L’anno
scorso, ricevuto dal Vescovo di Alife, l’onorevole incarico di scrivere
sul Prof. Vitale, avvertivo il lettore della difficoltà che incontravo nel
penetrare in un’anima profonda ed interiore, ricca di emotività, e perciò
inafferrabile.
Stavolta prevengo il lettore di un’altra
difficoltà. Lo spirito e la mente di Giovanni Petella sono in linea di massima
più accessibili, perché si sono oggettivati quasi negli studi, e perché si
specchiano negli scritti, ma è proprio la vastità di questi che intimorisce.
La varietà delle discipline coltivate, il numero
rilevante di pubblicazioni, lo spiraglio di una cultura estesissima che se ne
intuisce, di una mente profonda di cui lo scritto è parziale rivelatore,
ostacolano ugualmente l’indagine perfetta. In sostanza, l’anno
scorso si era nel pericolo di falsare, e stavolta si può ingiustamente restringere,
ridurre, rimpicciolire.
Ma il compito è accettato. Ho ricercato in
biblioteche, ho domandato a persone, in prima linea ai familiari, ho letto le
opere e ci ho riflettuto. Basandomi sulla sua parola, principalmente, e sul
ricordo fedele di chi gli fu vicino, non potrò sbagliare nell’indagine e
nella valutazione.
***
Alcuni
ricordi della sua vita e della sua famiglia ci prepareranno a conoscere
l’uomo.
La personalità che ricordiamo è nata a Piedimonte il
10 Aprile 1857. Il padre Pasquale, di Giovanni ed Emanuela Ragucci, era notaro.
La madre era Maddalena Meola di Felice e di Vincenza Santagata, tutte famiglie
molto distinte della locale borghesia.
Il primogenito fu seguito da Giuseppe, Nicola,
Elvira accasata in Amodio, e Vincenzo.
Soddisfatta l’anagrafe, passiamo
all’anamnesi.
Il padre era un liberale, di vecchia data, e al
’48 a Napoli s’era trovato sulle barricate al Largo Carità, e al
’60 aveva aderito al Comitato insurrezionale. È questo l’ambiente
ideologico e politico di famiglia, e bisogna tenerne conto. Darà impressioni
che, pur nella loro evoluzione durante la vita adulta, resteranno radicate
nell’anima e intramontabili.
Le prime impressioni di quanto avviene al mondo
Giovannino le ebbe a tre anni, al ’60, l’anno della rivoluzione.
Mentre annottava – era il Lunedì 24 Settembre – le famiglie
liberali di Piedimonte, e perciò seriamente compromesse, si allontanavano di
nascosto, e i Petella con altri salivano sulla collina dell’Olmito
(Aulemiti), verso una loro casetta fra gli ulivi. Cinquant’anni dopo, Don
Giovanni così scriveva “Conservo memoria non solo delle persone ma anche
dei luoghi, tanto forte fu l’impressione provata in quei primordi della
mia vita mentale, da averne durevolmente fissate le immagini”.
Gli anni volano. Il piccolo Giovanni è iniziato alla
vita dell’intelletto dai sacerdoti Giribono e d’Orsi; poi frequenta
il seminario locale, dove il Vescovo Di Giacomo[1]
che suscitò sempre le sue simpatie, lo interroga, e dove valenti insegnanti lo
indirizzano. Passa poi a Napoli, al collegio dei Padri Barnabiti (Bianchi), e
di lì all’università.
Da una prima attenzione verso un oggetto nasceva in
lui dopo anni, una preferenza e uno studio. L’ava materna gli mostra
spesso un album a colori di animali e piante del Buffon, più tardi gli
accendono la fantasia i meravigliosi romanzi del Verne, e i viaggi di Livingstone,
Stanley, Burton. Ormai adolescente rivisse il Thélémaque di Fénelon,
Ovidio fu “un po’ il tormento ginnasiale, ma anche la delizia della
nostra adolescente fantasia”. Il gusto per Omero gli venne più tardi. A
queste impressioni se ne aggiungono altre, e sono decisive: la visita da
collegiale, nel ’70 a Napoli, ad una corazzata turca, e l’entusiasmo
con cui il 14 Febbraio 1880 Napoli studentesca accoglie Giacomo Bove sulla
baleniera Vega, lui che aveva partecipato con Nordenskjöld ad
esplorazioni polari, navigando sulle coste siberiane dall’Atlantico al
Pacifico.
