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      Il maestro di spirito ( Giacomo Vitale )

 

Entriamo in un’indagine ancor più difficile. Come assolveva il prof. Vitale la sua funzione di sacerdote? Come entrava nelle coscienze? Come medicava le malattie dell’anima? Come risolveva quesiti di estrema delicatezza?… Ma il segreto confessionale circonda di un velo impenetrabile questo lato importantissimo del sacerdote-maestro, e solo la manifestazione esterna è giunta a noi.

Confessava conversando. Proprio come quando in classe ampliava l’idea dell’alunno, così in confessionale la colpa veniva analizzata da lui nella causa e nelle conseguenze, nelle concause sociali, nelle occasioni ambientali, perfino nell’anàmnesi. Perciò riduceva, senza sottovalutarla, l’azione responsabile del penitente, e la riconosceva nell’esatto valore di azione mezza incosciente, di ribellione capricciosa o, peggio, di abulia, e la sistemava con indulgenza nel gran quadro della debolezza, della limitatezza umana. Il referto costante alla mia indagine e stato questo: non un elenco di colpe cui seguisse il “Badate, evitate le occasioni, pensate alle conseguenze”, ma ad ogni accusa, sia pur di una parola, un ragionamento, un ordine di convinzione, sia logico che emotivo.

Maestro dunque di convinzione anche nel sacramento penitenziale. La via ascetica preferita si compendiava nell’amor di Dio più che nel timor di Dio. Non punizione ma redenzione. S. Paolo, S. Francesco e Don Bosco i suoi maestri di spirito. E il suo magistero intimo – infondere coscienza della colpa senza abbattere né crogiolare, ma sforzando alla redenzione – variava secondo l’età, il sesso, la condizione intellettuale e sociale, e non si esauriva nel confessionale.

 

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Qualcosa è documentato da lettere e discorsi.

Una signorina gli riferiva d’essere stata chiamata “di altri tempi”. “Ebbene” le scrive, “questo è il tuo pregio e il tuo vanto… Ci sono qualità moderne che è gloria non averle, e ci sono delle qualità antiche che o sono un dono di madre natura, o sono un desiderio vano e insoddisfatto… Tu sii moderna, sempre più e sempre meglio, in tutto ciò che giova essere moderni, nella cultura non limitata ai lavori donneschi, nella visione di orizzonti più vasti e più vari, nell’attività benefica e sociale e patriottica e religiosa…”. Una visione ampia, positiva, incoraggiante.

Pure ad una persona che, dopo il sogno del fidanzamento e l’euforia delle nozze, gli ha scritto di un certo disagio, egli risponde: “Tu cominciavi a sognar troppo… Tu andavi scrivendo e ripetendo da bimba ingenua ed illusa «Siamo felici». Ora nessuno può dire: Io sono felice. Sposando l’uomo che fa per te, tu puoi dire solo che hai un compagno che, invece di accrescere – come spesso accade – ti aiuti a superare gl’inevitabili ostacoli, t’aiuti a salire il tuo Calvario… Il primo Calvario l’hai sperimentato subito: la differenza di idee. È insopprimibile… Non illuderti dunque. Il matrimonio – sia pure solo per questo – non ti darà la felicità: t’aiuterà semplicemente a compiere meglio la tua missione. Ti darà delle gioie, non la gioia. La vita non è piacere, è missione… La dote che hai è grande, è la dote dell’anima… Egli ti ama per questo”.

Temporaneamente di può soccombere ad uno sforzo superiore. E per un animo delicato, un momentaneo rovescio può essere triste e rovinoso.Don Giacomo sapeva infondere il coraggio necessario: “…le tue battaglie, le tue delusioni, le tue sofferenze – lo sai – io le sapevo, le seguivo giorno per giorno. Ho più fede in te di quel che tu possa avere in quest’ora buia, ma ho anche più esperienza di te… Vi sono sconfitte più belle delle vittorie. E più utili. Oso dire una verità che può sembrarti una mezza eresia: ti gioverà più questo dolore che la riuscita. La riuscita ti avrebbe adagiata nella faciloneria, nella tendenza all’irriflessione, nel carpe diem, queste tre brutte illusioni che t’hanno causato l’attuale delusione…”.

