(da Pasqualina Di
Lello Manzelli, Alcune tradizioni popolari in Pietraroja,
in Annuario ASMV
1975, pp. 90-94)
Descriveremo ora le varie festività iniziando da
quella del Patrono S. Nicola di Bari. Si ignora da chi e per quali motivi fosse
introdotto in Pietraroja un culto così vivo del Santo, né conosciamo le cause
per le quali fin dal Maggio del 1732 fu venerato Patrono del paese. La
tradizione riporta queste cause al fatto che, subito dopo il sisma del 1688,
nella chiesa distrutta la statua fu ritrovata intatta e rivolta verso
l’altar maggiore come ad intercedere clemenza. La festa del Patrono si
articola in tre fasi: il 6 Dicembre di ogni anno è la festa liturgica;
l’8 Maggio in una con i festeggiamenti per la traslazione delle ossa del
Santo in Bari; la domenica precedente S. Giovanni il 24 Giugno, in occasione
della partenza dei mietitori e dei lavoratori dei campi per la Puglia o,
secondo noi, per ricordare quel nefasto Giugno del 1688 quando il terremoto
rase al suolo l’intero paese. Infatti in tale fase riviveva la
consuetudine delle Focarelle: le famiglie d’ gliu vicinatu
accendevano fuochi nelle strade e nelle corti del vicinato e intorno ad essi
pregavano il Santo, in particolar modo quelli che non avevano potuto
partecipare alle funzioni religiose perché occupati con le greggi o nei lavori
campestri. Si ripeteva in tal modo il tragico evento del 1688 quando contadini
e pastori ritornando in paese trovarono le case distrutte e furono costretti a
trascorrere la notte all’addiaccio pregando intorno ai fuochi:
ni cunzola.
ci pòi salvà.
In occasione del Natale era usanza preparare per la
vigilia una cena costituita da gli carrati: specie di gnocchi conditi
con salsa di aglio, olio e noci pestate; baccalà cottu e gliù spidu con
contorno di insalata sott’olio, cipolle, olive, sedano, uva passita,
spicchi di arance, acciughe e capperi; frutta del luogo: fichi secchi, noci e
mele; dolce tradizionale: ciciaregli cioè struffoli al miele, mustacciuli
e susamegli.
A mezzanotte tutti a messa. Chi desiderava vedere le
janare del paese si vestiva da mietitore con vantera, cingulu e
cannegli cioè del grembiule di cuoio, cinturone e sezioni di canna a
protezione delle dita della mano che durante la mietitura afferrava il fascio
di spighe da tagliare e, falce nella mano si poneva, avvolto in un mantello
dietro l’antiporta del Tempio. Accadeva allora che le streghe per
non essere scoperte evitavano di recarsi in chiesa mentre chi non ci andava
passava per janara. Il risultato più logico era che la funzione
religiosa di mezzanotte vedeva grande partecipazione di popolo e in modo
particolare di donne.
Di ritorno a casa veniva deposto ‘ncoppa
‘la liscia d’ gliù fucularu, un ceppo grosso tanto da durare
acceso per otto giorni e se il tronco ardeva fino all’ottavo giorno era
segno che le provviste sarebbero state sufficienti per l’intero inverno.
Di tanto in tanto poi i componenti la famiglia gettavano sul ceppo qualche
goccia di acquavite dicendo:
e deponendovi pezzetti di torrone:
magna cippone ch’è
natu gliù Redentore.
L’ultimo giorno dell’anno, a San
Silvestro protettore contro i lupi, era usanza abbrustolire sulla liscia
del camino gli sciusci e gli sciuscigli. Pertanto sulla pietra che
fungeva da pavimento del camino si gettavano chicchi di grano, granone, ceci ed
altri cereali. Al calar della sera gruppi di giovani e adulti cantavano di casa
in casa:
Santu Sarvestru nui cantamu bòni,
oggi è Calenne dimani è
gl’annu novu
oggi è la festa Santa, la
festa a ‘Signuria
Diu ci l’accresci
‘sta bella cumpagnia.
Sciusci e sciuscigli facému
chigli sciusci,
Santu Sarvestru a tutti ci
cunusci.
Tu cunusci a me e i cunoscu
a sù bonomu
cu su bonomu ci n’
iamu a bracciu,
iamu a Bébéventu a fabbricà
palazzu.
‘Ncoppa palazzu ci stà
‘na bella tromba,
oh Diu che tromba, oh Diu
che tromba!
Nu pedu d’auliva cu
tre rose e tre marine
una è d’oru e
n’ata è d’argientu.
Nui priamu a Diu e pò a
santu Lavrenzu.
Santu Lavrenzu ca
‘mparavisu stai
scampa ‘sta casa da
pene e da guai.
Santu Tummasu! E Diu ci
‘uarda gliu capu la casa
Sant’Antone! E Diu ci
‘uarda ‘stu begliu ‘uaglione
Santu Matteu! E Diu ci
‘uarda ‘sta bella mugliera.