In quel suo animo che nascose sempre il sentimento sotto
l’intellettualità, un’altra impressione infantile, paurosa, lo
spingerò all’Oculistica. “Riandando colla memoria gli anni più
remoti d’infanzia… mi si parano dinanzi… come fiammanti
visioni lontane, le camicie rosse dei Garibaldini… ma s’erge pure
spaurevole, in quei lunedì d’ogni settimana, l’immagine di un
povero cieco, storpio per di più ma non vecchio, dalla voce lamentosa e
supplichevole che, accompagnato da un ragazzino, andava in giro di porta in porta
accattando il pane quotidiano”. Influì anche la tradizione familiare
– l’avo paterno era medico – ma la scelta gli fu dettata dal
cuore. Per lui la medicina non era soltanto una pratica, era un’idea,
l’idea di lenire il dolore. Era sacerdozio ed insegnamento. Tanti anni
dopo scriverà: “…scorrendo la storia della Filantropia a pro dei
diseredati della vista e dell’udito, medici, sacerdoti e pedagogisti
s’incontrano sempre stretti ad un patto, in un comune spirito di
carità”.
***
Goliardo
ventenne, alternava le lezioni con le letture e le conferenze al Circolo
filologico; leggeva in tedesco Haeckel e Goethe, poneva fiori innanzi al
ritratto materno, e così da fanciullo a vegliardo, non fu mai abbandonato dal
gusto congiunto del bello e del vero. Ma era serietà in lui non pesantezza. Non
aveva avuto uno sviluppo psichico unilaterale. Era armonico.
Fu allievo del Cantani, del Tommasi, ed ebbe il
primo indirizzo di clinica oculistica da Del Monte. Dopo la laurea passò a
Torino, allievo del celebre Reymond, vi assistette alle più svariate operazioni
di plastica, diresse subito una Sezione dell’infermeria alla clinica
oftalmologica, e maturò così l’agire tipico del medico di valore (stando
all’aforisma di Celso): cito, tuto et jucunde: sveltezza, sicurezza,
senza oppressione.
***
Il carattere era quello dello studioso.
In casa e con gli intimi parlava e destava sempre
interesse. A volte ricordava viaggi. Era facile e suadente nelle spiegazioni,
rapido nelle osservazioni, e trovava sempre qualcosa di fine, gustoso,
intelligente che poteva servire al momento. Fu affabile con tutti, sensibile
all’amicizia, pronto a giustificare. Non gli mancarono delusioni, e
specie nell’unica volta in cui a Piedimonte si trovò per poco nella
politica. Ma seppe incassare senza vendetta e senza strepito.
Un idealismo il suo non disgiunto da realismo.
Ricavava l’autorità dalla superiorità non dal comando. Quanto importanza
riconoscesse al matriarcato, al dominio morale della donna nella casa, appariva
dal suo ragionamento. Il nucleo familiare diceva, è un complesso armonico. Il
buon marito fa la buona moglie, questa fa i buoni figli, e tutti la buona casa.
Il fatto è (e nella sua bontà non se ne accorgeva), che egli era capace di quel
“complesso armonico”.
L’oculista Petella visitava e, di fronte
all’indigente, metteva mano alla tasca. Curò con ansia una bambina di S.
Gregorio caduta sul fuoco. La medicò quattro volte al giorno, con la febbre
addosso, e quando constatò che la vista di lei era salva, s’illuminò nel
volto, ed ebbe lacrime di gioia.
Questo da vecchio, ma il bene l’aveva fatto
sempre, anche giovanissimo, come quando a Pozzuoli curò 60 soldati tifosi (uno
per sei mesi) che lasciava di visitare anche dopo la mezzanotte. E quante volte
si interessò per ragazzi del popolo presso l’Opera Maternità e Infanzia
di Benevento! Quante volte fu chiamato a soccorrere infortunati del cotonificio
di Piedimonte! In lui confluivano chiaramente la passione per la scienza e il
gusto di far bene. Non vedeva solo il difetto e la malattia del corpo, vedeva
le limitatezze e le perversioni dello spirito. E additava nella cultura
popolare un primo rimedio alla visione ristretta, al conseguente egoismo, alla
corruzione latente… “Da noi si legge poco…”. Che
bisogna fare per istruire?
