Introduzione.
Incoraggiato dagli studi magistrali che si
pubblicano sui secoli e le correnti della Letteratura italiana, ho voluto
brevemente trattare di un poeta petrarchista del ‘500 appartenente al gruppo
napoletano: Ludovico Paterno.
Non è dei principali, ma non per questo ho creduto
debba essere completamente dimenticato; si rifà per sistema al Tetrarca, senza
che sia privo al tutto di qualche originalità. Nel vasto movimento
petrarchista, che informa di sé tutto il ‘500, rappresenta anch’egli una certa
manifestazione di sentimento ed una personalità caratteristica, anche se modesta.
Mostro soltanto il poeta e non tratto il
petrarchismo, ché non sarebbe il caso. E do di lui un breve cenno sulla vita e
un rapido sguardo alle sue poesie. Mi permetto pure avanzare qualche giudizio
personale.
A
chi cerca date dirò che Ludovico Paterno nacque a Piedimonte d’Alife il 12
febbraio 1533. Molti letterati hanno dato Napoli per luogo di nascita, ma che
sia piedimontese si ricava qua e là da tutta la sua opera, dalle tradizioni e
dalla storia del luogo; la data di nascita poi da un sonetto. La famiglia era
distinta. Il padre Giacomo, titolato di nobiltà equestre, era notaio e
possedeva, tra l’altro, un palazzotto nel rione S. Giovanni – l’antica
Piedimonte – sul cui ingresso è ancora murato lo stemma di famiglia, e casa a
Napoli, a S. Giovanni a Carbonara. Ludovico nel paese natale ebbe per primo
maestro Francesco Filippo, un umanista, anch’egli piedimontese, che aveva
pubblicato a Venezia un Commento all’Arte poetica di Orazio dedicandolo a
Ranuccio Farnese.
Ludovico cominciò in seguito a studiar legge, e
all’Università napoletana ebbe maestri famosi quali Simone Porzio ed Ettore
Minatolo.
Ragazzo di dieci anni appena, in Piedimonte vide per
la prima volta la donna dei suoi sogni: Lucrezia Montalto moglie del conte
Luigi Gaetani d’Aragona, della casa feudataria di Piedimonte. Da quel momento –
secondo quanto dice egli stesso nei versi – l’immagine di lei gli rimase fissa
nella mente.
La rivide dopo anni e, ormai giovane, sentì di
amarla e per Lei cominciò a cantare.
Il suo amore era tenuto gelosamente occulto, e mai
il vero nome di lei appare nei suoi versi: la chiamò Mirzia dall’albero sacro
alla dea dell’amore. Tutti ignorarono il fatto finché visse il Conte Gaetani.
Si cominciò a capire, quando, morto costui, essa sposò Cesare Cavaniglia Conte
di Troia e di Montella. Solo quando madonna Mirzia morì, il 3 aprile 1550, il
segreto si seppe da tutti: il Paterno era troppo desolato per poter nascondere.
Messer
Ludovico viveva a Napoli in una sua casa come ho detto, e alcune volte
trascorreva brevi periodi in una villetta sul mare tra Baia e Cuma. Essendo
cavaliere per nascita fu al seguito di qualche signore secondo l’uso
cavalleresco del Cinquecento; e il suo signore fu Don Alfonso de Cardines
marchese di Laino e conte di Lacerra, ma non pare vivesse contento a questo
servizio. Ogni tanto tornava a Piedimonte per vederla e alla partenza di lei
per Troia in Puglia quale sposa del conte Cavaniglia “… poi ch’ella ciel
cangiò, voglia e desìo”, ne rimase afflittissimo. Di suoi rapporti reali con
Madonna Mirzia nulla si è mai saputo. Non esistevano.
Fu celibe, sempre molto praticante della Religione,
visse di studi e di intimi sentimenti. L’ultima notizia che se ne ha è un atto
notarile del 1575.
Poi cessa ogni sua attività ed egli scompare. “Quo
loco et anno mortuus ignoratur” dice l’iscrizione ad un suo ritratto nel
piccolo museo di Piedimonte. La tradizione piedimontese però aggiunge che vestì
l’abito domenicano e che morì nel convento di quell’Ordine in Aversa.
Il suo sentimento e il suo canto sono finzione o
realtà?
La questione è complessa e, brevemente, intendo
esaminarla nei suoi vari aspetti.
La prima risposta è che sia finzione. Non era egli
un petrarchista? Non ha imitato in tutto il cantore di Laura? Tutto nei suoi
versi è preso a prestito dal Tetrarca: materia del canto, stile, tormento
intimo, persino vocaboli e frasi. L’imitazione uccide la spontaneità del
proprio sentimento e rende schiava l’espressione. E per questo il Paterno, pur
essendo dotato di concetto preciso, di padronanza del verso, di innato
sentimentalismo, non sa essere mai un vero poeta, anzi, nella maggior parte dei
casi, si riduce ad essere un buon verseggiatore e nient’altro.
Ove si aggiunga a tutto questo l’influenza
dell’epoca e dell’ambiente in cui visse – il secondo cinquecento napoletano –
si vedrà chiaramente che i critici non hanno avuto torto nel qualificarlo
sfavorevolmente.
Si può opporre che il Paterno sia sincero. La sua
vita non corrisponde alla sua mentalità? I contemporanei lo hanno stimato
modesto, sognatore, solitario, e questi caratteri sono chiarissimi nella sua
opera. Sol perché fu petrarchista egli mentiva? Ma il petrarchismo, imposto dal
Bembo a tutta l’intellettualità italiana, potrebbe pure essere soltanto una
forma, una veste ben adatta a certe caratteristiche mentalità. Una di queste
era il Paterno, la cui indole non poteva certo ispirarsi alla forza di Dante ma
perfettamente s’accordava al languido pianto del Petrarca!
Pure, un’ipotesi da psicanalista ci potrebbe forse
portare, se vera, ad una più esatta valutazione. Tradizioni e documenti
biografici non ci parlano di altri amori – ideali o reali – del Paterno.
L’indole poi di lui, timida e fiacca, ci potrebbe spiegare quel suo chiuso
mondo di sogno, fittizio e fantastico.
Di qui – influendo per giunta su tutto questo la
cultura in cui si formò, - apparirebbero chiaramente le cause della timidezza e
fiacchezza del carattere, e il perdurare di lui in un amore fantastico e non
reale.
Quanto poi alla poesia religiosa negli ultimi anni
di vita, essa potrebbe benissimo essere un fenomeno tra sublimazione e
reazione.
È questa una pura ipotesi, dato che mancano notizie
particolareggiate e sicure sulla vita del nostro Poeta. Potrebbe però sostenere
l’idea di sincerità nel suo lungo e strano sogno d’amore.
Che scrisse il Paterno?
In Venezia, nel 1560, stampato dall’editore
Bevilacqua, veniva diffuso nientemeno che un “Nuovo Petrarca di messer Ludovico
Paterno” dedicato a Filippo Il Serenissimo Re Cattolico. Senonché, contro il
nuovo Tetrarca si scagliarono i critici e letterati, scandalizzati per tanto
ardire.
Devo dire però che il modestissimo Paterno non aveva
colpa. Il Tafuri[1] ne
attribuisce la colpa al Valvassori che sosteneva le spese di stampa e pensava
che un simile titolo avesse fatto straordinaria propaganda all’opera. Sempre il
Tafuri assicura che sul frontespizio del manoscritto aveva letto semplicemente
“Rime”.
