Biografia soci ASMV Giacomo
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Fermiamoci anzitutto sulla manifestazione evidente
della cultura del prof. Vitale: l’insegnamento. Da essa, per essa,
potremo risalire consideratamente alle idee animatrici.
Quel suo metodo didattico, così tipico e così
efficace, (il prof. Di Muccio lo ricordò nell’elegia alla sua morte):
era
logicamente espressione d’un temperamento, ma il contenuto, l’idea
era prodotto della convinzione dottrinale. Risalendo dunque dagli effetti alle
cause, saremo sicuri di fare induzioni, non congetture.
Come insegnava? Egli non si preparava una certa
lezione da enunziare, spiegare, riassumere, e poi richiedere. L’acutezza
dell’ingegno e la cultura vasta lo ponevano in condizione di attuare alla
perfezione il metodo attivo della pedagogia d’oggi, con lezioni
occasionali. Ad una domanda replicava con una lezione improvvisata, spontanea,
svolta non nelle sue minuzie, ma solo in alcune idee sostanziose, che voleva
restassero impresse. Dall’idea dominante divagava per poco verso altre,
tanto per cercarvi maggiori prove, per fare intravedere altri motivi di
sostegno e validità, e poi tornava insistentemente all’argomento e, di
convincente autorità, lo chiudeva.
Semplificava il pensiero e la locuzione difficile, e
li rendeva col gesto rapido, quasi a scatti, senza mai dimenticare quella verve
simpatica e convincente, e che era pure il tocco di grazia, per cui nasceva in
noi la simpatia per li, accanto ad una illimitata stima.
Da noi esigeva molta lettura, la riflessione
giornaliera del diario, la scelta del colorito e del rilievo, e cioè della
proprietà e del valore della parola, non pretendeva ripetizioni o memorie, né
temi svolti come prediche.
S’immedesimava nella spiegazione, nella
lettura, e ci richiedeva di parteciparvi. Eliminata ogni pesantezza, creava
così nell’ora d’Italiano un’ora di sogno, sogno per noi, ma
che per lui era solo il trionfo di ciò che è spirituale e superiore, comunicato
con arte. Ma allora, guai a interromperlo!
Credevamo che rimproverasse perché nervoso, dopo
s’è capito che era per disgusto, per orrore di quella contaminazione che
una distrazione, un’inframettenza grossolana portava nell’alta
regione cui ci aveva levati, sporcandola.
Dava quando sapeva, senza misura alcuna, con la sola
restrizione di dover ridurre, perché parlava a ragazzi. Dava molto ed esigeva
poco. Convinto com’era di quanto diceva, era sicuro di averci comunicato
la sua convinzione. E perciò a lui il dettaglio sfuggiva, e a noi non lo
chiedeva. Gli bastava che avessimo corrisposto nell’essenziale. Voleva
comunicarci una passione, ecco, più che un certo numero di idee.
Logicamente una spiegazione, una definizione, non
era mai la stessa. Egli non la sapeva a memoria. E c’era sempre del nuovo
in quanto diceva. La sua paura era di cristallizzarsi e perciò leggeva tanto, e
si aggiornava, e poi rifletteva e trovava da sé, e voleva, in piccolo, lo
stesso spirito d’indagine e di riflessione in noi. Né la limitatezza
mentale di un alunno si sarebbe trovata a suo agio con lui. Bisognava capirlo.
Capirlo nella mentalità elevata, aperta. Solo così si afferrava il senso vero
di certe sue espressioni, e certe preferenze, certe commozioni.
***
L’uomo
che insegnava così, manifestava oltre che mentalità e tendenze, anche la
consuetudine di studi e il patrimonio culturale.
Ecco
le sue idee basilari:
1. Cristianesimo teologico
paolino.
2. Francescanesimo.
3. Sociologia cristiana.
4. Teorie estetiche crociane.
Da ragazzi ci sfuggiva logicamente la genesi di ciò
in lui. L’abbiamo capito quando, nel Vangelo e nelle lettere di San Polo,
come nelle encicliche di Papa Leone XIII, e sulle opere estetiche e
storiografiche di Benedetto Croce, le abbiamo ritrovate.
