse a Tagliacozzo un esercito ghibellino, che tentò di riprendere lo stato, sotto la condotta del giovane figlio di Corrado IV, Corradino, il quale, fatto prigioniero, fu mandato a morte.

Sennonché la potenza Angioina in Sicilia finiva tragicamente colla sanguinosa rivolta dei Vespri (1282), mentre era proclamato re di Sicilia Pietro d’Aragona, genero di Manfredi. Questi mutamenti portarono numerose innovazioni anche nelle signorie dei feudi.

I Conti di Alife di Casa d’Aquino, come seguaci e parenti degli Svevi, furono considerati come nemici del nuovo regime, e perciò furono spogliati di tutti i loro dominii, che vennero conferiti ad altri di origine od amici dei Francesi. Ciò accadde anche in Alife.

In luogo di Federico d’Aquino, Carlo I d’Angiò (come rilevasi dal Catalogo Angioino dell’anno 1269 foglio 9) nominò conte di Alife Filippo di Fiandra, figlio primogenito di Baldovino, che fu imperatore di Costantinopoli, quando al tempo della quarta crociata fu costituito l’impero latino d’Oriente. E nel detto catalogo angioino è specificato anche il fine di tale concessione, e affinché, si dice, ivi, cioè in Alife, possa dimorare la sua famiglia, mentre egli sarà al servizio della Corte reale. Filippo e i suoi eredi tennero la Contea di Alife fino all’anno 1301.

 

VII. Dinastia d’Avella. (1301-1307) - Nel 1301 la contea d’Alife fu conceduta dal re Carlo II, succeduto al Padre Carlo I nel 1285, a Rinaldo d’Avella, grande Ammirante del regno, che la tenne per soli sette anni, cioè fino al 1307.

 

VIII. Dinastia Janvilla. (1307-1345) - La rivoluzione dei Vespri Siciliani si trasformò in guerra tra Angioini ed Aragonesi, che durò fino al 1302, specialmente per opera di un barone calabrese, di nome Ruggero Loria. Finalmente col trattato di Caltabelootta fu conchiusa la pace, a condizione che Carlo II d’Angiò conservasse il titolo di re di Sicilia, e Federico III d’Aragona, sua vita durante, portasse il nome di re di Trinacria. In realtà i due regni rimasero divisi ed ostili. Carlo II, mentre attendeva a riparare le rovine della guerra e cominciava ad ingrandire ed abbellire Napoli, morì nel 1309, lasciando parecchi figliuoli nati dalla moglie Maria, figlia del re d’Ungheria Stefano V. Il primogenito Carlo Martello era stato chiamato al trono d’Ungheria e, lui morto, eragli succeduto in quel lontano regno il figlio Carlo Roberto. Il secondo fu Vescovo di Tolosa ed era morto fina dal 1297. Pertanto fu designato al regno di Napoli il terzogenito Roberto, che rialzò in Italia la bandiera Guelfa, sostenuta per molti anni con varia fortuna. Tra gli altri figli importa ricordare, per gli avvenimenti che seguirono, Filippo, stipite del ramo dei principi di Taranto e Giovanni stipi del ramo dei Durazzo.

Intanto qui notiamo, come tra quel tramestio delle guerre civili fra gli Angioini, Aragonesi e Durazzeschi, i feudi spesso venivano dati, tolti e ridati secondo l’ambiente delle passioni cozzanti e dei tradimenti e fellonie consumate.

Nell’anno 1307 la contea di Alife fu data alla casa Janvilla, che la tenne fino al 1345 nel seguente ordine:

  1. Giovanni;
  2. Goffredo, il quale la tenne insieme a Venafro. Costui combattendo per Carlo II d’Angiò, nelle vicinanze di Brindisi, contro Ruggiero dell’Oria, ammiraglio di Federico re di Sicilia, dopo aver ferito l’avversario cadde travolto dal proprio cavallo, per cui fu fatto prigioniero e poco dopo morì;
  3. Ruggiero, figlio di Goffredo, che tenne Alife insieme a Rocca S. Agata, Zuncolo e S. Angelo dei Lombardi. Nel 1326 accompagnò a Firenze Carlo duca di Calabria. (Ciarl. vol. 4 c. 26).