Scigni madama e danci gliu
presuttu
e si nun téni curtégliu tu
dancigliu tuttu
si ‘ci gli dai
vuléntéri fai nu figliu cavaléri
si nun ci gli vòi dà
cardinale gli puzza fa.
Scigni ‘na buttiglia
d’ vinu spiritusu
e cusì (amurusu?) cunténti
cantamu.
Per tali prestazioni, cantori e suonatori, questi
ultimi erano due o più persone che accompagnavano ritmando ‘ncoppa
gliu treppt’ ricevevano pane prosciutto e vino. Scoccata la
mezzanotte schiere di giovani percorrendo le vie del paese e soffermandosi di
porta in porta, a gran voce declamavano le loro Maitnate ai componenti
le varie famiglie iniziando da quelle del sindaco, del dottore, del parroco,
del cavaliere, ecc. Riportiamo un esempio, purtroppo frammentario, di maitnata.
pe’ parte de’
Diu e capudannu
cu gli boni di e cu
gli’ bon’annu
e centu ferze d’ finu
pannu
cu allegrezza e cuntentezza
e granu senza munnezza
…
La notte di capodanno, prima di deporre un altro
grosso ceppo ad ardere, la famiglia puliva il pavimento del camino e vi
lasciava cadere, uno per volta, dodici chicchi di grano raccolti tra la paglia
della mangiatoia. I semi, gonfiandosi al calore, scoppiettavano in varie
direzioni che indicavano il soffiare dei venti nei dodici mesi dell’anno.
In tale circostanza si diceva: vdim’ le calenne che ci mittn’
in altri termini: vediamo cosa ci portano le calende. Questo perché essendo
l’economia locale prevalentemente agricola e pastorale, dallo spirare dei
venti, buono o cattivo, si traeva pronostico per l’annata successiva.
All’Epifania era usanza praticare gliù
diunu stellare si desinava cioè la sera del cinque gennaio con lo spuntar
della stella del vespro e si digiunava fino alla stessa ora del giorno
successivo. Si credeva che tale penitenza incatenasse i diavoli tenendoli
lontani dalla famiglia. In occasione della Epifania ricorreva il detto:
A la Prufania fa la lufferta
la Signuria.
Il 17 Gennaio giorno di S. Antone i più facoltosi
distribuivano ai poveri una infornata di pane cioè un quintale di grano molito
e panificato in piccole forme dette cacchiatelle d’ sant’Antone.
In tale data avevano inizio anche le mascherate che preludevano al giorno di
carnevale e i giovedì successivi erano detti: giovedì dei lardoni, giovedì dei
parenti, giovedì crispellaro e giovedì curtu. In tale giorno inoltre si
soleva dire:
sparti la léna d’ gliù
sularu.
Ciò significa che era trascorso metà inverno e
quindi si poteva fare affidamento sull’altra metà delle provviste.
Il 20 Gennaio distribuivano la cacchiatella di S.
Sebastiano e il 2 febbraio, giorno della candelora l’offerta era fatta
dalle signore.
così come si ribadiva in parte il concetto del detto
ricorrente a S. Antone:
Risponne Santu Biasu
nunn’è veru ca mo trase.
A Carnevale poi la maggior parte dei paesani si
mascherava e cantava:
la ‘nzalata stea a
gl’ortu
gliu presuttu stea appisu
carnevà puzz’esse
accisu.
E la notte gruppi di giovani gridavano per le strade
al suono di campanacci: vatti spreca carnevà mentre nelle case avevano
luogo le birbe ed altri canti e balli con offerta di vino e fritti.
Alla Quaresima le donne ripulivano sartanie,
tianegli, gliù spidu, la cafttera, la seta, gliù murtalu, l’ugliarola
e altri utensili da cucina; ponevano a bucato la biancheria e conservavano la
carne di maiale sotto cenere, olio o sugna. I pasti erano frugali: pane e acqua
al mattino e la sera un piatto caldo per lo più legumi o verdure o pasta
conditi solo con struttu cioè sugna. Non mancava chi, ed erano in molti,
digiunava più severamente per quaranta giorni.
La mattina di Pasqua al risveglio delle campane dopo
il silenzio del Venerdì Santo, non pochi, al primo rintocco, erano soliti distendersi
proni toccando il pavimento con l’addome.Tale pratica pare scongiurasse
per tutto l’anno coliche addominali e malattie intestinali. Subito dopo
per riprendersi dal lungo digiunare i componenti la famiglia mangiavano una
frittata di uova e salsiccia, la pastiera e gli canisciuni.
Particolarmente ricca era la frittata tanto che era invalso il detto:
La frittata ca nun fai re
Pasqua nu’ la fai ‘cchiù.
In
ogni famiglia per i preparativi del pranzo di Pasqua infatti venivano impiegate
nei giorni precedenti almeno cento uova.