Entriamo in un’indagine ancor più difficile.
Come assolveva il prof. Vitale la sua funzione di sacerdote? Come entrava nelle
coscienze? Come medicava le malattie dell’anima? Come risolveva quesiti
di estrema delicatezza?… Ma il segreto confessionale circonda di un velo
impenetrabile questo lato importantissimo del sacerdote-maestro, e solo la
manifestazione esterna è giunta a noi.
Confessava conversando. Proprio come quando in
classe ampliava l’idea dell’alunno, così in confessionale la colpa
veniva analizzata da lui nella causa e nelle conseguenze, nelle concause
sociali, nelle occasioni ambientali, perfino nell’anàmnesi. Perciò
riduceva, senza sottovalutarla, l’azione responsabile del penitente, e la
riconosceva nell’esatto valore di azione mezza incosciente, di ribellione
capricciosa o, peggio, di abulia, e la sistemava con indulgenza nel gran quadro
della debolezza, della limitatezza umana. Il referto costante alla mia indagine
e stato questo: non un elenco di colpe cui seguisse il “Badate, evitate
le occasioni, pensate alle conseguenze”, ma ad ogni accusa, sia pur di
una parola, un ragionamento, un ordine di convinzione, sia logico che emotivo.
Maestro dunque di convinzione anche nel sacramento
penitenziale. La via ascetica preferita si compendiava nell’amor di Dio
più che nel timor di Dio. Non punizione ma redenzione. S. Paolo, S. Francesco e
Don Bosco i suoi maestri di spirito. E il suo magistero intimo –
infondere coscienza della colpa senza abbattere né crogiolare, ma sforzando
alla redenzione – variava secondo l’età, il sesso, la condizione
intellettuale e sociale, e non si esauriva nel confessionale.
***
Qualcosa
è documentato da lettere e discorsi.
Una signorina gli riferiva d’essere stata
chiamata “di altri tempi”. “Ebbene” le scrive,
“questo è il tuo pregio e il tuo vanto… Ci sono qualità moderne che
è gloria non averle, e ci sono delle qualità antiche che o sono un dono di
madre natura, o sono un desiderio vano e insoddisfatto… Tu sii moderna,
sempre più e sempre meglio, in tutto ciò che giova essere moderni, nella
cultura non limitata ai lavori donneschi, nella visione di orizzonti più vasti
e più vari, nell’attività benefica e sociale e patriottica e
religiosa…”. Una visione ampia, positiva, incoraggiante.
Pure ad una persona che, dopo il sogno del
fidanzamento e l’euforia delle nozze, gli ha scritto di un certo disagio,
egli risponde: “Tu cominciavi a sognar troppo… Tu andavi scrivendo
e ripetendo da bimba ingenua ed illusa «Siamo felici». Ora nessuno può dire: Io
sono felice. Sposando l’uomo che fa per te, tu puoi dire solo che hai un
compagno che, invece di accrescere – come spesso accade – ti aiuti
a superare gl’inevitabili ostacoli, t’aiuti a salire il tuo
Calvario… Il primo Calvario l’hai sperimentato subito: la differenza
di idee. È insopprimibile… Non illuderti dunque. Il matrimonio –
sia pure solo per questo – non ti darà la felicità: t’aiuterà semplicemente
a compiere meglio la tua missione. Ti darà delle gioie, non la gioia. La vita
non è piacere, è missione… La dote che hai è grande, è la dote
dell’anima… Egli ti ama per questo”.
Temporaneamente di può soccombere ad uno sforzo
superiore. E per un animo delicato, un momentaneo rovescio può essere triste e
rovinoso.Don Giacomo sapeva infondere il coraggio necessario: “…le
tue battaglie, le tue delusioni, le tue sofferenze – lo sai – io le
sapevo, le seguivo giorno per giorno. Ho più fede in te di quel che tu possa
avere in quest’ora buia, ma ho anche più esperienza di te… Vi sono
sconfitte più belle delle vittorie. E più utili. Oso dire una verità che può
sembrarti una mezza eresia: ti gioverà più questo dolore che la riuscita. La
riuscita ti avrebbe adagiata nella faciloneria, nella tendenza
all’irriflessione, nel carpe diem, queste tre brutte illusioni che
t’hanno causato l’attuale delusione…”.