Nel 1564 le “Rime” venivano ristampate in Napoli da
Giov. Maria Scotto in due tomi ma con titolo mutato. S’intitolavano: “Della
Mirzia di messere Ludovico Paterno. Parte 1° e 2°”
La Mirzia è ampliata rispetto al nuovo Tetrarca.
Quattro anni dopo l’editore Giov. Matteo Maida
stampatore palermitano ne pubblicava la 3° parte, e Mario degli Andini
presentava l’opera “ai benevoli lettori”.
L’opera minore “Nuove Fiamme” fu fatta stampare pure
dal Valvassori a Venezia nel 1561, e se ne fece anche una seconda edizione,
riveduta, dall’editore Guglielmo Rosillio di Lione nel 1568.
Delle Rime fanno parte i “Trionfi”.
Io ho esaminato tutte le edizioni, meno l’ultima del
Rosillio[2]
Non
ho fatto che scegliere qua e là quel che a me dopo un rapido esame è sembrato
il meglio. E quel che ho scelto, quel che ho illustrato, non è certo lo
sdilinquimento amoroso, non le metafore sperticate o l’encomio servile, ma
quanto vi si accoglie di sentimento e di fantasia, e cioè quanto vi è di
poetico.
Già ho detto nei cenni biografici che l’opinione dei
critici sul Paterno non è favorevole. Non intendo contraddire tutto questo.
Voglio soltanto mostrare che, accanto alle deficienze, vi è pure qualche cosa
che merita di essere apprezzato.
Pongo innanzi al lettore. Per prima immagine, la
donna amata.
Essa è il centro della poesia del Paterno. Vediamola
con gli occhi del poeta innamorato[3]:
Né mai più chiaro il sol
vidi levarsi
del bel crin di costei che sì traluce;
né per la notte ir mai serena luce
che a quei begli ochhi suoi possa agguagliarsi …
Versa il volto gentil or
fuoco or ghiaccio. (pag. 6).
Le immagini, sebbene esagerate e convenzionali, sono
vivaci, e non mancano di delicatezza. Dello stesso genere ma più plastica è
quest’altra:
Crespo, dorato crin, che ad
amorose
viole intorno, e a neve calda voli;
viso, cui quanta luce hanno i duo poli
l’alma Natura con sue man ripose,
candide perle fra due fresche rose;
grata armonia che i cori e l’alme involi … (p. 48).
C’è del manierismo, ma non si può dire sia assente
una certa emozione e soprattutto la capacità descrittiva.
Mirzia è la figura dominante nel quadro. Dietro ed
intorno ad essa il Poeta ci mostra l’ambiente in cui la vide e sognò. È il suo
paese natale: Piedimonte, allora piccolo e caratteristico borgo ai piedi del
Matese. Ed egli ce lo presenta trasfigurato ai suoi occhi d’innamorato e lo
descrive con parole da elegia.
Il colle è il Monticello[4],
rivestito di ulivi, la valle è quella che – già detta Valle di Alife – portò
poi il suo cognome, il fiume è il Torano, il monte è il Cila che domina
Piedimonte.
Colle, ch’udisti i miei duri
lamenti;
valle, in che ‘l pianto mio scolpito stassi; …
monte, ch’un’altra volta intendi e senti
il languir che via grave ognor più fassi;
fiume, che il tuo bel corso antico lassi …
Ecco che a voi ritorno: amor
mi mena
e l’aria che già fu pietosa e calda
spesso dei miei sospiri e di mia pena … (p. 7).
Come il Petrarca anch’egli, in piccolo, sa
presentare il suo quadretto offuscato dall’emozione.
Senza Mirzia però il paese natale è vuoto! Essa s’è
trasferita per poco alla capitale (Napoli); l’amante la segue col pensiero e
col sentimento accorato:
Quando per fare altrove il
paradiso
lasciaste me col bel natio paese,
dietro a voi l’alma il suo cammin riprese
lasciando il corpo gelido e conquiso … (p. 38).
In momenti di languore ogni cosa ricorda lei al
Poeta. Ed il caratteristico paesaggio gl’ispira tenerezza e attaccamento,
velati di petrarchesca malinconia:
Lasso me, non è questo il
bel terreno,
dove nutrito fui sì dolcemente?
Non è questo il mio patrio e
bel torrente
che vien di rotte perle e d’amor pieno? …
Qui per mio mal, qui per mia
sorte giacque
la donna del mio cuore, a pié d’un Mirto
che ‘l verno mai non perde o mor la state … (p.
174).
Esaminiamo ora il suo amore. Il Paterno, per indole
languido e sognatore, riesce abbastanza bene negli stati d’abbandono e di
tenerezza. Ne scelgo qualcuno. Ecco un momento di senso amoroso, fiducioso e
calmo:
Così dolce e soave è il mio
bel foco
ch’io moro e di morir sono contento: …
A sì gran bene ogni dolore è poco,
a sì gran gioia è poco ogni lamento …
In laccio, in servitù godo …
(p. 11).
Altra espressione tenera, l’ha dopo un momento di
trepidazione.
Mirzia è stata colta da malore, poi, guarita, esce. Il
tremito dell’innamorato si calma nel vederla. È un sonetto semplice e spontaneo
e perciò sentito:
Qual madre, se il figliuol
vivo, che spento
credea, vede tornar, tanta dolcezza,
e tanta nel suo cor stringe allegrezza
che la lingua formar non puote accento.
Tal io, quando uscir vidi in
un momento
onde inferma giacea, somma bellezza;
e dare agli occhi miei quella vaghezza
per cui nulla oggi più tremo e pavento … (p. 55).
E sentitelo ora: l’amore, dalle dolci sofferenze,
non può che piacere:
Io benedico il primo dì, che
tanto
piacquero agli occhi miei vostre bellezze …
E benedico quel tempo ch’o
pianto
dolci battaglie e placide durezze; … (p. 67).
Dalla sua casa posta più in alto del castello dei
Gaetani può seguirla da lontano con lo sguardo ed estasiarsi, finché prorompe:
Se cento volte il dì madonna
io veggio
nova bellezza in lei trovo e rimiro … (p. 118).
L’amore rende fanciulli, e la collera d’un momento
si converte in nuova tenerezza. Forse qualche scenetta del popolo gli ha
suggerito il paragone:
Qual pargoletto ch’in error
trascorre,
dalla madre percosso infin al pianto
a lei dopo che in ira è stato alquanto
teneramente e con pietà ricorre.
Tal questo cor che vostri
sdegni aborre,
donna, cui notte e dì prego cotanto,
sospirando vi chier mercè di quanto
umil cercò per suo rifugio torre … (p. 172).
Dal suo sogno intimo niente lo distrae. Eccolo in un
momento di dedizione intera in cui ci mostra rapidamente l’immagine di una
donna aristocratica e bella, elevata e quasi solenne:
L’alma intera io ti mando,
io ne vò senza
per inospiti luoghi ermi e selvaggi,
Donna de la cui dolce, alta
presenza
Escono fuor mille celesti raggi; … (p. 198).
La partenza del Paterno per Napoli è un momento
drammatico. La piccola Piedimonte, nel cui castello vive l’amore suo, svanirà
in lontananza (nel sonetto pare si alluda al suo servizio presso il marchese di
Cardines ed alla solitaria villa verso Cuma).
