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         La cultura varia di Giovanni Petella

 

Una mente per natura capace di tanto sviluppo, allenata da uno studio che durava quanto la vita, mentre polarizzava logicamente su una consuetudine di studi, non si chiudeva ai variati orizzonti delle cultura.Ciò sarebbe impossibile anche per un mediocre. Accanto al Petella clinico, c’è dunque lo studioso di tante altre discipline, studiate anche attraverso opere straniere, nelle lingue originarie.

La cultura vasta lo portava ormai a evidenti rapporti – sintesi fra le scienze. Evidenti logicamente per lui. Fu così, ad esempio, che nel ’98 si occupò come oculista di Psicopatologia del linguaggio, per un caso di cecità verbale con relativa agrafia, in persona divenuta afasica[1].

Gli studi storici, quelli di pedagogia emendativa, e quelli su Goethe completeranno la sua interessante figura, aperta a conoscenze le più disparate e lontane.

 

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è del ’91 la traduzione dal tedesco di una conferenza del Gen. Wenzel su Le navi-ospedale nella guerra marittima, sul loro scopo, l’allestimento e l’equipaggio (Giornale medico del R. Esercito).

Fu anche oratore. Nel ’99, inaugurandosi a Piedimonte il monumento a Ercole d’Agnese, pronunziò, dopo la parola violenta dell’On. Rosano, un discorso storico, calmo e ricco di notizie. Altro discorso pronunziò nel ’10 pure a Piedimonte, nel cinquantenario della Indipendenza, e in tale occasione si scoprirono due lapidi dettate da lui. E commemorò il giovane medico Smuraglia, caduto in Somalia in un’imboscata (Rinnovamento medico 1913, e Giornale d’Italia).

 

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Nelle recensioni fu illustratore obbiettivo e profondo.

In “La visione nell’arte e l’arte nel meccanismo della vita” del prof. Angelucci (Annali 1923) il Petella sintetizza un argomento vastissimo che va dalla riflessione storica all’ultrasensibile; e un quadro, come se fosse odierno fa di “Italia antica sul mare” di E. A. Stella. Su Riforma medica scrisse con gusto su Axel Munthe e la storia di S. Michele, il libro ricco di umanità e di pittura ambientale del neuropatologo svedese che si augurava di morire, lui protestante e razionalista, “col capo abbandonato sulla spalla di S. Francesco, il santo cattolico da lui preferito”.

 

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L’ingegno versatile dello studioso piedimontese non tralasciò la storia.

O sui posti dove viveva, o dove si recava in crociera, o dalla sola lettura storica nasceva in lui la visione e la reviviscenza di un avvenimento, il risorgere di un tenore di vita, di una mentalità svanita.

I fantasmi palpitanti del passato sono già vivi in I bagni di Diana e il Melete di Omero,una corrispondenza archeologica di Smirne (Vita italiana 1897), e si manifestarono nel suo principale lavoro storico La legione del Matese durante e dopo l’epopea garibaldina (Agosto 1860 – Marzo 1861), pubblicato nel 1910.

È lavoro ampio, di ben 330 pagine, in cui la ricerca meticolosa si amalgama col sentimento. L’ampiezza stessa del libro è dovuta al riferirsi costante ad avvenimenti importanti che fanno da sfondo. Figlio di un garibaldino, il Petella è nel libro un entusiasta, e basta leggere la prefazione, l’ottavo rigo, per restare un po’ meravigliati. Il lavoro vale senz’altro, soprattutto come nostalgica ed istruttiva visuale locale di avvenimenti su scala nazionale, e come cronistoria di Piedimonte e del suo distretto. Episodi della vita di Garibaldi fra il 1849 e il ’55 sono pure in Da Porto Venere alle isole della Maddalena e Caprera. I due lavori furono onorevolmente recensiti sulla rivista “Garibaldi e i Garibaldini”, e La legione ebbe il premio Vittorio Emanuele (1913).

Socio affezionato dell’Associazione storica del Sannio Alifano in Piedimonte, collaborò a quell’Archivio storico con la ricerca Per un’epigrafe di Casa Gaetani in Roma (1916). Il Petella era affezionato alla storica famiglia, ed esaminò due lapidi che nel ‘700, un principe di Piedimonte dedica in Santa Maria in Cosmedin a un cardinale di famiglia, e ad uno dei due papi Gaetani, Gelasio II.