 

IX. Dinastia Marzano. (1345-1404) - Alla Casa Janvilla successe nel 1345 la casa Marzano, che erano anche duchi di Sessa Aurunca e di molte altre terre.

I Marzano ebbero la contea di Alife dalla Regina Giovanna I, nipote del re Roberto, a cui restò il regno di Napoli, per la prematura morte di Carlo suo padre. Fu Giovanna donna scandalosa, sposò quattro mariti e cioè:

  1. Andrea fratello del re d’Ungheria, che fu proditoriamente assassinato in Aversa, alla vigilia della sua incoronazione, e si crede che ciò sia avvenuto per mandato di Giovanna stessa;
  2. il secondo fu Lodovico di Taranto, suo cugino;
  3. il terzo Giovanni d’Aragona;
  4. ed il quarto Ottone di Brunswich.

Non avendo avuta prole, disegnò di chiamare alla successione del trono Margherita, figlia di sua sorella Maria, che maritò col cugino germano Carlo di Durazzo, che avrebbe anche ereditata la corona d’Ungheria. Pentita di tale adozione, la revocò, chiamando a succederle Luigi d’Angiò, fratello di Carlo V, re di Francia.

Carlo di Durazzo, per tale ripudio, invase colle armi, nel 1381, il regno di Napoli e fatta prigioniera la regina la fece strozzare in carcere (12 Maggio 1382).

Con la morte di Giovanna I si spense il ramo diretto degli Angioini, nel regno di Napoli, e cominciò la signoria del ramo collaterale di Durazzo. Contro Carlo III di Durazzo sorse competitore Luigi I d’Angiò; ma morto presso Bari, nel 1384, il regno rimase, senza contrasti, a Carlo. Sennonché partito questi per l’Ungheria, chiamatovi da un partito che l’aveva acclamato re, vi fu ucciso a tradimento nel 1386..

La vedova di Carlo, Margherita, assunse la reggenza del regno di Napoli in nome del figlio, ancora minorenne, di nome Ladislao. Gli avversari riconobbero a re il giovanetto Luigi II d’Angiò, e provocarono la guerra civile. Nella lotta prevalse Ladislao, che riuscì a scacciare gli Angioini. Ambiziosissimo, giunse perfino ad occupare Roma, minacciando la Toscana, ma lo colse la morte prematuramente, nel 1414.

Fu dunque durante tutti questi avvenimenti politici, che la casa Marzano tenne la contea di Alife nell’ordine seguente:

  1. Goffredo (Summonte v. 3 p. 450);
  2. Tommaso figlio di Goffredo (ivi p. 472);
  3. Goffredo figlio di Tommaso, che fu anche gran Camerlengo del regno (Ciarl. v. 4 c. 30);
  4. Goffredo figlio del fratello Roberto, essendo il precedente Goffredo morto senza prole (Ciarl. ivi). Questi fu pure, come lo zio, gran camerlengo. A lui e ad altri due Signori del regno diede Ladislao facoltà di perdonare a tutti i ribelli ed aggiunse al suo feudo Teano e Carinola. (1400 ivi).

Siccome però Luigi d’Angiò, per allargare e consolidare il suo partito nel regno, chiese di sposare Maria figlia di Giacomo, duca di Sessa e fratello di Goffredo, conte di Alife, e quegli per diventare padre di regina, gliela promise, Ladislao, nemico di Luigi, si adirò contro il duca di Sessa, il quale pentito, rifiutò il matrimonio e coi buoni offici del Papa Bonifacio IX, si riconciliò con Ladislao.

Morto Giacomo, duca di Sessa, Goffredo conte di Alife, prese la tutela del ducato e della famiglia del fratello, per cui, temendo di essere assalito dal re, fortificò Sessa, Teano ed altre terre. Ladislao per vendicarsi di questa tacita ribellione, si servì del seguente tranello. Avendo un figlio naturale, di nome Rinaldo, a cui conferì il titolo di principe di Capua, scrisse al conte chiedendo per Rinaldo l’unica sua figlia.