Ormai dinanzi alla morte, così scriveva ad una bambina, il 10 marzo 1947. Ammiratene la condiscendenza, lo sprone benevolo, e il presagio insistente della sua fine imminente: “Cara, ti ringrazio del pensiero che hai avuto per me, vedo che sei già una donnina, e una mezza letterata. Continua per codesta via, e fai presto, e corri, se vuoi che io faccia in tempo a consolarmi dei tuoi progressi, a gustare, intenerito e commosso, la tua prima novellina, i tuoi primi sogni fissati sulla carta. A darti qualche consiglio, a dirti: Qui correggi, lì sei brava… Fai in modo che il tuo sviluppo intellettuale vada di pari passo con lo sviluppo della bontà. D’ora in poi voglio sentire da te contemporaneamente due cose: che progredisci nello studio, e che progredisci nella bontà. Lo studio è un certo arnese che ti servirà a brillare nella vita e a capirla: la bontà è un arnese più utile, perché servirà a rendere felice te e i tuoi, specialmente la mamma e il babbo che ti sono più accosto, e di cui potrai essere il sorriso… e fai presto, perché non ho tempo di aspettarti”. Questo all’innocenza.

 

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Giacomo Vitale sacerdote di Cristo, esplicò il suo magistero nell’Azione cattolica. In che consisteva per lui la religiosità? “La fisionomia della Chiesa di Cristo è vita, e vita sociale”. E, sotto questa luce, ci dice il parroco Grillo nel suo discorso funebre, organizzò in Piedimonte e diocesi l’Azione cattolica, “sotto questa luce inquadrava la predicazione domenicale, il mese di Maggio, il novenario di San Francesco, le confessioni di turno”.

Il concetto di Azione cattolica, “cooperazione dei laici all’apostolato del clero” può offrire adito a interpretazioni inesatte, se non è inteso con fedeltà e precisione. E la lungimiranza del Vitale in questo campo, si ricava, da alcuni suoi articoli del 1940, firmati “Un parroco di campagna”. Non bastava a lui vedere l’organizzazione dei laici in Piedimonte e diocesi “balda, compatta, battagliera, piena di slanci e d’iniziative…”, egli correva subito a riempire le lacune del sistema organizzativo e formativo. L’eventualità di un tesseramento vistoso ma superficiale, non lo attraeva. Notava la mancanza del vivaio (Aspiranti), come di una tecnica di preparazione personale e di propaganda. Voleva una formazione in profondità, lenta, costante, intelligente.

Come salutò con simpatia la missione paolina del ’38 a Piedimonte! Al veder borghesi parlare di Dio, al veder 2000 uomini comunicarsi la notte del 27 febbraio, e subito dopo recarsi in massa presso il monumento ai Caduti, armonizzando, egli dice “i due sentimenti fondamentali dello spirito umano”, provò una palese soddisfazione, quanta ne provava del resto, per i Ritiri di perseveranza degli operai, e le conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, “scuola mirabile di pietà attiva” era la legge della sua fede.

L’Università cattolica era da lui definita “la grande missionaria d’Italia”. E si spiega il fascino che esercitava su di lui, intellettuale, la scuola superiore della classe dirigente cattolica.

 

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Le feste religiose (!) di Piedimonte egli le vedeva sotto un aspetto caricaturale, ma non privo di amarezza. Che poteva dire per lui la processione di un Patrono che fu torturato e decapitato, se non corteo di protesta contro i tiranni di tutti i tempi? E invece era ridotta ad una questua, a sparatorie senza significato, a inchini fra statue…

Di qui la sua scuola di religiosità alla Madonna delle Grazie, appartata, e inevitabilmente contenuta almeno in un gruppo più scelto.