Dai suoi viaggi nel Levante quanta resurrezione di mondo classico!

Leggende tebane e preistoria egea, genealogie omeriche, ubicazione di Troia, relazioni con l’Egitto, i colori in Omero… passano innanzi a noi in rapida rassegna in Ricordi di studi classici e preistorici navigando per l’Egeo (Annali 1917), e (Atene e Roma). Ed ecco seguire Problemi di civiltà antiche e vetustà di un medico egizio (Annali 1927). Veloci ed acuti sguardi sulle talassocrazie cretese e fenicia, e sulla presenza fenicia nell’Odissea. In quest’ambiente, lontano 32 secoli, appare Imhotep, sacerdote egiziano medico ed architetto, simbolo della medicina egizia che passa in Grecia (Epidauro), e giunge a Roma. Le navigazioni di Ulisse (Annali 1931) sono altro saggio dell’erudizione impressionante di Don Giovanni. L’itinerario di Ulisse gli appare saltuario, ed egli pensa ad una relativa possibilità di interpretazione dei luoghi.

 

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Ma dove l’erudizione diventa comunione di spiriti è riguardo a Goethe.

Il Generale studiò Goethe con trasporto intenso. È questione di affinità elettive, dicono gli psicologi. Più che per Dante, poeta-teologo e passionale, egli provò entusiasmo per Wolfango, poeta-scienziato. E logicamente è tutta la scienza di lui, e l’anelito alla perfezione, adombrato nello splendido mito di Faust, che lo attrasse. E su quella parte pubblicò: Piante e colori negli scritti scientifici di Goethe (Annali 1933).

Vi tocca le scoperte scientifiche del grande poeta e filosofo della Natura, tratta della concezione unitaria che aveva, del dualismo del suo spirito espresso in Faust e Mefistofele, di come nacque la passione di lui per la Botanica, e di quanto vi scoprì: “Alles ist Blatt”, tutto è foglia (e sua metamorfosi). Ma lo scienziato era anche poeta e pittore, e l’Italia, e Roma in particolare gli fornirono materiale. Nella Farbenlhere tratta della dottrina dei colori e del fenomeno primordiale della luce. Urphänomen, del senso cromatico dell’occhio, fino alla figurazione dell’uomo completo innanzi alla Natura “sensibile e spirituale”.

L’indagine sul grande germanico inizia con Goethe filosofo e scienziato (Annali 1932). Vi tocca anzitutto l’evoluzionismo del Goethe, che è variazione non trasformazione. Ma poi si chiede, come nacque Faust, un personaggio del teatro tedesco dei burattini, Puppenspielfabel? Come nacque in Goethe? Come divenne ricerca inappagata dell’anima della Natura?… Ed ecco l’analisi del poema, una Divina Commedia in cui si cerca Dio ma senza trovarlo, e in cui confluiscono religiosità e mito, sentimento e scienza. Come penetrare nella sua anima di genio? Il Petella, vecchio ormai come il Goethe quando terminava il poema, si ferma su un’espressione, quella del coro finale degli Angeli: Alles Vergängliche Ist nur ein Gleichnis! = Tutto il caduco è solo un simbolo! Il Faust va studiato così: un tormento di inappagamento, un processo soltanto umano di continua penetrazione del mistero, e che si arresta (perché è privo di Soprannaturale vero) alla misteriosa: “Mehr Licht!” più luce! del poeta morente.

Ma il Goethe aveva una religione? Certo. Si dichiarò theissimus e christianissimus, ma intanto si sdoppiava, e non riusciva a unificare l’Universo nella fede. Come uomo era monoteista (avendo cara la Bibbia), come poeta, politeista (avendo cantato gli Dei), come scienziato, panteista (perché in ogni essere vedeva la Vita universale).

Terzo lavoro del Petella su Goethe fu Littoria al centro del regno sognato da Faust (Annali 1933). Il plauso del malariologo Senatore Marchiafava apre lo scritto, e un volo pindarico ci porta sulle bonifiche di Faust nelle lande del Nord.

