Giacomo Vitale                        Home page

 

 

 

Ricodi del Prof. GiacomoVitale

 

 

   Date e ricordi

 

Riassumere da opere è facile, guardare in un’anima e capirla è difficile. Ci si dovrebbe immedesimare in essa. Ma, è possibile l’immedesimazione? Non si corre il rischio di trasformar quell’anima in noi, invece di specchiar noi in essa?

Invece di una fotografia non potrebbe saltar fuori una pittura, che potrebbe anche esser bella, ma non sarebbe fedele?

E allora… Ho fatto dei proponimenti: ricordare, sentire, descrivere, soprattutto far parlare il prof. Vitale. La mia non sarà un’indagine su di lui – non ne sarei all’altezza, poiché la parte non comprende il tutto – ma solo un racconto, una descrizione, un ricordo.

Il perché si sa. Lo conoscemmo ed ammirammo. Prima che scompariamo anche noi che ne serbiamo viva nel cuore la devozione, abbiamo voluto ricordarlo ai sensi e al pensiero di quelli che verranno. Ai sensi parlerà dall’espressivo monumento che l’arte di Luigi Fagnani ha saputo creare, al pensiero parlerà da questo opuscolo (poca cosa in verità). Lo rivedremo comunque, e lo vedranno i futuri, in corpo ed anima. E sarà proprio come in vita: fisicamente lo vedemmo qual era, spiritualmente ne intravedemmo solo un bagliore.

 

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Agli amanti delle date dirà che Giacomo Anna Armando Mario Vitale vide la luce a San Gregorio sul Matese il 26 luglio 1883, e vi fu battezzato il 29.

Il padre, Carmelo Pasquale, era di Avellino, e a San Gregorio era a servizio del Senatore Del Giudice, poi morì in casa di salute. La madre, Maria Filomena De Lellis, maestra, era del posto. Ebbe in seguito un fratello. Eliseo, passato poi in America e mortovi, impiegato al consolato di Buenos Ayres. La madre lo lasciò quando aveva diciassette anni. Il piccolo Giacomo, dal fisico non eccezionale, era stato tirato su amorosamente da lei, e così non perdette quel sorriso che conserva chi ha avuto l’affetto materno.

Frequentò il seminario diocesano per tutti i corsi inferiori e teologici.

Il ricordo di lui nei vecchi professori, era più che lusinghiero. Compare per la prima volta in un documento, durante un’accademia, che nel giugno 1903 fu tenuta lì, in occasione del 16° centenario del martirio di S. Marcellino. Il Rettore, prof. Pennacchio, affidò a lui la recitazione di un’ode “Causa facit Martyres” del prof. Landolfi, e di un epigramma greco del prof. La Catena, con traduzione.

La caratteristica fisica del prof. Vitale, dalla mano destra invalida e sempre inguantata, ebbe origine durante gli anni del seminario da una malattia, per cui gli si dovettero amputare falangi. L’operazione, interessando i tendini delle altre dita, gli lasciò la destra inservibile, ma forse fu una minorazione che ne affinò le voglie, indirizzandolo decisamente al mondo dello spirito.

Per l’Ordinazione occorse la dispensa. La Congregazione del Concilio si rimise al vescovo Caracciolo di Torchiarolo, che “visa instantia clerici Jacobi Vitale… cum, operationis chirurgicae causa, esset impeditus in articulatione dexterae manus… dispensationem super irregularitate, ita ut ipsae sinistrae manus in benedictione hostiae super calice et in benedictione et in sumptione sacrarum specierum uti licite valeat… concedimus et impartimur”.

Così, usando la sinistra nella consacrazione e nella benedizione, il 14 aprile 1906, Don Giacomo salì all’altare.

La società si rinnovava e, ferma restando la preparazione tradizionale del clero, era anche bene che qualcuno dei giovani preti seguisse i corsi delle università statali. Don Giacomo s’iscrisse a Napoli nel 1906, e l’anno dopo passò a Pisa, attrattovi dalla presenza del prof. Toniolo, Ordinario di Economia politica.

La vita universitaria e l’affetto degli studenti migliori, fra i quali Pietro Silva lo storico, il latinista Zamboldi, il giurista Zanobini, il Codignola, dettero più spigliatezza alla sua già pronta intelligenza.