La devozione a S. Francesco s’era più sviluppata in lui, ci dice mons. Vaccaro, dopo la conoscenza personale del Padre Gemelli. (Quando questi seppe che egli veniva da Piedimonte, gli chiese subito: Come sta Don Vitale?). Il santo di Assisi aveva rinnovato il Cristianesimo medioevale, eliminando distanze e paure, vedendo Dio nella natura e nell’umanità. Qui stava la santità nuova di lui, e qui l’affetto del Vitale.

 

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Altro aspetto, e assai caratteristico, del suo magistero spirituale, erano le visite che faceva nelle case, alla buona, e nelle quali fra una battuta di spirito e una tipica espressione dialettale del genuino vernacolo di San Gregorio, si adattava a tutte le mentalità, ed aveva per tutti una parola che restasse salda nel ricordo. Avvicinava tutti, trattava con affabilità e spigliatezza il credente e l’incredulo, e tutti gli rendevano atto di questa sua mentalità aperta e superiore.

 

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Manifestazione inconfondibile di lui era la predicazione. Non gli abbiamo mai sentito recitare panegirici, quasi mai discorsi ufficiali. Teneva conferenze, commemorazioni poche, meditazioni molte. Inutile dire che non aveva il corredo di prediche scritte. Se l’argomento lo attraeva, si preparava così: su e giù per il corridoio del Seminario, solo, pensava (e talvolta non si accorgeva di qualche gesto). Sul pulpito o sull’altare si fermava dei minuti, ordinava le idee, e parlava. Coerente all’argomento dalla prima all’ultima parola, parlava in un flusso continuo di idee, quasi a scatti nella manifestazione, con soste improvvise per fermare il pensiero, e generare la riflessione. La sua predica, il suo giudizio, (come per la lezione in classe) non erano un’informazione. Egli voleva che si entrasse nel suo ordine di idee, o ne risentiva. E diceva che i suoi discorsi non erano comprensibili staccati, ma come parte di un tutto. Gli argomenti erano logicamente della sua levatura. Ai corsi annui di Esercizi spirituali svolgeva concetti come questi: “Il più grande problema della vita è quello di non essere quel che si dovrebbe”.

Ammiriamo lo sprone ai novelli sposi – ed erano i suoi parenti De Lellis Di Nardo – quanto sia ampio, quando li ammonisce a non vedere solo nella famiglia propria tutto il mondo cui si appartiene: “…la società non deve perderti sol perché sei entrato a costituire una società domestica. La nuova famiglia deve segnare una tappa nell’espansione intera e completa delle tue energie di uomo e di cittadino; è un moto progressivo, e non un arresto, un centro di espansione e non di assorbimento; è un punto di raccoglimento e non di esaurimento…”. E più oltre è un vero volo platonico: “Il piacere passa, stanca, esaurisce e si esaurisce, genera noia… Troppo piccola cosa il piacere per un’anima che porta come ricordo dell’infinito da cui deriva, qualche cosa d’infinito nelle sue aspirazioni”. Ma non si esauriva nel sogno: “…L’amore è dolore, l’amore è sacrificio, perché l’amore è dono; dono della propria persona, dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie abitudini, dono della propria pace, della propria felicità, per la pace e la felicità d’un altro. Almeno l’amore cristiano è questo. Ho detto l’amore cristiano: ora aggiungo, l’amore vero, l’amore eterno”.

Leggendo ci commoviamo… ma, bisognava sentirlo!

 

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Cosicché tutti insieme, – magistero intimo del confessionale, e quello palese della parola e dello scritto – aspetti laterali d’un unico edificio, ci danno, oggi, a tanti anni dalla morte, la visione lontana e nostalgica di una grande anima, di uno spirito che intuimmo superiore, ma che forse allora ci sfuggì nella sua purezza, nella sua profondità, e del quale avevamo ricordato finora la barzelletta o il rimprovero, o la creduta debolezza, o la esigenza a mantenere la parola e l’impegno, ma che oggi, investigando e meditando, e risalendo da una realtà poco pulita all’ideale, vediamo più alto e distante.

Non è la progressiva affezione al soggetto trattato, che spinge me ad una ricostruzione idealizzata. La mia convinzione è anche la persuasione di quanti lo stimarono a distanza, e di quanti lo amarono da vicino.

 

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