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Adolfo Panarello

 

“PATENARIA” DALL’ALBA DELL’UOMO AL V SECOLO d.C.

Preistoria, protostoria e storia antica del circondario di Vairano Patenora

(Curti 1994)

(Vairano Patenora: preistoria)

Cap. I

Dalla preistoria all’età del ferro (pp. 21-31)

 

Le notizie sulla Preistoria del territorio studiato, al quale non è possibile associare toponimi attendibili fino alla fine del IV sec. a.C., sono quasi sempre azzardate, poiché non sono mai state effettuate indagini stratigrafiche entro i suoi confini.

Tuttavia la natura del suolo (che è ricco di sorgenti, di boschi, di laghetti pescosi e fertili pianure[1], e, forse, anche di fonti idrotermali) e i numerosi reperti litici, inducono ad affermare che esso fu frequentato sin dal Paleolitico.

Partendo da tale premessa e con la consapevolezza che la conoscenza dell’intera zona si fa sempre più nebulosa man mano che si va a ritroso nel tempo, tenterò una ricostruzione della storia antica dei luoghi, ossia dall’epoca a cui appartengono i più antichi manufatti ritrovati fino ad oggi (Tav. 1):

a)      un raschiatoio di selce marrone chiaro con sfumature di colore grigio, lungo cm 5,5, largo cm 4,5 e spesso mm 9;

b)      una punta di selce di colore beige picchettata di nero, con venature grigie e bianche, lunga cm 6 larga cm 3,5 e spessa mm 10;

c)      una piccola amigdala monofacciale di selce bruna con venature nere e verdi, lunga cm 7, larga cm 6 e spessa cm 2,5;

d)      un raschiatoio di selce bianca punteggiata di grigio,lungo cm 4, largo cm 2,8 e spesso mm 9.

 

I predetti utensili furono realizzati con una tecnica molto originale, dal momento che la scheggiatura ricorda molto quella riscontrata sui manufatti ritrovati ad Abbeville, mentre le dimensioni degli oggetti, l’assenza o la rozzezza del ritocco e la quasi totale mancanza di bifacciali rimandano ad un contesto clactoniano[2]. È, dunque, logico riconoscere l’esistenza in loco, di un’industria litica caratteristica e bene differenziata.

Al Paleolitico Superiore appartengono due raschietti (Tav. 1, “e” ed “f”): uno di selce bianca e grigia ritoccato delicatamente sui bordi e lavorato in modo da avere un costolone centrale con due spioventi (lungo cm 2, largo cm 2 e spesso mm 4); l’altro di selce marrone, tanto sottile da sembrare una scheggia di vetro, molto tagliente e con ben quattro spigoli vivi (delle dimensioni di mm 20 x mm 20 x mm 3).

Tutti gli utensili finora descritti sono stati ritrovati nei terreni a sud del Monteforte.

Altri manufatti litici, databili al Paleolitico Superiore, sono stati rinvenuti in località Acquerelli di Marzanello e nello stesso terreno a sud del Monteforte, che ha restituito i reperti già descritti.

Tra essi spicca un bulino di selce bruna con frammenti di cortice sul lato non scheggiato (Tav. II).

Al Mesolitico è databile una punta di roccia calcarea (Tav. III), delle dimensioni di cm 10 x cm 3,5 (nel punto di massima larghezza), di colore bianco, ritrovata di recente sulla pendice sud del Montauro. Essa si presenta fortemente erosa dagli agenti meteorici, per cui è difficile analizzare il grado di raffinatezza originario. Tuttavia il perimetro ondulato e la forma snella e allungata inducono a pensare che l’artefice avesse già individuato, in modo empirico, i rudimenti della balistica.