Ormai dinanzi alla morte, così scriveva ad una
bambina, il 10 marzo 1947. Ammiratene la condiscendenza, lo sprone benevolo, e
il presagio insistente della sua fine imminente: “Cara, ti ringrazio del
pensiero che hai avuto per me, vedo che sei già una donnina, e una mezza
letterata. Continua per codesta via, e fai presto, e corri, se vuoi che io
faccia in tempo a consolarmi dei tuoi progressi, a gustare, intenerito e
commosso, la tua prima novellina, i tuoi primi sogni fissati sulla carta. A
darti qualche consiglio, a dirti: Qui correggi, lì sei brava… Fai in modo
che il tuo sviluppo intellettuale vada di pari passo con lo sviluppo della
bontà. D’ora in poi voglio sentire da te contemporaneamente due cose: che
progredisci nello studio, e che progredisci nella bontà. Lo studio è un certo
arnese che ti servirà a brillare nella vita e a capirla: la bontà è un arnese
più utile, perché servirà a rendere felice te e i tuoi, specialmente la mamma e
il babbo che ti sono più accosto, e di cui potrai essere il sorriso… e
fai presto, perché non ho tempo di aspettarti”. Questo
all’innocenza.
***
Giacomo
Vitale sacerdote di Cristo, esplicò il suo magistero nell’Azione
cattolica. In che consisteva per lui la religiosità? “La fisionomia della
Chiesa di Cristo è vita, e vita sociale”. E, sotto questa luce, ci dice
il parroco Grillo nel suo discorso funebre, organizzò in Piedimonte e diocesi
l’Azione cattolica, “sotto questa luce inquadrava la predicazione
domenicale, il mese di Maggio, il novenario di San Francesco, le confessioni di
turno”.
Il concetto di Azione cattolica, “cooperazione
dei laici all’apostolato del clero” può offrire adito a
interpretazioni inesatte, se non è inteso con fedeltà e precisione. E la lungimiranza
del Vitale in questo campo, si ricava, da alcuni suoi articoli del 1940,
firmati “Un parroco di campagna”. Non bastava a lui vedere
l’organizzazione dei laici in Piedimonte e diocesi “balda,
compatta, battagliera, piena di slanci e d’iniziative…”, egli
correva subito a riempire le lacune del sistema organizzativo e formativo.
L’eventualità di un tesseramento vistoso ma superficiale, non lo
attraeva. Notava la mancanza del vivaio (Aspiranti), come di una tecnica di
preparazione personale e di propaganda. Voleva una formazione in profondità,
lenta, costante, intelligente.
Come salutò con simpatia la missione paolina del
’38 a Piedimonte! Al veder borghesi parlare di Dio, al veder 2000 uomini
comunicarsi la notte del 27 febbraio, e subito dopo recarsi in massa presso il
monumento ai Caduti, armonizzando, egli dice “i due sentimenti
fondamentali dello spirito umano”, provò una palese soddisfazione, quanta
ne provava del resto, per i Ritiri di perseveranza degli operai, e le
conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, “scuola mirabile di pietà
attiva” era la legge della sua fede.
L’Università cattolica era da lui definita
“la grande missionaria d’Italia”. E si spiega il fascino che
esercitava su di lui, intellettuale, la scuola superiore della classe dirigente
cattolica.
***
Le
feste religiose (!) di Piedimonte egli le vedeva sotto un aspetto caricaturale,
ma non privo di amarezza. Che poteva dire per lui la processione di un Patrono
che fu torturato e decapitato, se non corteo di protesta contro i tiranni di
tutti i tempi? E invece era ridotta ad una questua, a sparatorie senza
significato, a inchini fra statue…
Di qui la sua scuola di religiosità alla Madonna
delle Grazie, appartata, e inevitabilmente contenuta almeno in un gruppo più
scelto.
La devozione a S. Francesco s’era più
sviluppata in lui, ci dice mons. Vaccaro, dopo la conoscenza personale del
Padre Gemelli. (Quando questi seppe che egli veniva da Piedimonte, gli chiese
subito: Come sta Don Vitale?). Il santo di Assisi aveva rinnovato il
Cristianesimo medioevale, eliminando distanze e paure, vedendo Dio nella natura
e nell’umanità. Qui stava la santità nuova di lui, e qui l’affetto
del Vitale.