Poiché destino o forza od
error vuole
ch’io mi parta, Ben mio, ch’io t’abbandoni
ch’in dura servitù d’altrui mi doni,
che sovr’alghe di mar cerchi viole …
Dicasi che il mio duolo è in
piena fonte …
E gli sembrerà che il Cila e le valli facciano eco
al suo lamento:
Vita mia, vita mia, dove ti
lasso? (p. 249).
Tanto per respirare, come parentesi a tanti spasimi
amorosi, mi piace riportare qualche saggio della sua cultura e della sua
mentalità in fatto di scienze. Inutile dire che le sue opinioni appartengono al
secolo ed all’ambiente: il Paterno non fa voli. Dal punto di vista artistico ha
però il merito di sapersi riportare sempre a quanto gli interessa. È convinto,
tra l’altro, che le stelle “empie, crude, maligne, invide” siano causa di una
vita come la sua, destinata a soffrire. Strabiliante, poi, è la ragione che dà
della genialità di Dante e Petrarca, nonché del suo amore per Mirzia.
L’astrologia gliel’ha fornita:
Se da le stelle vien dura
infelice
o fortunata vita a noi mortali:
né per aver d’altro saver uom l’ali
può far lo stato suo lieto e felice,
chi pianse Laura e chi parlò
di Bice, …
certo d’amor gli affanni ebber fatali …
E ‘n rara sorte ancora ebber
dal cielo
chi lor mostrò la gloriosa via,
si vana è veramente ogni nostr’opra.
Tal ch’io dirò ch’in me la
fiamma e il gielo
non dai begli occhi de la donna mia
nasca, ma dal voler ch’è là di sopra (p. 80).
Non occorrono commenti.
Ancora un saggio di cultura astrologica. Il sonetto
ha l’unico merito di esser ben diviso tra la cometa e Mirzia, entrambe cause di
quel che avviene nel mondo e a lui:
Guerre, e strage di genti,
affanni ed ire;
od uscir degni Eroi tosto di vita,
chiara ne mostra su stella crinita
che suol per altro in ciel rado apparire …
Gl’insoliti tuoi rai non
altamente
minacciano ruina al viver mio, …
Perché s’alcun valor mi fea
possente
Tutto venia da te, Donna immortale,
lasso, com’or poss’io solo, e restio? (p. 183).
La sua erudizione storica e mitologica è fenomenale.
Basta scorrere i “Trionfi”. Qui non ne parlo. Mostro invece un saggio della sua
cultura geografica, anch’essa bene innestata con la passione amorosa:
Come nel verde Egitto mai
non piove
né verno vi si prova, e ‘n nulla foggia
vi si sente cader l’ira di Giove …
come il Nilo che “ … sì rado ergendo poggia … ne’
campi; e bagna, sforza, apre e commuove …” così
… tu, Donna, di mercè
ribella
istilla rado almen nel cor mio tanto
afflitto,
pio licor, con vaga mano (p. 190).
Ma torniamo ora all’amore, o piuttosto alle sue
illusioni.
In una delicata canzonetta egli, pur nella continua
delusione, pur nella esasperazione che gli fa desiderare la morte, non può non
sperare e rivestire d’immagini palpitanti l’oggetto del suo desiderio.
Do qui per intera la breve composizione:
La speme incerta, e ‘l mio
certo dolore
aggiunto col timore, hanno mia vita
in tutto ormai finita,
né ancor vi manca un troppo estremo ardore.
Che farò dunque? Ahi,
dispietata sorte,
morrommi disperato?
O sarò consolato
d’alcun breve piacer anzi ch’io mora?
Aspetta un poco, o dolorosa
morte,
chi sa, se nel gelato
fianco, di sdegno armato
entra mercè, che si richiamo ogni ora?
Tu, per cui tutto il mondo
si scolora
fa ch’io quella pietate in te ritrovi,
che rade volte movi;
e di cui senza è per mio danno, Amore (p. 19).
Il verso più bello è per me: “Tu, per cui, ecc.” che
riesce a dare con rapidità e forza l’illusione d’amore per cui l’innamorato,
nella contemplazione dell’amata, dimentica la realtà.
Accanto ai momenti di estasi (Occhi beati, che le
nubi intorno e le nebbie sgombrate …) vi sono naturalmente momenti di nera e
sconsolata delusione. E il Paterno, nel suo amore timido, intimo, ignorato e
perciò non corrisposto, ne ha anche troppi. Voglio citarne alcuni. Il suo amore
qualche volta gli appare in una spietata realtà. Così avviene quando invoca la
venuta di Marzia, assente. Ma, riflette e che ne ricaverà?
Tu bramo, alma, e che brami?
Il tuo dolore
nel venir di colei ch’ami cotanto;
calar da qualche requie in novo pianto
con più superbo incendio ardere il core.
Che chiami, chi di mille ahi
non risponde
Ad uno? … (p. 105).
Questa apostrofe, o meglio, questa meditazione la
trovo naturale e sentita. L’immagine poetica vi si alterna a quella di una
donna reale, e l’illusione dei primi versi cede il posto a un’amara delusione.
Finora ha parlato di lei e dei suoi sogni e delle
sue pene, ma non ancora abbiamo visto l’uomo di fronte a sé stesso. È
necessario accennare a queste poetiche riflessioni. È speranza di far breccia
suscitando pietà, o è piuttosto pietà di sé stesso che gli fa investigare e
riflettere sulle sue condizioni? Comunque sia, egli lo fa, al solito,
languidamente, silenziosamente. Sentite quanta tenera nostalgia, quanto
rimpianto per quell’età infantile, irrimediabilmente passata (ma purtroppo è
Petrarca!).
Nel dolce tempo de la prima
etade,
lieto senza saper che cosa fosse,
che dappoi seppi o laccio, o fiamma, o strale
con che mi strinse Amore, arse e percosse,
vissi a me stesso cara libertade
agli spirti del cielo in vista eguale … (p. 27).
Ed ecco una riflessione che del tormento:
… Ora il tormento m’è soave
e caro
il piacer noia, ogni abitato loco
spiace a quest’occhi …,
Dura condizion: odiar me
stesso
altrui bramare, e per un solo affetto
mille guerre in non cale aver poi messo … (p. 36).
Il Graf[5]
definì il Paterno “poeta da succiole” ed io riconosco che in generale è così.
Ma l’uomo più sentimentale non ha forse i suoi momenti di ribellione? Non gli
sfuggono invettive? Anche messer Ludovico è tale. Anch’egli sa rivoltarsi con
impeto contro chi è causa del suo tormento. Se studiasse di porre meno
artificio egli avrebbe più forza, pure, c’è qualche momento di ribellione
robusto e brusco.
Nella canzone “Amor, se vuo’ ch’io torni al giogo
antico” a pag. 112, che si sforza di seguire o inseguire la CCLXX del Petrarca,
sia pure nella solita retorica, trovo un esame di coscienza che porta ad
un’affermazione non so se di dignità virile o di dispetto. La sesta strofe
dice:
Nacqui mio, vivrò mio, ben
che sia stato
un tempo in forza altrui; già me ne doglio
e dorrò fin che scoglio
rompa questa barchetta in mezzo l’onde.