Allo stesso periodo sono databili i seguenti oggetti (Tav. IV), rinvenuti nei terreni della località Cerquasecca:

un raschiatoio di selce marrone chiaro con sfumature di colore grigio, lungo cm 5,5 largo cm 4,5 e spesso mm 9;

una piccola punta di selce di colore grigio-chiaro, con un lato molto tagliente, creato mediante un solo colpo di ritocco, molto preciso, vibrato sulla costola principale del nucleo di selce originario (cm 2,5 x cm 1,5 x mm 7);

una piccola punta di selce grigio-rossa, con un lato molto tagliente e scheggiato in modo da assumere una forma vagamente piramidale. È molto probabile che essa fosse una delle punte fissate in un corpo cilindrico di legno per realizzare una specie di rudimentale seghetto;

un raschietto di selce di colore grigio chiaro, di forma arcuata, ottenuto vibrando un unico colpo, ben assestato, sull’asse emisferiale del nucleo di selce originario, in modo da procurare un solo concoide e un solo dosso con un unico spigolo vivo molto tagliente (mm 30 x mm 13 x mm 8);

una punta di selce di colore viola con venature bianche e rossicce. I concoidi generati dal ritocco sono visibili solo sullo zoccolo, a testimonianza del fatto che essa veniva, probabilmente, impiegata come autonomo strumento di foratura.

Nel periodo in cui i descritti manufatti vennero prodotti, l’omogeneità culturale originaria dell’Europa Occidentale cominciò a svanire e nacquero culture diverse, forse in conseguenza di un primo processo migratorio proveniente da Est. Ciò si accentuò in seguito all’apparizione di quelle che furono, per millenni, le attività precipue dell’Uomo e che fiorirono nel Neolitico, cioè l’allevamento e l’agricoltura, anche se, fino alla fine dell’Età del Bronzo, nell’area in questione, la prima fu predominante rispetto alla seconda.

Il predetto fenomeno di differenziazione fu ulteriormente favorito dalla diffusione della ceramica. Infatti i motivi decorativi e costitutivi ad essa legati, risultarono particolari e caratteristici di popolazioni e zone ben distinte. Nello stesso tempo si ebbe un notevole sviluppo (non si sa se in conseguenza di un processo evolutivo autonomo o mediato dal contatto con altre genti) di nuovi rituali, abitudini e forme sociali, che determinarono il passaggio alla fase culturale più evoluta del Neolitico, in cui il perfezionamento della litotecnica e dell’osteotecnica, iniziato nel Paleolitico Superiore e protrattosi per tutto il Mesolitico, si completò ed ampliò. In tal modo, alle lame e lamette, coltellini, raschiatoi, bulini, perforatori, ecc., di rozza lavorazione, vennero a sostituirsi nuovi strumenti finemente lavorati e levigati e, quindi, in grado di soddisfare esigenze sempre maggiori.

Frammenti di asce neolitiche di roccia lavica o calcarea sono stati rinvenuti nelle località Cerquasecca e Palazzone (foto 3). Dai terreni della prima delle due località predette, poi, è affiorato un frammento di osso (foto 2) levigato e scanalato (lungo mm 25, largo mm 11 e spesso mm 2), evidentemente uno dei fioccagli di una collana, appartenuta a qualche donna defunta, inumata nei pressi del luogo del ritrovamento. Inoltre sulla pendice nord-ovest del Monteforte e in un piccolo tratto di pendice in località Cerquito, sono stati di recente rinvenuti alcuni frammenti di ceramica d’impasto molto rozza, lisciata a stecca e cotta a fiamma viva, che sono databili tra la fine del Neolitico e l’inizio dell’Eneolitico, e altri frammenti della ceramica nota come “bucchero preistorico”. È anche interessante notare che, insieme agli stessi frammenti, nel primo dei due siti predetti, erano anche resti di ossa di animali e un bellissimo percussore di selce e arenaria[3]. Ciò consente di ipotizzare l’esistenza, nei predetti luoghi, di rifugi abitati da nuclei umani.

Dopo la “colonizzazione” della Penisola Balcanica e della piana del Danubio, avvenuta tra il IV e il III millennio a.C., nuovi gruppi umani di origini orientali si riversarono in Germania, nei Paesi Bassi e nella Francia Settentrionale. A contatto con tali popoli, tra il 3300 e il 2200 a.C. circa, i cacciatori e raccoglitori indigeni cominciarono a praticare regolarmente l’agricoltura e ad abitare sedi stabili.

Successivamente, anche le coste della Grecia, dell’Italia, dell’Africa Settentrionale e della Francia furono visitate da altri popoli, in maggioranza di origini asiatiche, i quali, dopo aver percorso il litorale, si spinsero sempre più nell’entroterra e fecero conoscere agli aborigeni nuove tecniche di coltivazione e, forse, l’allevamento dei caprini.