Pur rinnegando alcuna elaborazione posteriore, certo
il Vangelo e S. Paolo erano il pane che consumava e che offriva. Insisteva
tanto vivamente sul “corpo mistico” oltre che nell’aspetto
soprannaturale, anche in quello sociale. S. Francesco, tipo
dell’attuazione estetico – morale del Vangelo, rappresentava per
lui quello a cui potesse tendere l’anima naturalmente cristiana. Ma ne ho
parlato avanti, e non mi prolungo. Torniamo ai suoi studi.
Se nell’insegnamento egli trascurava il
preciso e trito dato storico, pur di metter noi soltanto nello stato di
contemplazione estetica, è evidente, e lo diceva, che non preferiva la critica
storica tedesca, ma senz’altro quella estetica che, preparata dal Vico,
attraverso De Sanctis arriva a Croce.
In questa scia troviamo Vitale. Metter da parte ogni
giudizio sulla forma pura, l’anatomia delle parti, ammirare la bellezza
del complesso vivo, ecco quanto raccomandava, e cioè quanto sentiva. Ho già
detto che rinnovava, mai ripeteva. E anche questo corroborava col Croce, dato
che anche per lui l’arte era momento irripetibile di vita.
Se certamente correggeva l’errore sintattico,
non esauriva l’insegnamento nella “bella forma”. Era nemico
della rettorica. Niente enfasi o studiato abbellimento, ma idea sentita,
proprio attraverso la naturalezza dell’espressione.
La stessa idea crociana (e veramente hegeliana)
della storia lo sorreggeva nell’interpretare e giudicare i fatti. Spesso
citava la Storia d’Europa del pensatore abruzzese.
Anche per lui la storia era progresso
dell’idea di libertà attraverso trionfi e sconfitte, superando le
dittature, momenti necessari che rendono irresistibile la nostalgia della democrazia.
E il suo cuore che batteva tanto palesemente per
l’ideale democratico, l’aveva spinto, come si vedrà, anche alla
concreta azione politica, ma non con vieto spirito di clientela, non per
l’arrembaggio di grasse mangiatoie, no, unicamente per moralizzare la
politica. E perciò, di fronte a situazioni corrotte, tuonava con violenza
estrema, mortificando anche, e giustamente.
Punto ancor più delicato a valutarsi è la sua
posizione filosofica. Non era proprio uno Scolastico. Siamo lì. La sua indole
dinamica, sentimentale, attuale, avversa al sillogismo, lo faceva propendere
piuttosto per S. Agostino, per una filosofia nelle cui attuazioni poneva la
convinzione. Pragmatismo? Certo, era un ammiratore di Papini, ma non è il caso
di lavorare di fantasia su quanto non sappiamo. La filosofia non era comunque
il punto focale del suo ingegno emotivo (è sintomatico all’Università il
“
E come si spiega l’influenza delle idee del
Croce? Si era incontrato con esse, e vi aveva aderito, perché non subiva
niente, e non giurava su nessuno. Si spiega in due modi: psicologicamente era
predisposto a farle sue.
Storicamente non dimentichiamo che negli anni della
sua seconda formazione, 1905-15, predominava l’idealismo e la
storiografia pura della libertà, e il pensiero storico, respingendone
l’antitrascendenza. Moderno nel fatto, ma ancorato ai principi
trascendenti del Vangelo. È che certe idee si unificano in una sintesi
superiore solo nelle persone d’ingegno.
***
Prodotto
dell’incrocio fu la tesi di laurea (che meritò un “110 e
lode”).
Tratta di “Lo spirito filosofico nei canti
d’amore dei poeti del Dolce Stil Novo”, e fu discussa nel Giugno 1910.