Così farò del temerario
orgoglio
vendetta, con mostrar tutto il mio stato
anzi fosse spezzato
l’arco composto di due trecce bionde …
E in un impeto di collera dichiara:
Darò dolore a chi mi dié
dolore
Più del disdegno non potrà l’amore (p. 116)
per concludere infine con una chiusa sincera perché
vi vedo un’inconscia confessione di mediocrità artistica o almeno espressiva:
Se mai scendi, canzon, giù
ne l’Inferno
dirai, ch’io tanto per amor soffersi
che vorrei maggior odio in questi versi.
Mi colpisce un’improvvisa dichiarazione di gelosia, inaspettata
nel languido amante; e in essa trovo anche una punta di volgarità. La trovo
nella canzone “Infiammata virtù scorsi al gran raggio” a pag. 227. Dopo aver
detto che contempla quel volto incantevole, riconosce chiaro chiaro:
Così nel mio languir la
mente e l’occhio
volgo, e la lingua appresso al chiaro volto
ch’altrui
concede i frutti a me le frondi (p. 229).
Questa canzone ha lo schema provenzale: sono dodici
sestine più una chiusa. Un insieme di settantacinque versi che terminano tutti
con le stesse parole – raggio, frondi, volto, otto, occhio, sassi – variamente
disposte. I soliti virtuosismi che vanno a discapito della naturalezza
dell’espressione in chi è mediocre. Solo nelle mani di Arnaldo Daniello e di
Francesco Petrarca lo schema raggiungeva un’espressione veramente armoniosa.
Si indispettisce, è geloso, ma è sempre il Paterno:
e l’indole non si cambia. Solo qualche frase è veramente forte.
Suo pensiero fisso è l’imitazione del Petrarca: già
ne ho avvertito, ed ho creduto inutile ricordarlo continuamente che avrei
finito con lo stancare. Altro suo gusto è il contrasto delle parole e dei
concetti. Ma un esempio basti:
Viva mia morte e riposato
affanno
cruda quiete mia, caldo mio ghiaccio,
ov’io sempre rinasco, ov’io mi sfaccio …,
pietosa verità, soave impaccio
del duro viver mio molle tiranno … (p. 65).
Quanta distanza col sonetto CCII del canzoniere
petrarchesco!
Inutile dire che gli anniversari del suo
innamoramento sono sempre presenti nel suo ricordo. A volte il Paterno
benedice, entusiasta, quel momento, a volte appare stanco e depresso. Ne do
qualche saggio:
Arsi cinqu’anni d’un sì
dolce ardore …
e l’ora benedissi e il dì che nacque
l’avventuroso mio grave dolore … (p. 40).
Ricordando però il sesto anniversario mi appare
nervoso:
In dura servitute in forza
altrui
Oggi volge al sest’anno il primo mese …
e mi vorrei lagnar, né so di cui
con parole di duolo e d’ira accese … (p. 62).
Ed ecco la data fatale. Si trova nel sonetto: “Onore
è ben morir com’uom si trova”:
Quarantatre con mille
cinquecento,
in su l’aurora, il dì sesto d’aprile
ferito fui né più guarrò giammai (p. 160).
Non posso tralasciare momenti psicologici di diversa
e varia ispirazione. Sono in generale, parentesi di calma o di aspirazione alla
calma, riflessione, ecc. Naturalmente non manca neanche la momentanea
convinzione di essere guarito dalla febbre d’amore, per cui “se prima temeva,
or gode e spera”.
In qualche ora di riflessione e di sosta l’affanno
amoroso, senza essere respinto, viene però vagliato. Sempre coi soliti
contrasti retorici comincia tuttavia a mostrare una stanchezza progressiva,
un’ansia, un nervosismo:
Dolce ed amara vita,
che sul principio mostri
chiara l’oscura notte e ‘l giorno oscuro.
Doglia chiara e ‘nfinita,
bosco ripien di mostri
dove il passo non è giammai securo.
Stato soave e duro …
Cura che d’anno in anno
Cresci ‘n maggiore affanno (p. 149).
Ancora una parentesi culturale, brevissima. Voglio
mostrare ora un saggio del suo platonismo. È un petrarchista, e, attraverso la
bellezza fisica di Marzia,
L’alta e vera beltà formata
in cielo
simile al suo fattor di gloria e luce,
spesso il mio cor a contemplar s’induce
benché sia chiusa in tenebroso velo … (p. 92).
Inutile dire che è dottrina, allegoria, non poesia.
Un’ultima preghiera a Marzia, senza dubbio malata di
debolezza, ma che ha sentimento e più ancora, tristezza: jam fugerit invida
aetas!
Gentil alma ha pietà d’un
che si more,
donna bella si piega a largo pianto:
ma tu ch’hai di bellezza il primo vanto …
ché pur pietà non hai del
mio dolore?
ché non ti pieghi al mio languir cotanto?
Non vedi come volan gli
anni, e quanto
a la bianca stagion s’appressa il fiore? (p. 245).
Ed ecco un altro palpito, stanco ed amaro, in un
piccolo frammento. L’amore è bisogno di sognare, bisogno di donarsi, e chiunque
ha un cuore non può sottrarvisi:
Come s’inganna, Amor, chi
t’odia a torto
Amor, chi ti disprezza
chi s’arma di durezza
per contrastarti invano,
per far l’imperio tuo debile e vano,
ov’uom è vivo più quanto è più morto?
Erra chi fugge l’amoroso
impaccio,
erra chi biasma amor quasi ria cosa.
Io per me rido al pianto, al
duol son volto,
al morir vivo, a i lacci ho il cor disciolto (p.
247).
Principio della fine. Un sogno pauroso, molto
diverso dai soliti, getta nell’ansia l’amante lontano. Marzia appare e dice
tristemente: Ahi fiero destin mio / febbre i fresch’anni miei venne a finire …
/ Di me non duolmi … sol m’incresce di te … . Ludovico Paterno si desta
spaventato.
Orribil vision, che il petto
molle
m’hai fatto, è dunque ver che spenta sia
la luce, che chiamar non vo più mia? … (p. 252).
Dipende dall’indole del nostro poeta l’affacciarsi
d’impulsi che non arrivano a drammatizzarsi veramente. Se ha uno scatto ricade
subito, debole e stanco. A volte comincia con forza e riesce efficace, ma
subito si tempera nella rassegnazione, nell’astrologia o nella religione e
finisce arido e senza forze. Lo si può vedere in quasi tute le citazioni che ho
dato.
I presentimenti intanto aumentano. La finzione (di
lui che quando componeva evidentemente sapeva) è condotta bene. Un’”alta voce”
dice al suo pensiero turbato:
… Non sperar più mai
vedermi ‘n terra, altrove son quei rai
di cui tanto parlaro i versi tuoi (p. 253).
Con un tremito messer Ludovico chiede: Ma se tu sei
finita, che farò io? E la voce:
Spera, soggiunge, in Quel
che purga e sana
Sia pur gran piaga, e pensa che com’ombra
Tutti n’andrem, quest’è decreto eterno (ib).
Presentimenti, notizie vaghe cominciano a diventar
cruda certezza. Un ultimo dubbio, un ultimo filo di speranza, il trepido amante
vuole che ancora entri nel cuore; si sforza ancora di non credere:
Se quei due lumi avara morte
ha spenti …
meravigliomi assai come d’intorno
non ne dian segno il cielo e gli elementi.