« Questi gruppi, di cultura superiore, portarono con sé dalla loro patria d’origine o elaborarono nelle nuove sedi la più antica ceramica europea, detta impressa dal tipo di decorazione che la caratterizza. Le impressioni erano ottenute premendo sulla superficie del vaso (generalmente piuttosto scabra a causa delle impurità dell’argilla) vari strumenti a punta o, in alcuni casi, i polpastrelli delle dita o le unghie »[4] o il peristoma di alcune varietà di conchiglie.

Oltre i frammenti ceramici citati dal Caiazza[5], e dal Dr. Di Cosmo[6], ne sono stati rinvenuti moltissimi altri, databili con certezza allo stesso periodo Eneolitico e al Bronzo Arcaico (foto 4-5-6).

Per completezza, va anche citata l’esistenza di un cranio umano (foto 7) dalle insolite fattezze e proporzioni, notato tra le ossa accumulate nella cripta della Chiesa di Maria SS. Del Monte e fotografato in occasione dell’allestimento di una mostra fotografica e documentaria tenutasi nei locali della Scuola Elementare “Sgt. Ernesto Civilotti” in Marzanello. La sua conformazione indurrebbe ad ipotizzare l’appartenenza ad un tipo d’uomo dalle fattezze diverse da quelle dell’Homo Sapiens Sapiens, ma, a ciò, per il momento, non è possibile aggiungere altro.

Nel periodo compreso tra il XVIII e l’XI sec. a.C., si ebbe un ulteriore incremento del progresso tecnico dovuto alla resistenza e alla versatilità di un nuovo metallo, il bronzo, che, sostituito gradualmente al rame, si rivelò idonea ad un maggior numero di impieghi. Con esso si diffusero nuovi metodi di produzione, nuove abitudini di vita e nuovi rituali. Ciò diede impulso alla nascita dei primi villaggi nel senso proprio del termine.

Nelle aree, in cui essi sorsero, sono stati spesso ritrovati oggetti, utensili e frammenti ceramici caratterizzati da decorazioni più raffinate rispetto ad altre, dello stesso periodo, provenienti da siti isolati, a testimonianza del maggior grado di civiltà in possesso di chi sceglieva la vita collettiva.

Inoltre, « ossa di animali domestici risalenti a questo periodo si possono ancora trovare frammiste a quelle di animali selvatici, ma la percentuale di queste ultime risulta gradatamente in diminuzione e le specie rappresentate si riducono al cervo e al cinghiale »[7]. Orbene, oltre alla miriade di frammenti osteologici archeozoologici che sono stati rinvenuti insieme alle ceramiche neolitiche, eneolitiche e dell’Età del Bronzo, rispettivamente nelle località Cerquito, Corsara e Monte Catreola, durante gli scavi condotti da una cooperativa di giovani locali sotto il patrocinio del Comune di Vairano Patenora, allo scopo di ripulire, per motivi turistici, il sito della vecchia Marzanello, sull’omonimo colle, nell’anno 1989, in seguito allo sprofondamento casuale del pavimento dell’abside della chiesa antica, vennero alla luce altri resti ossei mescolati a frammenti di vasellame di ceramica d’impasto (foto 8). Fra essi spiccava una grande zanna di cinghiale. Ciò prova che anche l’area dove sorse la vecchia Marzanello fu abitata o, quanto meno, frequentata almeno a partire dall’Età del Bronzo. Tale scoperta, unita alla constatazione che frammenti della stessa età sono sparsi in tutta la Valle della Corsara e su tutta la pendice S-W fino alla vetta del Monte Catreola, lascia spazio all’ipotesi suggestiva di un insediamento arcaico di dimensioni insolitamente ampie.

Di un villaggio preistorico sulla vetta del Monte Catrèola, avevano già dato notizia prima l’archeologa Conta Haller[8], che sostenne di avervi riconosciuto resti di capanne e di cocciame del Bronzo Recente e poi il Caiazza[9] già citato, il quale affermò di non aver trovato i fondi di capanne, ma di aver comunque notato ceramiche ed altri elementi tali da fargli confermare la notizia dell’esistenza del villaggio che datò, al Bronzo Finale.