***
Patriota
nell’animo, nazionalista convinto, fu rigorosamente apolitico, perché
militare. “L’unica mia passione politica nella vita è stato il
Nazionalismo. Tutto e tutti per la Nazione. Niente e nessuno per sé
stesso”. Nel ’21 ebbe dal Comitato centrale Nazionalista la tessera
n. 13.137. E sebbene inizialmente avesse visto nel Fascismo un governo
rivalutatore del nome italiano, rinunziò subito a qualche carica locale
offertagli con premura. Don Giovanni era innamorato dell’Italia, non dei
partiti, perché non aveva interessi suoi. In quante pubblicazioni, accennando a
conquiste scientifiche italiane, non parla di “legittimo nostro orgoglio
nazionale”. Né il suo era fanatismo. Competente perché serio, serio
perché intelligente, il Petella era patriota nel suo campo. Ad esempio
deplorava solo che “in Italia si arriva sempre un po’ tardi, e si
agisce a rilento in varie imprese come la pubblicazione di monografie per
l’istruzione…”. Non deplorava tutto, come gli intelligentoni
che sanno tutto. Ma poi, anche in lui sotto la sovrastruttura cerebrale, si
attestava impetuosa la struttura emotiva: “Chi non è mai partito per
lontani lidi non può intendere l’emozione di quel giorno soavemente
triste, né la forte stretta al cuore che si prova nel separarsi dalla patria
diletta”.
***
La
fede religiosa dello scienziato?
Lo studio della religione era stato continuo,
sistematico, ordinato. Basterebbero le numerose, esatte, appropriate citazioni
bibliche. Conosceva profondamente il Cattolicesimo. E durante la mia adolescenza,
ricordo di averlo visto tante volte al rito sacro in S. Maria Maggiore a
Piedimonte. Ricordo quanto sentiti fossero i suoi rapporti coi vescovi Del
Sordo e Noviello. E quale fosse la sua convinzione nell’opera della
Chiesa, si può desumere da quanto scrisse visitando l’Esposizione
missionaria del ’25: “…da Roma, centro dell’Unità
cristiana, si espande su tutta l’Africa la parola di amore, che è quella
di Dio”. Ma il suo pensiero era fisso alla via che preferiva per arrivare
a Dio: la conoscenza scientifica della Natura. Parlando dell’America
scriveva: “…quel colosso fra i continenti al quale il Sommo
Architetto ha voluto imprimere nella grandiosità l’orma della sua potenza
creatrice”. Più incolto è l’uomo, meno riconosce la Divinità
(variante intellettuale del motivo morale: più malvagio e corrotto è, meno
riconosce Dio). “La conoscenza è la via che riconduce l’Umanità a
Dio” scriveva in Divagazioni paleogeografiche. E nei contrasti tra
fede e scienza? Così spinti, quand’era giovane, dal Positivismo evoluzionista?
Nelle dispute fra concordisti e anticoncordisti (che nella Bibbia vedono o meno
l’accordo con la scienza moderna), “…venne in buon punto
l’enciclica Providentissimus Deus del dotto e saggio papa Leone
XIII, che mirò appunto a conciliare la scienza con la religione…
L’ebreo yôm = giorno, può quindi esser preso liberamente in
discussione dagli esegeti come “spazio di tempo” (in Un’escursione
all’Atlantide,pagina 2).
Qual era per lui il valore della fede in Dio?
Eccolo, ben rapportato con la visione scientifica dell’esistenza:
“Certo è che la vita è energia, sia pur elettronica, e che la nostra non
è antropocentrica, collegata com’è invece con l’intero mondo
planetario, ma quando con David l’Autore magnifica il cielo
stellato… è sempre il sentimento emotivo che egli rievoca per
l’indistruttibilità e sopravvivenza del proprio essere, quel sentimento
che … abbellisce ogni idea, allevia ogni dolore, incita alla virtù e
rende lieta la vita”. (in Recensione ad Angelucci, pag. 2). Il
bisogno di Dio è il titolo di nobiltà dell’uomo.
Accentuò quest’attitudine religiosa intima,
contemplante, negli ultimi tempi, costretto a letto. Il mesto declino che
attende tutti. Il 14 Febbraio ’35, assistito dal vescovo Noviello, morì
come visse, serenamente, di una serenità che non è svagatezza, ma coscienza
calma, soddisfatta di sapere che si è compiuto bene un dovere. “Per
me” scrisse nel suo testamento “nessuna pompa vana, e voi
devolverete ogni spesa non necessaria a beneficio di persone bisognose…
Miei carissimi, seguendo alla lettera queste mie disposizioni, vi benedirò
ancora una volta dal mondo migliore in cui sono passato”.
[1] Petella: La Legione del Matese, pag. 123; Marrocco: Quaderno di cultura del Museo alifano n. 11: Mons. Di Giacomo, un vescovo nel Risorgimento, 1963.