Forse han portato mormorando
i venti
tal nova per altrui far tema e scorno: …
quante vanno bugie di giorno in giorno
mosse or da sciocche or da perverse genti! … (ib.).
Ma la notizia è vera. Lucrezia Montalto Cavaniglia è
morta.
Incapace di esprimere con forza la disperazione, il
Paterno, nell’ultimo sonetto tace di lei e si rivolge, avvilito, a tutti quelli
che amano con passione sfortunata. E si rifugia nel Trascendente, conforto
delle anime sentimentali in pena.
S’innanzi agli occhi, o voi
che sempre amate,
voi che d’amor temete ire moleste,
apparirovvi io mai risorto in queste
carte, di sangue uman tinte e vergate,
per altre più bell’orme i
pié drizzate
e sianvi esempio le dolenti e meste
voci del pianto mio. Ragion vi deste,
in voi venite, a voi stessi pensate …
Amor fa larghe piaghe, Amor
ne guida
dritto un grembo di Morte …
erra chi ‘n uom vie più che in Dio si fida (p. 254).
È fatalismo? Disperazione? Come questo cambiamento?
È possibile spiegarlo tenendo presente diversi
motivi: la religiosità, la debolezza di carattere, la stanchezza di un sogno
lungo e che non diventa mai realtà. Convengo io per primo che il dramma è
rimasto freddo, e cioè senza dramma.
Finita per sempre la più lontana possibilità di
realizzare il proprio sogno, il Poeta si chiude in se stesso. Altro gli rimane
che piangere senza speranza, sognare – ma è possibile ancora? – sapendo che è
sogno. I versi migliori a volte ben si accompagnerebbero ad una musica triste,
come faceva il Petrarca. Questa seconda parte potrebbe pure dirsi la poesia
d’un uomo finito: vi è contenuto infatti tutto il declino di chi, per natura
timido e sentimentale, rinunzia alla fine anche ai sogni e trova conforto
soltanto in quella religione che ai modesti, ai sofferenti, ai vinti della vita
può offrire ancora di che sperare e su che cosa spaziare.
Questa seconda parte del Canzoniere è indubbiamente
più sentita e sincera della prima.
Tutto ormai è ricordo. E quest’anima romantica vive
di ricordi.
Scritta ne’ suoi bei lumi
ogni mia pace
Mirava, ed ogni guerra …
Or ch’essi spenti sono, in
sogno ed ombra
fondo tutti i pensieri,
né veggo ormai dove gli sproni e giri …
Oimé, ché terra è fatto
l’aureo crine
con che sì dolcemente
legommi Amore ond’io non fui mai sciolto.
Cingiti d’atra fronda
in strania guisa, le piagate tempie,
canzon, da poi che s’empie
di doloroso ed infelice nembo
lo sconsolato tuo vedovo grembo (p. 3).
Non sa darsi pace. Sentite il commiato della canzone
“Nel vago lampeggiar”:
Va, sconsolata e mesta,
Canzon, ov’il desio ti volge il piede:
e dì, s’alcun ti spia del tuo colore,
io vo gridando sol, dolor dolore! (p. 109).
Devo
dire che la sua modesta e il suo intimo dolore commuovono:
Il rosignuol, che forse sua
consorte
sì sempre piagne tutta notte, e chiama,
s’accorda con mia musa umile e grama,
il cui soggetto è sol ruina e morte … (p. 41).
Momenti psicologici tormentosi e drammatici si hanno
di notte. Nel sogno un fantasma, Marzia, si presenta alla mente allucinata, e in
quel momento diventa ancora realtà. Ecco una prima visione:
Giunt’era già la notte al
bianco segno
de le fiorite e molli piagge, quando
trista mi venne innanzi e sospirando
de la mia debil vita il gran sostegno … (p. 5).
E
ancora (ma ormai ha tutto l’aspetto di una fissazione).
Spirto felice, che le notti
intere
meco ti stai, meco ragioni e piangi,
e con quelle parole il mio cor frangi
sante, oneste, pietose, accorte e vere … (p. 13).
Io le ragiono assai, né
freno e spengo
per molto dir la sete …
Poi qual fantasma, mi
sparisce inanti
tal che da doglia il cor, vinto e conquiso
rilascia il sonno e sua virtù riprende (p. 26).
La prima quartina ha una certa forza, ma manca di
quella spontanea e tenera malinconia del Sonetto CCLXXXII di Petrarca. Continuano
ancora i terrori notturni. Questa volta però c’è un senso di tedio:
Alma, ch’in mezzo del
notturno orrore
spesso a quest’occhi il dolce sonno furi
qualor più piace, e nuovo duol procuri
con la torbid’imago al tristo core (p. 29).
Altre volte poi il pensiero corre più calmo al
ricordo di lei. Do qui una specie di visione, di trasfigurazione irreale
propria di una fantasia poetica suggestionata. Tra gli splendori del cielo
stellato si forma una figura fatata:
In qual di tante stelle in
ciel cosparte
splende colei che non è più la mia; ..
forse con vesta di ceruleo lembo
la vedriano quest’occhi in bianca neve
quasi raggio di luna in sé raccolto ( p. 15).
Così pure all’accesa e agitata fantasia il sogno
diventa realtà, il delirio e l’allucinazione estatiche visioni:
Viva e bella è colei
ch’altrui par morta,
io la vagheggio, io l’odo, io la rimiro,
io le parlo e con lei spesso m’adiro;
così possente è ‘l duol che mi trasporta.
Or sola apparmi, or con
fidata scorta …
Sì che tosto m’acqueto e ‘n lei respiro
Tanto soavemente di conforta.
(Gradatamente s’approssima alla coscienza e il sogno
diventa lucido).
Poi ne l’orecchio quella
voce santa
mi sona: Non pregar ch’io resti teco,
spirito ignudo son , né sangue ho intorno.
Nel millecinquecento con
cinquanta
in su l’alba, d’aprile al terzo giorno,
viva in ciel, morta entrai nel freddo speco (p. 47).
Quando la nostalgia lo assale egli la ripensa, in
preda ad una calma malinconia, come un fiore in un delicato paesaggio:
Qual vago fior, ch’a la
rugiada, al vento
lieve de l’alba, il suo ceruleo viso
vezzosamente in su l’erbetta assiso
volge, né dal sol teme esser poi spento.
Così, quand’io contento
gli occhi al terrestre mio bel paradiso
volgevo intento e fiso;
e quel fra noi spargea luce cotanta … (p. 28).
Ma se questa calma è possibile all’azzurro del
giorno, di notte il timore ritorna. Ecco un verso, sintomatico, direi:
Notte, che notte senza sonno
al core – porti …
Un altro accenno al suo paese natale:
A piè di monte, il cui
bell’aere spira
e di Marte e di Febo[6]
i pregi insieme … (p. 72).
E ancora coll’astrologia. Questa volta riflette
sulla nascita e sul destino di Marzia.
Quando, dice, nacque costei
… trovo ...
che le stelle benigne avean l’impero
de le parti supreme ; e ‘n lieti aspetti
Venere bella i signorili eletti
luoghi occupava col suo padre altero.
Curioso il fatto che l’oroscopo, dalla congiunzione
di Venere con Giove aveva presagito per lei “vita lunga, felice e
senz’affanni”.
E allora, si domanda lo sconsolato astrologo: “come
/ non so, da cruda morte / fu giunta in sul fiorir de’ più begli anni”.