Sopralluoghi successivi hanno confermato la veridicità delle affermazioni dei due studiosi, infatti vi sono ceramiche di entrambe le epoche ed anche i fondi di capanne, ma hanno consentito anche di scoprire l’esistenza di materiali molto più antichi risalenti almeno all’Eneolitico. Tali scoperte saranno oggetto di una pubblicazione autonoma.

Resti di intonaco di capanne straminee sono stati anche rinvenuti secondo quanto riferisce il Caiazza[10], anche ai piedi del Montauro e nei pressi del Colle Vrecciale, a testimonianza della presenza di qualche piccolo villaggio anche in quei luoghi.

Ai frammenti ceramici pertinenti a vasellame di varie forme e dimensioni provenienti dai siti nominati, si aggiungono anche i resti di altre suppellettili, come macinelli di pietra lavica, ciambelloni distanziatori d’impasto e fornelli fittili di tradizione appenninica.

La ceramica dell’Età del Bronzo, quasi sempre bruna, rossiccia o nerastra appare comunque molto resistente e di impasto estremamente vario. La sua superficie esterna è, spesso, decorata a squame, a cordoni (semplici o digitati) e/o ad impressioni di varia natura. Allo stesso periodo appartiene anche una particolare ceramica di colore bruno molto scuro, quasi nero, sia nell’impasto che nell’aspetto esteriore, di consistenza notevole e molto compatta e resistente, generalmente sottile, denominata “ceramica buccheroide”, per la sua somiglianza con i successivi buccheri etruschi.

I vasi sono spesso completati da anse fantasiose, tra cui anche le crestate, simili a quelle provenienti da stazioni della Bosnia e del Veneto, a testimonianza dell’esistenza di relazioni sociali già notevolmente estese.

Non si hanno notizie, fino ad oggi, di ritrovamenti di oggetti d’arte in bronzo, per cui non è possibile fare ipotesi sul livello di abilità metallurgica degli artefici locali.

Sulla provenienza del materiale di origine vulcanica, che è presente, in forma di inclusi in molti degli impasti ceramici adottati nel luogo, che costituisce la materia prima di molti rudimentali utensili e che si trova libero nei terreni sotto foema di massi e frammenti di varie dimensioni, si è discusso molto da parte di storici, geologi e studiosi di ceramica. Tra essi, molti sostengono che la probabile sede d’origine sia da identificare con la vicina Rufrae, rinomata in età storica anche per la produzione di macine destinante ai frantoi. Su tale ipotetica provenienza non sono del tutto d’accordo. Infatti, seppure una parte di esso fosse stata, per così dire, importata, l’enorme quantità di vene vulcaniche sotterranee e il materiale lavico appena nominato, inducono a credere che gli artigiani locali potessero reperire anche in loco i materiali di cui avevano bisogno, evitando di compiere scomode escursioni nelle cave del vicino centro abitato.

Non si può dire, invece, in mancanza di uno studio geologico approfondito, se i materiali suddetti si formarono nel luogo quando nacque la Terra o se provengono dalle viscere del nostro Vesuvius[11], il vulcano di Veseris, in conseguenza di una violentissima eruzione esplosiva, prodotta da uno dei suo numerosi crateri avventizi e verificatasi nella notte dei tempi.

Va, comunque, citata, a tal proposito, l’esistenza di fumarole sul versante S-W del Montauro attive fino agli Anni Cinquanta, che, di certo, nell’antichità più remota, non furono eventi isolati, ma fenomeni di un vulcanismo periferico legato all’attività dell’edificio vulcanico del suddetto Vesuvius, ossia del Roccamonfina.

Tutto ciò, aggiunto alla constatazione che esiste una quantità enorme di argilla nei luoghi considerati e uno sterminato assortimento di resti fittili di ogni epoca e tipologia rinvenuti ovunque, fa ipotizzare in situ, già dall’età arcaica, la presenza di una fiorente “industria” locale.