***
Altro
aspetto, e assai caratteristico, del suo magistero spirituale, erano le visite
che faceva nelle case, alla buona, e nelle quali fra una battuta di spirito e
una tipica espressione dialettale del genuino vernacolo di San Gregorio, si
adattava a tutte le mentalità, ed aveva per tutti una parola che restasse salda
nel ricordo. Avvicinava tutti, trattava con affabilità e spigliatezza il
credente e l’incredulo, e tutti gli rendevano atto di questa sua
mentalità aperta e superiore.
***
Manifestazione
inconfondibile di lui era la predicazione. Non gli abbiamo mai sentito recitare
panegirici, quasi mai discorsi ufficiali. Teneva conferenze, commemorazioni poche,
meditazioni molte. Inutile dire che non aveva il corredo di prediche scritte.
Se l’argomento lo attraeva, si preparava così: su e giù per il corridoio
del Seminario, solo, pensava (e talvolta non si accorgeva di qualche gesto).
Sul pulpito o sull’altare si fermava dei minuti, ordinava le idee, e
parlava. Coerente all’argomento dalla prima all’ultima parola,
parlava in un flusso continuo di idee, quasi a scatti nella manifestazione, con
soste improvvise per fermare il pensiero, e generare la riflessione. La sua
predica, il suo giudizio, (come per la lezione in classe) non erano un’informazione.
Egli voleva che si entrasse nel suo ordine di idee, o ne risentiva. E diceva
che i suoi discorsi non erano comprensibili staccati, ma come parte di un
tutto. Gli argomenti erano logicamente della sua levatura. Ai corsi annui di
Esercizi spirituali svolgeva concetti come questi: “Il più grande
problema della vita è quello di non essere quel che si dovrebbe”.
Ammiriamo lo sprone ai novelli sposi – ed
erano i suoi parenti De Lellis Di Nardo – quanto sia ampio, quando li
ammonisce a non vedere solo nella famiglia propria tutto il mondo cui si
appartiene: “…la società non deve perderti sol perché sei entrato a
costituire una società domestica. La nuova famiglia deve segnare una tappa
nell’espansione intera e completa delle tue energie di uomo e di
cittadino; è un moto progressivo, e non un arresto, un centro di espansione e
non di assorbimento; è un punto di raccoglimento e non di
esaurimento…”. E più oltre è un vero volo platonico: “Il
piacere passa, stanca, esaurisce e si esaurisce, genera noia… Troppo
piccola cosa il piacere per un’anima che porta come ricordo
dell’infinito da cui deriva, qualche cosa d’infinito nelle sue
aspirazioni”. Ma non si esauriva nel sogno: “…L’amore è
dolore, l’amore è sacrificio, perché l’amore è dono; dono della
propria persona, dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie
abitudini, dono della propria pace, della propria felicità, per la pace e la
felicità d’un altro. Almeno l’amore cristiano è questo. Ho detto
l’amore cristiano: ora aggiungo, l’amore vero, l’amore
eterno”.
Leggendo ci commoviamo… ma, bisognava
sentirlo!
***
Cosicché
tutti insieme, – magistero intimo del confessionale, e quello palese
della parola e dello scritto – aspetti laterali d’un unico
edificio, ci danno, oggi, a tanti anni dalla morte, la visione lontana e
nostalgica di una grande anima, di uno spirito che intuimmo superiore, ma che
forse allora ci sfuggì nella sua purezza, nella sua profondità, e del quale
avevamo ricordato finora la barzelletta o il rimprovero, o la creduta debolezza,
o la esigenza a mantenere la parola e l’impegno, ma che oggi,
investigando e meditando, e risalendo da una realtà poco pulita
all’ideale, vediamo più alto e distante.
Non
è la progressiva affezione al soggetto trattato, che spinge me ad una ricostruzione
idealizzata. La mia convinzione è anche la persuasione di quanti lo stimarono a
distanza, e di quanti lo amarono da vicino.