Quel declino cui accennavo dinanzi s’è avvicinato.
La sua religiosità, è vero, benché distratta da formalismi e da sogni, è stata
sempre forte. Ma ora molto tempo e molte cose sono passate. “Rivolto ha il
cielo ormai sette e sett’anni / che d’amore io cantai, piansi di morte (p. 88).
Colla graduale, effettiva soppressione delle
tendenze di una data specie, non rimane altro al nostro che rifugiarsi in Dio;
e ciò egli fa di buon grado. Tutta una mentalità già latente, affiora e
s’impone ricacciando dietro una soglia il Paterno che abbiamo finora
conosciuto. E un altro ne appare, ascetico e penitente, che arriverà a maledire
all’amore, che canterà soltanto della Vergine, delle sue bellezze e delle sue
glorie, che moraleggerà e rivelerà nuove estasi e tenerezze, non di sogni
amorosi, ma di sublimazioni religiose. Non è il caso di vederci un contrasto
come per il Petrarca mondano e il Petrarca ascetico. Nel caso del Paterno è
semplicemente un sentimento che sfuma lentamente in un altro. Non c’è lotta né
vero dramma.
Oppresso da stanchezza e da incalzante scrupolo si
rivolge a Dio: è un penitente che parla:
Padre del ciel, se quanto ho
visto in terra
fuor ch ‘l servirti è stato ombra ed affanno:
gli occhi miei tristi e lacrimosi il sanno … (p.
111).
E subito dopo invoca Maria:
Vergine, al cui bel volto il
sol s’estingue
com’a volto di sol notturna stella:
Vergine, sempre a noi dolce e pietosa …
Per dritto calle al cielo
Volgi, Vergine santa il viver mio … (p. 112).
Sonetti e canzoni a Cristo e a Maria si alternano:
hanno il difetto di essere retorici e freddi anche se qualcuno non manca di una
certa solennità. La delicatezza di un paragone mostra però la sua fede
religiosa sentita, tenera ed elevata:
Nasce in erbosa valle o
sott’un ponte
ceruleo fior, a gelid’onde appresso,
che se da piede uman talvolta è presso
muor, per più bello alzar poscia la fronte.
Così tu, del tuo sangue a
l’ampio fonte
Signor, dai figli tuoi morto e depresso
sorger ti piacque, in chiusa tomba messo,
ma tolto pria da legno in alto monte … (p. 113).
Più incalza lo scrupolo più il cuore su purifica, e la
fede s’innalza a intravedere l’Inaccessibile. E il Paterno riesce ad esprimere,
direi meravigliosamente, il suo ormai facile trionfo – facile, data l’età e lo
stato d’animo – sul vecchio uomo.
Il sonetto è di un misticismo veramente sincero,
provato, dolcissimo, ed è espresso felicemente. Per capirlo occorre aver letto
Santa Teresa o San Giovanni della Croce:
Divino ardor, che nel mio
petto entrando
fai sì soave e sì felice il foco;
pensier, che mi consumi a poco a poco
e di me stesso pon me stesso in bando.
Somma virtù, che dentro e
fuor girando
giri il tormento in dilettoso gioco;
chiaro splendor, che meco in ciascun loco
vieni, e m’insegni al ciel d’irmen volando.
Infinità bontà, ch’or ti
nascondi
or m’appari e lusinghi, or di dai pace
per trarmi a miglior vita, or mi dai guerra.
Altissimo saver, padre
verace
fa, - tua pietà – che mentre io resti in terra
né manchi molto mai, né troppo abbondi (p. 115).
Sentitelo com’è lontano dagli antichi sogni:
Mi piacque un tempo celebrar
le care
bellezze che son ombra e poca terra.
Passa il desir umano, ell’è sotterra … (p. 116).
È ormai indifferente a tutto e canta, raccolto e
modesto (con un tono però un po’ da predicatore), la caducità delle cose.
È una vita decadente:
Se ‘l mondo con lusinghe a
sé n’invita
e ‘n poco dolce molto amaro accoglie,
lasciando omai le cieche ingorde voglie
leviam su gli occhi a più secura aita.
Cade questa fallace instabil
vita
come d’autunno fan mucide[7]
foglie
né vaga, né gentil cosa raccoglie
ch’anzi che la veggiam non sia sparita … (p. 117).
Una triste canzone “Dal mio cieco desir gran tempo
omai” ripete anch’essa questo stato d’animo, stanco e ripiegante su sé stesso.
“Chi son, chi fui vo ricercando e trovo / ch’al principio son nulla, e nulla al
fine / e ciò con tutto il mondo veggio e provo”. Dopo aver detto quale errore
sia il credere a “un bel guardo soave, un finto riso / un cenno, una parola …”
soddisfatto egli stesso del suo cambiamento, conclude:
Vedi canzon, che bel
pensiero hai teco,
che così dolce meco
ragiona con pietate e con amore.
Io non potrei narrar quanta
dolcezza
prendo de le sue calde accorte note,
che mi levano al ciel con larghe rote (p. 120).
Ed io lo credo sincero: con quella preparazione
mentale e sopratutto psicologica!
È il settimo anniversario. O quantum mutatus ab
illo … !
Io vo piangendo il mio
passato errore
ch’ier voltò le sue spalle al settim’anno
sempre in soave foco, in dolce affanno
di
fallace desio pascendo il core … (p. 132).
È un esame di coscienza, un pentimento amaro e
sincero.
Ormai il mondo è effettivamente lontano con le sue
attrattive.
Il Paterno – se non è gran poeta – ha certamente
sentimento, cultura, immaginazione e una certa ampiezza di visione, né si può
negarlo. Ora che il suo sentimento è divenuto essenzialmente religioso, egli sa
pure esprimere la sua religiosità poeticamente e sa gettare, aiutato dalla sua
cultura e insieme dall’indole sentimentale, uno sguardo nell’Infinito.
L’ultimo sonetto “A Dio” è il simbolo esatto di
quest’uomo. Nel verso, profondo e commosso, egli sparisce contemplando, proprio
come sparì in vita.
Meno teologia l’avrebbe reso più forte. Ma non si
può negare che sia solenne e ispiri un senso di grandiosità: Dio è l’infinito e
l’Eternità, è la Vita universale, è il Tutto ineffabile:
Dio, ch’infinito in infinito
movi
non mosso; ed increato, e festi e fai,
Dio, ch’in abisso, in terra, in ciel ti trovi
e ’n te cielo, e ‘n te terra, e ‘n te abiss’hai;
Dio, che mai non invecchi e
innovi mai,
e quel ch’è, quel che fu, quel che fia provi;
né mai soggetto a tempi vecchi e novi
Te stesso contemplando il tutto sai.
Ineffabil virtù, splendore
interno,
ch’empi ed allumi il benedetto chiostro,
sol che riscaldi e ‘nfiammi e buoni e rei.
Tanto più grande a
l’intelletto nostro,
immortale, invisibile ed eterno
quanto che non compreso il tutto sei.
Nell’amore per Marzia c’è tutto il Paterno
sentimentale. Altre opere ci mostrano l’uomo del tempo visto solo nel suo
aspetto esteriore: panegirici, servilismi, enorme erudizione si storia classica
e sacra, virtuosismi e complimenti.