Non sono pochi gli storici che hanno sostenuto che il passaggio all’Età del Bronzo sia stato la conseguenza di un processo immigratorio. A tal proposito, vorrei ricordare che affinché la deduzione storica di un avvenuta colonizzazione o spostamento etnico risulti attendibile, devono verificarsi quattro condizioni:

a)      che la regione in cui supponiamo avvenuta la immigrazione fornisca serie prove di essersi attardata e isolata durante l’eneolitico, sviluppando nella industria indigena uno stile proprio;

b)      che l’età del bronzo non sia soltanto contrassegnata dalla presenza di oggetti metallici delle lega più perfetta e di nuove fogge (cosa di nessuna importanza etnica e avvenuta dappertutto come semplice effetto delle relazioni commerciali) bensì offra un profondo mutamento dello stile nei prodotti locali;

c)      che il nuovo stile delle industrie locali dell’età del bronzo sia affine non già al precedente stile indigeno eneolitico, bensì a quello della regione da cui si suppone avvenuta la immigrazione, e costituisce una continuazione di esso in fase più avanzata, non escludente accenti e sviluppi particolari;

d)      che la tradizione storica, e meglio i dati scritti prescindenti da qualsiasi narrazione di eventi storici, serbino la memoria o forniscano la controprova dell’avvenuta migrazione[12].

Nel caso dell’area esaminata, non si può considerare verificata con certezza nessuna delle quattro condizioni, per cui è più logico ipotizzare una continuità di sviluppo di origine locale che portò ad una fase culturale più evoluta.

Gli agglomerati “urbani” dell’Età del Bronzo furono costituiti da gruppi di capanne a base rettangolare o grossolanamente ellittica, meno spesso di forma circolare, con pareti formate da intrecci di rami e frasche con intonaco di argilla e con tetto realizzato in paglia e/o in pelli. Tali intrecci erano sostenuti da una struttura portante di pali lignei infissi nel terreno e saldamente connessi tra loro. I fondi delle capanne, ora a fior di suolo ora incavati, erano spesso resi compatti e rinforzati da letti composti di frammenti di materiale legnoso, corteccia, schegge, ossa di animali, ecc. I pali di posizione verticale e anche le sottili pareti erano rinforzate, alla base, da un notevole strato di argilla o da cumuli di pietrame. L’apertura di tali rudimentali abitazioni era rivolta alla parte del cielo in cui il sole si mostrava per maggior tempo.

Le “città” di capanne conservarono planimetria irregolare anche nella prima Età del Ferro e, solo dopo i contatti con gli Etruschi e i Greci, cominciarono ad essere realizzate sulla base di un preciso piano regolatore.

Il passaggio all’Età del Ferro non fu brusco.

Dopo la scoperta del metallo si resero necessarie strutture e tecniche che ne consentissero un completo e oculato sfruttamento. Le fasi dello studio, della ricerca e della realizzazione di esse dovettero essere faticose, ma gli sforzi furono ricompensati dalla produzione di utensili dotati di grande resistenza e di grande forza di penetrazione (vanghe, zappe, vomeri, aste, picconi, falci, seghe, coltelli, lance, spade, pugnali, ecc.).

Nella prima Età del Ferro, la parte meridionale dell’Italia vide una pesante flessione negli scambi commerciali con le popolazioni minoico-micenee e un incremento delle relazioni con il mondo greco che favorì l’arrivo di nuovi strumenti e di nuove tecniche di lavorazione del metallo, oltre che di una enorme quantità di nuove ceramiche con accattivanti ornamentazioni e, forse, anche della conoscenza di nuove tecniche di incastellamento e di difesa.

In Campania, secondo l’opinione della maggioranza degli studiosi, il ferro fu introdotto intorno al IX sec. a.C., ma il suo uso fu limitato, in quanto il metallo più diffuso e usato rimase il bronzo. Solo intorno alla prima metà dell’VIII secolo si ebbe una maggiore diffusione e solo nel VII esso fu usato correntemente.

A questo periodo appartengono numerosi oggetti ornamentali (reperiti in aree in cui sorgevano tombe o luoghi di culto) di ferro e non, come campanelle ed anelli di forme svariate, catenine “a fioccagli” con pendaglietti a ciliegia, falere, armille (decorate, talvolta, con frammenti d’ambra), fibule, ecc.