Il Conte accondiscese, e il re gli mandò Rinaldo, affinché lo educasse insieme colla fanciulla. Fissata la celebrazione delle nozze in Capua, vi intervennero tutti i Marzano. Ma la festa si cambiò in tragedia, perché il re li fé tutti arrestare e chiudere in Castel dell’Uovo a Napoli. (Anno 1404 - Ciarl. 4 c. 30).

 

Terremoto - Nel 1349 Alife e tutto il Sannio fu devastato da terribile terremoto, che al dire di S. Antonino spaccò perfino le montagne e rese molte acque colore di sangue. (Ciarl. 4 c. 28).

 

X. Dinastia Stendardo. (1404-1407) - Avendo il re Ladislao esautorizzata la casa Marzano, volle premiare quelli che l’avevano servito con fedeltà e perciò diede la Contea di Alife a Giannotto Stendardo, gli antenati del quale, di nobilissimo sangue, occuparono le cariche più importanti del regno. (Summonte 2 p. 535). A Giannotto successe Giovannella sua figlia, che la portò in dote a Marino Boffa, suo marito e gran cancelliere del regno. (Ciarl. 4 c. 31).

 

XI. Dinastia Origlia. (1407-1419) - Per sostenere le enormi spese per l’impresa contro Roma e la Toscana, re Ladislao vendé molte terre e Feudi ai maggiori offerenti, anche se ribelli. In questo tempo troviamo Conte di Alife Gorello Origlia, gran Protonotario del Regno, che possedeva circa ottanta, fra Terre e Castelli, con sette titoli di Conte cioè: Caiazzo, Acerra, Borgensa, Corigliano, Alvito, Lauria ed Alife. Queste contee le distribuì tra i suoi figli e congiunti, dando quella di Alife al figlio Giovanni. (Summ. v. 2 l. 4.552).

Intanto a Re Ladislao, morto senza prole, nel 1414 era succeduta nel regno la sorella Giovanna II, donna spregevole per i corrotti costumi, per la disordinata amministrazione e per volubilità di carattere, che diede occasione al rinnovarsi della guerra civile. Ora disapprovando la Famiglia Origlia la condotta scorretta della Regina, questa si vendicò, con privarli dei loro dominii, i quali, insieme ad Alife, furono dati alla Casa Marzano.

 

XII. Ritorno della Dinastia Marzano. (1419-1459) - Dopo la morte della Regina Giovanna II, avvenuta il 2 febbraio 1453, vi furono due pretendenti al trono, Renato d’Angiò, designato da Giovanna per suo Successore, ed Alfonso d’Aragona re di Sicilia, prima adottato e poi ripudiato dalla medesima. I Napoletani preferirono Renato, per cui mandarono a chiamarlo in Francia; ma siccome si trovava prigioniero del Duca di Borgogna, mandò la moglie Isabella. In difesa di Isabella vi era già il Generale Caldora, ma ella non fu paga e chiese aiuto al Papa Eugenio IV, che mandò il Cardinale Giovanni Vitelleschi, detto il Patriarca, il quale con forte esercito entrò nel regno, si impadronì di Vairano, Venafro, Presenzano, Alife e Piedimonte, e poi, insieme col Caldora, vinse il Principe di Montesarchio e si avviò per affrontare Alfonso, che veniva alla conquista del regno. Ma vinto da Alfonso d’Aragona ripassò per Alife e tornossene a Roma.

In questa lotta per la successione al trono di Napoli tra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, Antonio Marzano e tutti della sua Casa parteggiarono per Alfonso, il quale, rimasto padrone del Regno, volle premiare la loro fedeltà e servitù. Pertanto non solo diede in moglie a Marino, Principe di Rossano, figlio di Antonio, Duca di Sessa, a sua stessa figliuola Eleonora, ma lo arricchì anche di terre e di Castelli confermandogli il dominio della città di Sessa, col titolo di Duca di Teano e col titolo di Conte di Alife, S. Angelo, Raviscanina, Dragoni e di altre 22 Città e terre, nonché di tutti i beni che possedeva, per successione paterna e di Goffredo suo zio, Conte di Alife. Delle quali conferme e concessioni gli spedì amplissimo privilegio, a dì 20 Marzo 1443, che si riscontra in un processo del Sacro Consiglio, confermandogli nello stesso tempo la carica di Grande Ammirante. (Ciarl. v. 5 c. 6).