I libri di “materie e soggetti diversi” vengono
dedicati da Mario degli Andini al Giudice Caputo di Napoli e il Paterno viene
da lui presentato ai lettori come un uomo di cui non ha mai conosciuto alcuno
“di maggior modestia e di più divino intelletto”. Il presentatore si meraviglia
come “un giovanetto, che non ancora trapassa i venticinque anni, abbia potuto,
in sì acerbi corsi, scrivere … quel che gli altri né maturi non hanno giammai
fatto”. E certo, se si dovesse misurare la qualità dalla mole, l’Andini avrebbe
ragione.
Mi dispiace dover dire che questi libri non sono
altro che un lavoro di copia del Petrarca. Nient’altro che versi. Nomi di
letterati e di potenti del Cinquecento[8]
si seguono sui sonetti (che sono delle lettere in versi), molti dei quali hanno
anche la risposta.
Qualche invettiva, coraggiosa per i tempi, ai
Monarchi di Spagna e Francia che insanguinano l’Europa, una preghiera al Papa
Paolo IV Carafa – un napoletano –, devota e affettuosa, perché organizzi la
crociata: “… Canzon … baciali al pié; poi prega alfin che mova / col gran nome
romano …”: questo si trova nelle canzoni e nei sonetti. Fra questi, ne scelgo
uno, mesto e affettuoso, dedicato al suo amico Orlandi.
… Tu che presso al mio fin
l’ore omai corte
miri, e ne senti oimé, fiero tormento,
Orlandi mio, da poi ch’io sarò spento
per quell’amor che sì veracemente
mi mostrasti, mai sempre, illustre spirto,
l’ossa di queste note onora e ‘l sasso:
Cila mosse al cuo canto; eternamente
Lungo il marmo verdeggi a l’ombra il Mirto (p. 275).
Seguono elegie in terzine e due capitoli sulla
speranza e la Fortuna pieni soltanto di nomi e nient’altro.
I “Trionfi”, di Amore, della Castità, della Morte,
della Fama, del Tempo e della Divinità si riducono ad una valanga di nomi e di
fatti.
Più breve e un po’ più sentito è l’ultimo di essi.
Disse bene il Flamini che “non ha nervo ed impeto”[9].
Le “Nuove Fiamme” dedicate a Don Carlos, erede di
Spagna, almeno nel genere dei componimenti, sono più varie e rappresentano,
direi, la capacità di bravura, del Paterno. Sono divise in cinque libri:
Sonetti e canzoni pastorali, Stanze, Elegie, Nenie e Tumuli, Egloghe.
Qua e là è visibile l’imitazione dal Pontano e dal
Sannazzaro; la falsità stessa dell’argomento riduce però questi componimenti a
semplice virtuosismo; appena poco si salva.
La novità è data dal tentativo di poesia barbara (il
Carducci riportò undici componimenti del Paterno in una sua antologia “La
poesia barbara nel secolo XV e XVI”).
Il Paterno non ancora ventottenne, nel fervore degli
studi e dei sogni non è in queste canzoni pastorali, il triste amante del
Canzoniere o il mistico cantore della Vergine.
C’è nelle “Nuove Fiamme”, in generale, un senso più
giovanile, c’è una umanità più vibrante, non nel senso che abbia più forza
intima, ma perché l’argomento e la mentalità sono più vari e direi,
ottimistici.
La mitologia domina sovrana: un sonetto a Venere
definisce la dea lucrezianamente “O antica cagione de gli elementi” e termina:
Se ‘l mirto, primo di
cotanti fiori,
le prime a te sacraro e l’altre genti,
com’il ritrovi e colga, oggi m’insegna (p. 5).
Quasi un trattatelo d’amore, dunque.
Ho l’impressione che molte volte i nomi dei pastori di
questi arcadici sonetti nascondano persone reali. Ciò è chiaro per due almeno
di essi; con Mirtilla e Filli indica lei, con Lidio indica sé stesso.
Pure abituati dal Canzoniere a qualcosa di elevato e
di irraggiungibile ci stupiremo senz’altro nel sentire il Paterno che si
rivolge a selve e vallette che “di ninfe e pastori / udite i rozzi amori.” (p.
7).
È leziosità e finzione pastorale, o è nostalgia di
qualcosa a lui negato? E altrove, nella svelta canzonetta “Pure fontane e rivi”
a pag. 44 – quasi tutta di settenari – rivolgendosi ad una pastorella, Iannia,
spontaneo e gustoso, sentirlo concludere (dopo aver cantato di Marzia):
O semplicetta mia chiudi le
labbra
che a dire ‘l ver, tu sei
mal’atta ad appianar gli affetti miei (p. 45).
Ha arieggiato il Sannazzaro: “O poverella mia come
sei rozza / Credo che tal conoschi – rimanti in questi boschi”.
Il suo paese per lui è incantevole, ed
effettivamente esso si presta ad una visione arcadica:
Natura non creò più verdi
poggi
né valli più fiorite, o colli allegri … (p. 59).
Non meno attraente del paesetto natale è per lui il
mare di Napoli e Posillipo. Anch’egli sulla traccia del Pontano si rivolge a
Posillipo. Che altri cantino di Eurota o del Tebro.
Ch’io vo contar de’ tuoi
beati onori,
com’uom, ch’attende a gloriosa fama,
Pausillipo, il più bel d’ogni altro monte.
Inutile dire che abbondano descrizione dell’amore
per Marzia o Mirtilla: egli ne scrive il nome sugli alberi e domanda al
rumoreggiante Torano se ha mai sentito una voce più bella di quella di lei.
Mirtilla è una pastorella leggera come il vento ma che, purtroppo, è anche più
dura d’uno scoglio quand’egli piange, pure, qualche volta, gli asciuga “con le
sue palme il volto”, e così di seguito.
Non mancano, come nel canzoniere, momenti di riflessione,
o di ispirazione diversa. Tra l’altro decanta la vita in campagna che risana la
sua anima malata, fa epigrammi, ed ecco come descrive la gelosia:
Nasce di lieto padre
figlia sempre mestissima e dolente;
che nata, allor allor con fiero dente
l’altre sorelle ancide …
È piena d’occhi chiari e
d’orecchi erti
a giovar chiusi, a nocer sempre aperti … (p. 32).
Il
secondo libro di Stanze s’intitola il “Palagio d’amore” ed è composto di due poemetti
uno dedicato a Isabella d’Aragona, un altro al suo signore marchese di
Cardines. Nel primo i soliti pianti, nel secondo encomi.
Il terzo libro di Elegie – quindici componimenti in
terzine – è freddo e non ha niente che desti interesse. Dalla quarta ricavo che
Marzia morì a Napoli, e dalla decima il suo ardente amore alla vita tranquilla
in campagna. Il luogo non riesco a precisarlo:
… io vivo, ove Calor con
l’onde
lievemente scorrendo impingua i prati (p. 111).
Utile per conoscere la cultura e le attività del
Paterno è questa terzina:
Col mio buon Tarentin, non
potrei dirti,
quante volgo latine e greche carte
scritte da quegli antichi illustri spirti (ib.).
Segue un libro di Nenie e Tumuli: parla di Marzia
morta in ben sei Nenie (ma non sono piuttosto tumuli?). Nei tumuli invece canta
di selve, di amori pastorali e anche di sepolcri. Sono interessanti, dicevo,
per la metrica barbara, e forse è questo il frutto dei suoi studi latini e
greci.