Alcuni oggetti di uso comune, coltelli, rasoi, falci, punzoni, ecc., sono stati rinvenuti nei terreni della “Cerquasecca” (foto 9).

In località “Pierti”, nel 1992, casualmente, durante l’aratura di un fondo, vennero alla luce i resti, orrendamente deturpati dal vomere, di un ossuario di piombo, con dubbi resti di una colorazione bruna, del tipo di Villanova. Non si sono ritrovati, finora, i resti della ciotola che doveva fungera da coperchio, ma è certa la sua esistenza per il fatto che il labbro che delimita l’orlo del vaso (del diametro di cm 16) è ad angolo retto con la spalla e non presenta segni di lavorazione o di lisciatura, evidentemente perché quella parte era destinata a non essere visibile in quanto celata dal coperchio.

La forma del contenitore ricorda il vaso da acqua greco o “idria”, con cui le donne andavano ad attingere alla fontana e che poi riportavano sul capo al villaggio secondo un costume non ancora del tutto scomparso. Non si deve, comunque, ignorare che il reperto menzionato non può di certo essere confuso con la predetta suppellettile, per le sue dimensioni (altezza cm 72, diametro di base cm 29, diametro dell’orlo cm 16, diametro massimo della pancia cm 32) e per il peso eccessivo. A tal proposito va ricordato che il piombo era considerato, nell’antichità, un materiale vile. Ciò, in aggiunta alla totale assenza di corredo funerario, induce a pensare che quella involontariamente profanata fosse una sepoltura povera. Nella stessa stazione sono stati ritrovati i resti di una lastra di marmo grigio cenerino con venature bianche, di forma rettangolare, dello spessore di cm 1,5, delle dimensioni di cm 60 x cm 30, con orlo irregolare; e un’urna di marmo bianco, splendidamente lavorata, di forma rettangolare, alta cm 20, larga cm 34 e lunga cm 64, che doveva avere come coperchio la predetta lastra e che si può datare all’Età Romana.

Generalizzando in merito alle sepolture in Campania, si sa che, all’inizio dell’Età del Ferro, era ancora praticato il rito dell’inumazione e il defunto veniva deposto in una fossa di forma quasi sempre rettangolare in posizione distesa o supina, raramente con le gambe flesse, ma non mancano gli esempi di altre strutture sepolcrali.

Le incinerazioni, come dimostrano i ritrovamenti di Suessula, di Rufrae (Presenzano) e di Piedimonte d’Alife, sono relativamente tarde e forse sono dovute più all’influenza greca che a quella villanoviana.

Il corredo funebre era quasi sempre formato da alcuni oggetti in bronzo (non sempre presenti) e da una quantità variabile di oggetti di ceramica di evidente tradizione locale, più raramente d’importazione. Prevalgono le olle e le anfore spesso decorate con bugnette, le tazze e le capeduncole, talvolta con omphalos e anse alte a setto, o bifore o a cornetti. Non mancano, soprattutto nelle sepolture più recenti, frammenti di brocche, fiasche fittili a forma di askoi e rari vasi a più beccucci. Le predette ceramiche sono ora brune o rossicce (di impasto poco o niente depurato), ora giallastre (di impasto più depurato e, spesso, con la superficie lisciata e lustrata), ora nere o grigio brune.

Solo raramente sono stati segnalati oggetti di metallo prezioso.

Sepolture arcaiche, nel territorio considerato, sono sparse ovunque e, non di rado, gli agricoltori locali, dissodando il terreno, maciullano involontariamente col vomere le loro strutture. Fino ad oggi, si ha notizia di sepolcri dell’Età del Ferro nelle località “Taverna”, “Cerasele”, “Taverna del Monaco”, “Cannalonga”, “Pierti”, “Palazzone” (e territori circostanti), “Uliveto”, “Acquarelli”, “Cerquito”, “Starza”, “Feudo”, “Casepente” e “Valle della Corsara”.

 

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[1] In particolare nelle località Acquarelli e Verdesca, i cui terreni sono prodighi di reperti.

[2] “Clactoniano” = Relativo alla stazione preistorica di Clacton on Sea.