Come viveva a Pisa? Erano sacrifici, suoi e dei parenti. Il vescovo gli mandava molte messe, quasi tutte a L. 1,22, e qualcuna a L. 1,50, ed insisteva (lettera 16 dicembre 1909): “Cogli esami a che state? Quando più o meno pensate potervi ritirare?… qui veramente desidererei la vostra persona per varie ragioni”. Ma gli stenti erano superati dalla forza d’animo, rivestita di giovialità. Sentitelo: “…ieri sera intervenni ad un pranzo dato nell’hotel più aristocratico di Pisa, hotel Nettuno, per festeggiare l’Assistente dei circoli universitari, e mi ritirai ch’era mezzanotte. Se lo sapesse S. E.! (il vescovo) il quale, poveretto, m’ha scritto raccomandandomi di fuggire i libri e i giornali cattivi, e la compagnia cattiva (leggete: compagnia di secolari). Se sapesse che il Cardinale è delle mie idee! Approva il mio modo di agire, anzi vuole che io mi mescoli ai giovani per mostrar loro che Cristo non ha rinnegata la gioia della vita, ma l’ha benedetta e innalzata, e dissipare, così senza parere, tra un motto arguto e una cicalata, dissipar dico, dei pregiudizi, combattere le idee errate, far del bene mentre si ha l’aria di divertirsi, rimanere sacerdote, mentre si appare goliardo”. Tale rimase per tutta la vita. Nell’aprile 1909 fu torturato da un’artrite dolorosa. Soffrì senza cercare compatimento. “Dovrei parlare di dolori?” scriveva al dott. Ernesto de Lellis, “ma dopo me ne pentirei, come di una viltà imperdonabile”. È il Toniolo, professore – amico, a rassicurare il vescovo e il rettore Del Prete (7 giugno 1909): “… Ebbi l’onore di comunicarle l’esito veramente felicissimo degli esami di sessione straordinaria di aprile del Sac. Vitale. Egli se ne incoraggiò talmente che, mercé lo studio sempre assiduo, sorretto da una mente vigorosa e sottile, si proponeva di affrontare in luglio… gran parte degli esami rimanenti… e laurearsi in novembre, certo con grande onore. Disgraziatamente però… si pose a letto con febbre non più interrotta, e con acutissimi, sebbene vaganti, dolori artritici, che assolutamente gli rendono impossibile il minimo movimento, senza soccorso altrui… Il medico è impensierito, perché alla sofferenza non piccola e certo lunga, si aggiunge una debolezza di cuore alquanto allarmante… In tanto speriamo in Dio e nella Vergine santissima”. Fu assistito, dice il prof. Toniolo “da una santa e caritatevole signora, con grande pena e fatica, giorno e notte” e confortato dalla zia Eleonora e dal dott. Ernesto. Lo guarì, dopo l’ospedale, la cura a Monsummano, nelle grotte infocate.

 

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Nel ‘910 tornò a Piedimonte. Da mansionario di Santa Maria Maggiore (1905), fu promosso canonico dell’Annunziata (1910). La chiesa è unita al seminario dove insegnava e dimorava, e vi rimase tutta la vita. Come aveva rinunziato ad insegnare a Montecassino, rinunziò a dignità più elevate in diocesi. Al vescovo Noviello che insisteva in tal senso, rispose: “Non è il posto che fa l’uomo, è l’uomo che illustra il posto”.

Fu questo l’ambiente in cui visse il sacerdote e l’insegnante, ed appare contenuto. Quello sconfinato era nella sua camera, in seminario, dove da un letto in un angolo, in mezzo ad un disordine pittoresco, contemplava attraverso centinaia di volumi per nottate intere con una visiera sugli occhi, quanto il genio ha creato, soffermandosi con più simpatia sui prodotti letterari d’Italia. Ad una vita, in fondo, sempre uguale, unica parentesi il viaggio annuale alle Settimane sociali in varie città. Volle anche volare, da Ancona a Zara, e ritorno.

Il Fascismo gli aveva precluso l’attività politica, e scaricò la sua energia nell’arte. Vendette un suo terreno a S. Gregorio. Col ricavato, e con devoti contributi, incaricò Nicola Fabbricatore di un dipinto nella cappellina delle Grazie, fra gli ulivi del Cila. E l’artista gli consegnò una sua delicatissima copia della Madonna del Magnificat del Botticelli, (con poche varianti), e ai lati un S. Francesco e una S. Caterina, in cornici di oro brunito, in un ambientino d’un celeste soffuso e digradante, tra una fioritura di gigli.

Nella tempesta del ’31 egli, sorvegliato dell’OVRA, stette in disparte, poi venne l’Istituto “S. Tommaso” e con esso apparve meglio al sua velentia. Fu preside dal ’40 alla morte, e lì lo trovò la seconda guerra. Questa da molti era vista come “fascista”, e Vitale, patriota come nel ’15, apparve – e con nostra meraviglia – sostenitore della resistenza e del Governo. “Non si cambia cavallo in mezzo al guado” disse.

Il 25 luglio chiarì le cose. Nel terribile ottobre del ’43 il seminario fu invaso da persone atterrite, e fu ad un momento, il 17, dall’essere minato. Vitale era lì a confortarle.

In quel tragico mese, come nel ’21 al Mercato, non aveva avuto paura d’intervenire in un comizio socialista, così il 19, a Porta Vallata, senza pensare alle conseguenze, gridò disgustato: “Rispettate i cadaveri!” di fronte ad una scena orribile: alle sevizie da parte di qualche furioso, su alcuni morti tedeschi.