A far le veci di Antonio in questo frattempo troviamo in Alife Marco della Ratta, suo cugino, il quale vi rimase fino al 1459, quando i Marzano ne furono spogliati dal successore di Alfonso, Ferdinando I, contro di cui si erano schierati e per cui alife fu in seguito saccheggiata.

 

Terremoto - Durante questo temo, e propriamente a dì 5 dicembre 1456, alle ore 11 di notte avvenne un grande terremoto nel quale restò distrutto Alife e gran parte del Sannio. (Ciarl. v. 5 c. 7).

 

XIII. Ritorno della Dinastia Gaetani. (1459) - Morto Alfonso d’Aragona gli successe per Napoli il figlio naturale Ferdinando I, mentre il nipote Giovanni, figlio del re di Navarra, era nominato re di Sicilia. Contro Ferdinando si schierarono il principe di Taranto e il Duca di Sessa e Conte di Alife, con tutti i Marzano, i quali avendo invitato il re Ferdinando ad un abboccamento da tenersi a Capua, gli attentarono la vita, e si fu soltanto per la sua destrezza se egli ne uscì salvo. Per questo Ferdinando spogliò i Marzano di tutti i loro dominii, dando ad Onorato II Gaetani lo Stato di Alife, Dragoni, S. Angelo, Raviscanina, Telese, Crispano, Giugliano, Dragonara, S. Giorgio, Morcone, S. Marco dei Cavoti, ed altre terre. Onorato fu assai benvoluto dal re Ferdinando, il quale in segno di tale benevolenza gli accordò la facoltà di assumere il nome di Aragona e di inquartare nel proprio stemma l’arma Aragonese.

Nella congiura dei Baroni, il Gaetani rimase fedele al Re, e poiché il suo figlio Per Bernardino, Conte di Morcone, si era unito ai Baroni ribelli, Onorato lo diseredò chiamando nel 1487 a succedergli il figlio stesso di Pier Bernardino, che si chiamò Onorato III. Sempre per premiare la fedeltà di Onorato II, re Ferdinando diede in isposa ad Onorato III la propria figlia naturale, di nome Lucrezia.

 

XIV. Dinastia Diazcarlon. (1482-1561) - Tra i cavalieri che il re Alfonso condusse in Italia, uno dei più favoriti fu Pasquale Diazcarlon. Durante la vita lo ebbe come suo intimo consigliere, ed alla morte lo lasciò raccomandato a Ferdinando suo figlio, il quale nel 1482 gli donò il Contado di Alife, S. Angelo, Raviscanina, Dragoni e cinque altre terre; ed acciocché il di lui dominio divenisse ancora più vasto, diede in isposa al figlio Ferrante, Violante Grappina, Signora delle Buone terre dell’Oliveto e Pietrapertosa.

Diazcarlon fu uomo di grande fiducia del re. Negli atti reali egli appare il primo firmato dopo il Re. Morì nel 1518. Gli successe il figlio Antonio, il quale, per far creare cardinale Antonio Sanseverino, fratello di Alfonso duca di Somma, suo cognato, gli prestò trentamila ducati, ipotecandoli sulla proprietà paterna. Venuto egli a morte nel 1547, il suo primogenito Ferrante restò erede dei grandissimi debiti, per cui la Città di Alife, dalla regia Camera, fu messa in vendita, dietro richiesta ed istanza dei creditori; e fu acquistata da Cornelia Piccolomini, contessa di Alife, forse sua moglie. Sennonché seguendo egli Giovanni Caraffa, suo cognato, duca di Paliano, giunse all’estrema rovina. Ed ecco come si svolse la tragedia.