[3] Cfr. A. Panarello, R. Lugli, M. De Angelis, A. Liberti, L’età della Pietra nel Comune di Vairano Patenora. (Note preliminari), Vairano Patenora 1994, p. 31, Tav. IX.

[4] Cfr. Storia Universale Rizzoli-Larousse, Milano, 1973, pp. 218-219.

[5] Cfr. Caiazza D., Archeologia e Storia Antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte Maggiore. I - PREISTORIA ED ETA’ SANNITICA, Isola del Liri 1986, p. 36: « È scontato che la Piana di Pietramelara… fu teatro della vita degli Eneolitici.

A conferma di questa ipotesi è venuta una significativa scoperta. Ho infatti raccolto ai piedi di Montauro, nella frazione Marzanello di Vairano Patenora, in un giovane oliveto sovrastante la fontana degli Acquarelli, due frammenti di impasto abbastanza depurato, rosa chiaro, con minuscoli inclusi silicei. La superficie esterna è nera e decorata con una fitta serie di impressioni digitali, ricavate nell’argilla cruda, che consentono di attribuire le due olle cui appartenevano i frammenti ad un repertorio di tradizione eneolitica… ».

[6] L. Di Cosmo, Ceramica preistorica dalla località Corsara in Vairano Patenora - Note preliminari, Sant’Angelo d’Alife 1988.

[7] Cfr. Storia Universale Cit., p. 220.

[8] Cfr. Conta Haller G., Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campano-sannitica (Valle del Volturno-territorio tra Liri e Volturno), “Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli”, Monumenti, III, Napoli 1978, p. 33 e tav. XXVI.

[9] Cfr. Caiazza, Op. cit., pp. 66-68.

[10] Cfr. Caiazza, Op. cit., p. 53.

[11] « Veseris è la località dove avvenne la battaglia del 340 a.C., in cui fu dai Romani sconfitto l’esercito confederato composto da Latini, Volsci, Aurunci, Sidicini e volontari capuani.

Si trovava, come dice Livio (VIII, 8), “non lontano dalle radici del Monte Vesuvio”, il quale monte, per ovvie ragioni, non potrebbe essere quello situato nei pressi di Napoli noto per il famoso vulcano. Ed allora bisognerebbe ammettere o che Livio abbia preso una cantonata, una di quelle che, con molta disinvoltura, gli attribuiscono sia storici di chiara fama, sia studiosi locali, oppure che col nome Vesuvius si indicava un altro monte, situato in altra località vicina topograficamente e strategicamente al territorio confinante con quello che i Romani detenevano nell’anno della battaglia di cui sopra. Ora, poiché è comune opinione degli storici più accreditati che i Romani in quella occasione abbiano attraversato il territorio amico degli Ernici e quello successivo dei Volsci, lungo il basso Liri, fino ad incontrare l’esercito nemico nel paese degli Aurunci, è in questa zona che va ricercata la località di Veseris e, di conseguenza, anche il monte Vesuvius. Quest’ultimo termine, analizzato nella sua struttura toponomastica, sembra la risultante di due entità, rispettivamente Vesu e Vius; con la prima sezione, al tempo in cui ci riferiamo, si doveva indicare una località venerata perché sede della divinità italica Vesuna; con la seconda si indicava semplicemente la via che portava a tale località. Ma poiché Veruna era la dea del fuoco, la località così venerata doveva essere un monte che cacciava fuoco, cioè un vulcano, come dicevano i greci. L’unico monte che cacciava fuoco nel territorio configurato era quello di Roccamonfina; a questo monte, pertanto, dovette essere attribuito, nella più alta antichità, probabilmente da popoli ausoni, il termine di Vesuvius; termine che, in tempi storici, quando il nostro vulcano si spense, fu traslato al monte fumante di Napoli » (Cfr. A. Riannetti, Notiziario Archeologico (Ciociaria e zone limitrofe), II, Cassino 1988.

Cfr. inoltre Calce E. e P., Galluccio. Civiltà, religione e brigantaggio, Calamari 1975, pp. 28-30.

[12] Cfr. Patroni G., Storia Politica d’Italia. LA PREISTORIA, I, Milano 1937, pp. 453-545.