Ed eccoci all’ultimo Vitale, quello del raggio al tramonto, e del crepuscolo dei sensi. Nel ’46 si manifestò la malattia che doveva portarlo, sessantaquattrenne, alla tomba: papilloma vescicale. Era cosciente della gravità del male, e quando il vescovo Noviello lo condusse a Napoli, era ormai tardi. Rifiutò l’operazione che ne avrebbe prolungato alquanto l’esistenza, e la morte fu più dolorosa. “Sopportò la malattia con una rassegnazione da destare ammirazione”, hanno detto i suoi intimi, Dr. D’amore, P. Di Nardo, R. Simonetti, che lo curarono e assisterono con affetto. Durò quasi un anno. Poi le continue emorragie lo spensero, munito dei Sacramenti della Fede, togliendolo finalmente alle sofferenze, il 5 aprile 1947.

Un accompagnamento funebre interminabile, spettacolare, testimoniò la devozione che se ne aveva.

 

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Non era mia intenzione inzeppare di date i ricordi del Prof. Vitale. Sarebbe stato ridicolo, in quanto la sua vita è stata dinamica interiormente, ma esternamente quasi statica. Sarebbero date di bazzecole. E poi, non c’è forse una storia senza date? I pochi avvenimenti della quale sono luci rivelatrici di una mentalità e di una coscienza?

Guardiamo al carattere, alla coscienza del Professore. Nessuno meglio, e più gustosamente di lui ce lo comunicherà, poiché aveva una formidabile capacità introspettiva di sdoppiamento, e di analisi della propria personalità.

In una lettera (luglio 1909), a proposito di mancati auguri suoi per un compleanno, ecco come parla del «sé» intimo in terza persona: “…bisogna ricordare che è strano molto strano, ha una maniera tutta sua di pensare e di operare, per dirla in breve, è un vero anarchico del senso comune e delle convenienze sociali! …anche lui, sebbene viva sempre nel mondo della luna… era venuto a sapere che sulla terra si usava festeggiare i compleanni… (Ora parla il «sé» superficiale, esteriore, quello delle convenienze). Ho fatto l’impossibile per convincerlo, se non altro della sconvenienza del suo modo di procedere: inutile dire a voi che non sono riuscito, perché la sua testardaggine è nota… ho tentato tutti i mezzi, ho tentato anche la famosa mozione degli affetti… e lui, sensibile a questa corda, si è scosso, ha dato vibrazioni, ma poi è ritornato di nuovo nell’immobilità capotica dei suoi principi pazzi ed irritanti… Perché, mi diceva, perché si dovrebbe festeggiare il compleanno? L’onomastico lo capisco, perché l’imposizione del nome è l’affermazione della spiritualità e dell’individualità dell’uomo… L’onomastico è la festa della nascita dello spirito, è il compleanno dell’anima”.

È un brano stupendo, dal quale in una veste faceta, l’indagine di sé stesso sbocca nella visione cristiana della vita. Stupendo anche quel che segue: la manifestazione della personalità non compresa, procura da parte dei mediocri affrettate definizioni e giudizi. Ebbene, egli vi indulge – hanno i loro diritti anch’essi, – e riesce a vedere sé stesso nell’esame degli altri: “Torno a ripetervelo: il mio amico in fondo, forse molto in fondo, è un buon ragazzo, ma strano, testardo, con un’idea pazza per capello. Per questo sua zia Eleonora, donna pratica e navigata, quando venne a Pisa, in confidenza domandò giustamente alla sora Teresa: «Come ha fatto a sopportarlo durante l’anno?» e la sora Teresa… fece mostra di cadere dalle nuvole, e chiese alla sua volta: «- Oh perché mi dice questo?» «Perché?» ripigliò la zia naturalmente stupita, «con quel carattere così strambo, così scontroso, così intrattabile…»”.

La lettera è un capolavoro. Nell’intimo e nei rapporti egli si vedeva così… E prevedeva che il suo intimo, prevalendo con l’età sulla vernice, sulla patina, lo avrebbe ridotto ad appartarsi sempre più dal mondo delle convenienze: “…lui no, non è uomo da stare in società, non sa mantenersi le simpatie e gli affetti che pure ispira a tante anime indulgenti, ispira a causa dei suoi dolori immensi ed innumerevoli, quasi come le sue stranezze… voi lo vedrete a poco a poco ridursi a viver solo, più che non viva ora da misantropo, senza amici, senza parenti, abbandonato da tutti pel suo carattere impossibile…”. Basta. Profezia sbagliata. Il mondo non è interamente meschino da tener lontana, da isolare l’anima superiore. San Giovanni Battista e Savonarola, gli austeri che avevano rotto ogni rapporto col mondo, ebbero seguaci e ammiratori a non finire! Gli alunni e gli amici del Prof. Vitale, anche quando non afferrarono il movente delle sue azioni, capivano almeno questo: che aveva delle ragioni che essi non comprendevano, e perciò non lo lasciarono. Né poi la sua coscienza profonda mai interamente sommerse la mostra faceta, che tanto attraeva.

 

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