D. Giovanni Caraffa accusò la propria moglie, sorella di Ferrante Diazcarlon, di adulterio e dopo averne ucciso impunemente il complice, Marcello Capece, anche suo parente, voleva uccidere anche la moglie; ma essendo ella incinta, il Papa Paolo IV ordinò che si attendesse il parto. Nel frattempo morì il papa, e durante la sede vacante D. Giovanni, d’accordo col fratello, cardinale Carlo Caraffa, decise di sopprimere la moglie. Furono incaricati dell’esecuzione il fratello stesso della sventurata duchessa, cioè Ferrante Diazcarlon e Leonardo Cardine, loro parente. Dopo la creazione del nuovo Papa Pio IV, questi, conosciuto il delitto, ordinò che se ne facesse il processo, ed il 3 di Marzo 1561 furono tutti condannati a morte.

La notte seguente, giorno 4 di marzo, Ferrante Diazcarlon e Leonardo Cardine furono decapitati in Torredinona ed esposti i loro cadaveri sul ponte S. Angelo, mentre il Cardinale Caraffa veniva strangolato. (Pallavicini - Storia del Conc. di Trento lib. XIV c. 15 n. 9-15).

 

XV. Dinastia Violante delle Castella e Barone. (1561-1620) - Alla morte di Ferrante Diazcarlon, non potendo Cornelia soddisfare i creditori, la città di Alife fu messa nuovamente in vendita per ducati 21,500, al quale prezzo fu acquistata da Fabio Barone, suo figlio, a cui successe il fratello Giulio, il quale nel 1620 la vendé a Francesco Gaetani, duca di Laurenzana e signore di Piedimonte, con istrumento stipulato in Napoli, pei rogiti di Rosario Sportelli; con cui si comprò i diritti feudali col titolo di duca che aveva anche il Baroni.

 

XVI. Nuovo Ritorno della Dinastia Gaetani di Laurenzana. (1620-1805) - La nobile famiglia Gaetani secondo alcuni ha per Capostipite un certo Anatolio, Patrizio Romano, vissuto nel 730, secondo altri sembra che discenda da stirpe Gota, e propriamente dagli antichi duchi di Gaeta, i quali nell’anno 915, coll’aiuto del Pontefice Giovanni X, scacciarono da quella città i Saraceni, conquistandone il dominio ed il titolo. Da Gaeta derivò il loro appellativo di Caietani o Gaetani. Essi si divisero in diversi rami, dei quali i principali sono i Gaetani di Sermoneta e i Gaeani di Laurenzana, i quali ultimi hanno il privilegio di aggiungere allo scudo di famiglia anche quello Aragonese. I Gaetani ebbero estesi e numerosi domini in quasi tutta l’Italia; ebbero moltissimi uomini illustri, che salirono ai più alti gradi del potere sia nel mondo civile che ecclesiastico. Ricordiamo fra questi soltanto i due pontefici, Gelasio II e Bonifacio VIII. Qui riportiamo i soli nomi dei Gaetani che tennero la contea di Alife dal 1620 al 1805:

 

1620   FRANCESCO I GAETANI

1626   ALFONSO II GAETANI

1645   FRANCESCO II GAETANI

1653   ANTONIO GAETANI

1704   NICOLÒ GAETANI

1741   GIUSEPPANTONIO GAETANI

1782   NICOLÒ GAETANI

1805   ONORATO GAETANI

 

Condizione di Alife dopo il Feudalesimo - Dopo la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche che distrussero il feudalesimo ed iniziarono quella serie di riforme e di avvenimenti che dovevano condurre i popoli all’emancipazione economica e morale e l’Italia dilaniata alla sua unità politica, Alife appartenne alla provincia di Caserta sia sotto il Governo Borbonico, sia sotto il governo della nuova Italia. Ma nel 1926, abolita dal Duce del Fascismo la provincia di Caserta, Alife con gli altri paesi del già circondario di Piedimonte, vennero annessi alla provincia di Benevento.

(continua)

 

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