È stato un godimento leggerla, e ne ringrazio il gentile Rettore Magnifico di
Pisa, anche per il frutto che ne ho ricavato. È fra storica e personale. Si
vede anzitutto il lettore di gran respiro dalla bibliografia immensa, si nota
il continuo riferimento teologico, si avverte – ed è il costante, eterno
Vitale, – l’accantonamento del simbolismo poetico, aspetto
deteriore della “bella scuola”. Nel primo dei quattro capitoli
appare il suo compiacimento innanzi alla moralità dell’amore. Nel 2° è
trattato il tentennamento di quei poeti, evitato solo da Dante, fra vita attiva
e contemplativa, e appaiono quelle sue definizioni che tanto lo distinguevano:
“non sono le teorie che plasmano l’uomo, ma l’uomo che plasma
le teorie”, e altrove “è l’uomo che elegge fra i molti, il
sistema conforme alla propria mentalità e alle proprie esigenze”. Nel 3°,
più storico, espone “il gravame del medioevalismo filosofico sulla
poesia, e nel 4° c’è l’indagine del polisenso in poesia, finché si
chiede (non senza un certo dramma); come dall’interpretazione allegorica
“che vegeta sotto il freddo sole degli Scolastici… venne la
lussureggiante vegetazione poetica?”. La tesi ha il merito, fra
l’altro, di mostrare come una preparazione teologica possa introdurre in
modo sistematico e comprensivo alla domanda se l’allegoria, il simbolo,
sia separabile dall’intuizione poetica, se in arte può esistere un doppio
fondo, risponde crocianamente. E, salvando solo Dante, ridimensiona il Dolce
Stil Novo, riconoscendogli in poesia un valore espressivo, ma ben diverso dal
monismo poetico moderno.
Sarebbe inconcepibile il prof. Vitale, se non si
accennasse alle sue vedute cristiano-sociali. Furono sempre ortodosse, anche se
di avanguardia. Le abbiamo ritrovate limpide, in quel miracolo di rinnovamento
che è la dottrina emanante da Leone XIII. La Chiesa, nelle sue posizioni di
adattamento alla società si assunse il grande compito dottrinale, spianando la
via ai successori. Ci interessa ora il campo sociale, per riconoscere dal
pensiero leoniano, le direttive dell’Opera dei Congressi, le idee del
Toniolo, e quindi del prof. Vitale.
La Rerum novarum (1891) stabiliva le
direttive della convivenza cristiana, incoraggiando le associazioni operaie,
l’intervento dello Stato per proteggere la dignità del lavoro e additava
nella soluzione della questione sociale, non la sola economia, ma la morale e
la religione. La “Nuntiasti Nobis” (1884), e la lettera
“Dall’alto” (1890) incoraggiavano l’apostolato
dei laici e l’Azione cattolica; la “Graves de communi”
(1901) raccomandava al clero di andare verso il popolo, e stabiliva la natura e
i veri fini della Democrazia cristiana; la “Sapientiae Christianae”
(Gen. 1900) additava ai laici le vie dell’apostolato. In questo programma
è ritratto Vitale.
Con Pio X, l’applicazione portò
inevitabilmente a contrasti. Il Saugnier nel suo “Sillon”
s’era spinto ad una forma eccessiva di democrazia, e i Papa condannava il
Sillonismo; il Modernismo, per troppo adattare il “Credo” al
progresso moderno, stava portando la fede all’agnosticismo kantiano, e fu
condannato con la “Pascendi” (1907), e la “Lamentabili”
(1908); anche l’Opera dei Congressi stava deviando con Murri ecc., e
anche qui l’intervento deciso del Papa, e lo scioglimento.
Lavoreremo ora di fantasia? No. Vitale, ben diretto
dal suo piissimo maestro, seppe mantenersi lontano dagli eccessi, e permanere
sinceramente nell’ovile da dove altri uscivano, senza per questo
rinunziare alla battaglia. L’origine delle sue idee sociali è
manifestamente nell’autorità della Chiesa. Il Toniolo gli scriveva (lett.
24 sett. 1911): “…negli stessi indirizzi e principi sociali, la
verità e le sue benefiche conseguenze pratiche si trovano sul cammino diritto
che ci viene dalla Chiesa e dal Pontefice…”. Accusato di Modernismo,
quello sociologico, fu difeso e scagionato dal vescovo Caracciolo, e
giustamente dunque.
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