Quanto a prosodia non si può dire riuscito.
Corrispondono soltanto a tante sillabe latine, tante italiane.
Quattro metri latini sono imitati: l’asclepiadeo
primo, il distico elegiaco, il saffico minore, il faleucio.
Nel distico l’esametro è reso con un quinario e un
novenario, e il pentametro con un quinario e un settenario.
C’è pure qualche esametro di tredici sillabe e
qualche pentametro di dodici. Ecco un saggio:
Già passa il caldo de
l’adusto e pessimo Cane,
già fanno festa satiri, terra e mare.
Or tu che fai, spirto
immortale e chiaro sempre?
presso a le sponde del gentil Oreto vieni
Qui le Muse aspettano con
ghirlande beate
non altro che te, vivo lume dei tuoi …
Ed ecco una saffica:
Ninfe ch’avete di Sebeto
l’onde
in lieto albergo, pregovi, su questa
riva a contar meco venite e tosto
del mio Sereno
Qualche esempio di asclepiadeo:
Quando viva tra noi cantava
Lidia,
o Sole, ed or ch’è morta, i raggi splendidi
invan movesti e movi dal mar d’India.
Ella vivendo nel felice
volgere
di que’ bei lumi a me che tanto amatali
dì mi recava dolce e dilettevole.
Poi quando il volto suo
fiera celavami,
Notte mi fea troppo odiosa e pallida.
Or che si giace in questa
pietra gelida
Provano gli occhi miei notte perpetua. (p. 133).
Il quinto ed ultimo libro è di “Egloghe marittime,
amorose, lugubri, illustri e varie “. Sono paesaggi marini creati dal
Sannazzaro, e che il Carrara definiva “il linguaggio del mare” (nei quali
paesaggi lo scenario si riduce a ben poca cosa di fronte alle chiacchiere dei
pastori); sono epicedi senza vita e dalle metafore sperticate. Tra queste non
poteva mancare una in morte di … Donna Lucretia Gaietana d’Aragona! Due giovani
innamorati, Lidio pastore e Aminta guardiano di tori, rivali fino a questo
momento, ma ormai, morta lei, affratellati nella disperazione, piangono
insieme. Non c’è niente, tranne qualche discreta visione di Piedimonte e del
Matese.
Ecco la sorgente del Torano:
Là, dove da diverse occulte
bocche
escono i puri e liquidi cristalli
del tuo pianger, Toran, di Cila[10]
figlio (p. 190).
Ecco
il Matese:
… l’alto Matese, a cui gelate
nevi …
coprono il mento e la canuta testa (ib.).
Tutte dedicate a Principi e Signori sono le
“illustri”. Non ci perdo tempo su, dato il tono e il contenuto panegiristico
che hanno. In una delle “Varie” infine, ancora un accenno al Torano, il “tanto”
dolce e patrio Toran, che
per due strade
l’argento e l’ambra nel Volturno asconde (p. 241).
Dopo aver accennato alla vita del paterno, dopo aver
trattato della sua poesia è stato dato pure uno sguardo al suo canzoniere. Ora,
quale conclusione possiamo ricavarne?
Non è il caso di ripetere quanto ho detto in
principio.
Ai suoi tempi la sua poesia ebbe pure un’eco, e con
lui strinsero amicizia e gli attestarono stima, si può dire, tutti i letterati
dell’epoca. Fra i tanti basta citare Bernardo Tasso, Di Costanzo, Tansillo,
Rota, Terracina, Terminio, Varchi, Orlandi, Massolo, Carbone, Turbolo, Ricci,
Giordano, Porzio, Minatolo e molti altri.
Fino a tutto il ‘700 sonetti, satire e canzoni sue
furono poste in antologie. Il Muratori loda il suo sonetto “A Dio” nell’opera
“Della perfetta volgar poesia”; quando morì Ippolita Gonzaga e i poeti fecero a
gara a chi piangesse di più, anche un sonetto del Paterno fu incluso nella
“Raccolta delle poesie volgari e latine” scritte per quella occasione. In una
“Scelta di sonetti con commenti e dissertazioni” edita nel 1791 dallo Storti in
Venezia, accanto a Petrarca, Cino da Pistoia, Redi, Tasso, Lorenzo de’ Medici,
Marino ecc. compare il Paterno … . Oggi è completamente morto. Piccoli volumi
ingialliti ne racchiudono la voce che nessuno più ascolta. E il giudizio della
critica moderna è stato ben diverso da quello dei letterati del ‘500.
Il valore della sua poesia è in funzione del valore
che si dà al Petrarchismo e alla poesia arcadizzante. Quei poeti – e tra essi
il Paterno – si erano illusi, come si illudono sempre le medie mentalità, che
bastasse imitare con rigore la forma esteriore e le maniere dell’immortale
cantore di Laura, che bastasse fingere un mondo semplice di pastori perché il
miracolo scaturisse; e il miracolo doveva essere la poesia!
Ignorarono l’intimo tormento di Francesco Petrarca
così lontani com’erano dal suo genio. Ignorarono la realtà della vita
pastorale, essi che vollero rendere graziosi amori che possono essere spontanei
solo nella loro rusticità; né poterono mai creare un vero dramma della
sistematica funzione di una vita arcadica mai esistita.
Valore lirico quindi limitato a pochi momenti, a
qualche immagine.
Ho voluto trarlo dall’oblio con un breve studio
perché sono suo conterraneo, perché anche la sua è una piccola nota del secolo
d’oro, un esempio in più di una certa mentalità letteraria, ma anche perché
devo confessare che mi ha colpito perché, in fondo, è rimasto per me una
piccola sfinge: tutto finzione oppure dramma veramente vissuto sebbene espresso
senza forza?
[1] Tafuri G. Bernardino – Lod. Paterno. Tomo III, pag. 11 nella Bibl. della R. Deputazione di Storia patria in Napoli.
[2] Proprietario dei testi è il Rev. Prof. Luigi Della Paolera di Piedimonte d’Alife, cui va il mio ringraziamento per avermeli fatti esaminare.
[3] La pagina corrisponde all’edizione del 1564. Ho rispettato scrupolosamente la punteggiatura, ho tolto solo alcuni modi di dire e di scrivere che non intaccano la dizione ma la rendono più moderna.
[4] Il Paterno vi possedeva una casa di campagna dove spesso si recava. Da N. Occhibove: De canone studiorum, p. 5 – Napoli, 1728.
[5] Graf: Attraverso il Cinquecento.
[6] L’accenno ai numi tutelari di Piedimonte trova dunque esistente nel ‘500 una tradizione confermata da una lapide (che Mommsen invece credette una falsificazione del ‘700), conservata al Museo alitano di Piedimonte.
Tra l’altro la lapide dice: Anhelos siste gressus, viator, nec gelido Taurini latice arentes proflue fauces … nisi prius Marti Foeboque sacram veneraberis terram … Il tempio di Apollo sorgeva sul posto dell’attuale chiesa di San Domenico.
[7] Imputridite. Anche oggi la parola è viva nel dialetto piedimontese. Ma, come gli sarà scappata?
[8] Marc’Antonio Colonna, Filippo II, Venier, Doria, Bembo, ecc.
[9] Flamini: Il Cinquecento nella Storia letteraria d’Italia edita dal Vallardi.
[10] Veramente il Torano è figlio del Monte Muto non del Cila.