Goethe aveva concepito il monologo di Faust durante il viaggio in Italia, sull’Appia, nel 1787. I primi versi furon fatti presentare dal Petella a Mussolini che li lesse “sorpreso e commosso per il parallelo che ne scaturiva”. Tradotti dicono:

 

Una palude si tende lungo il monte,

e appesta tutto il già conquistato;

tòr di mezzo la putrida maremma

sarebbe alfin la più grande conquista.

 

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L’uomo della riflessione e dell’esperimento, come non rinnegò un subcosciente atavico che lo portò all’entusiasmo per Garibaldi, così non fece tacere la bontà innata. Trovò perciò inclinazione per gli studi di Pedagogia emendativa, quelli che dalla scienza passano alla sociologia ed alla morale.

C’è modo di riscattare alla società i minorati psichici, gli anormali, affinché non restino, pietosa zavorra, legati a chi per varie ragioni deve curarli? Don Giovanni pigliava ad un certo momento una passione intensa per uno studio, l’approfondiva, ci scriveva su, poi una nuova serie d’interessi lo spingeva ad altro. Questo per le discipline non professionali.

È così che tra il 1906-08, tre pubblicazioni c’indicano precedenti indagini. Nel Dicembre 1906 a Roma, al quinto Congresso nazionale Pro Ciechi, presentò una dotta memoria poi pubblicata dalla Rivista di Tiflologia (tiflos in greco vale cieco): Da Alessandro Rodenbach ad Elena Keller. Sono cinquant’anni di scuola per i ciechi. E quanta tristezza egli prova, paragonando quanto poco si faccia per essi in Italia di fronte a quanto si attua negli Stati Uniti! E dove possono arrivare, se si pensa al cieco Rodenbach scrittore e deputato belga, se si pensa alla Keller che “tenebre e silenzio” avvolsero a diciotto mesi, e cioè fu cieca e sordomuta e poi, solo col tatto, scrittrice! Il lavoro si chiude con l’analisi di varie forme e sistemi di dattilologia.

Seguì L’ottimismo di una sordomuta cieca (L’educazione dei sordomuti 1907), commovente perché inneggia alla vita, alla bontà, all’affetto, proprio la Keller che non aveva mai visto e sentito alcuno. Don Giovanni si sofferma commosso sulle parole di lei: “Cristo propugnò un messaggio di pace e di amore in terra, propugnò la fede in un’idea… Il giorno di Natale è perciò il festival dell’ottimismo. Paolo si fece di quel Vangelo apostolo fra le genti, predicando che anche i ciechi nati possono cercar tesori nell’oscurità”. La Keller dall’America ringraziò commossa il Petella, e fra le centinaia di lettere di dotti ed autorevoli amici, quella della mirabile sordomuta fu forse la più gradita al suo animo sensibile.

In Precursori italiani di Tiflopedagogia (1908) ricordò infine G. Cardano, padre Lana S. J. E padre Armanni, autentiche glorie d’Italia nell’insegnamento ai ciechi.

 

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Conclusione.

Dopo questa frettolosa rassegna di quanto la cultura di Giovanni Petella ha prodotto, dopo aver tentato qua e là di abbozzare un’indagine sul suo animo superiore, vogliamo concludere, giustificando la ragione delle onoranze.

La grandezza del Generale Petella si fa ammirare solo guardando le sue pubblicazioni. Solo scorrendole, per il fatto che son tante e così speciali, ne scaturisce l’ammirazione per l’uomo di studio.

E noi sappiamo che il pensiero chiuso in un libro è solo una parte del nostro animo mobile e creatore, dato che sulla carta appare come mummificato. Comunque, quando in uno scritto si constata convergenza precisa di ragionamento, intelligente scelta di elementi, accenni ad una cultura enciclopedica, si ha la prova che il pensiero atto a produr ciò, risulta ben più vasto di quel che appare. Ora giudichi il lettore. Gli scritti esaminati, per le analisi approfondite ed estese e per le sintesi proprie, quante conoscenze comportano! E conoscenze così estese quanti anni di studio richiedono! E una vita intera di studio, da quale carattere, da quale volontà, da quale intellettualità deriva!… Anche se non ha edificato opere materiali nel proprio paese, le sue benemerenze vanno molto più in là: attraverso le pubblicazioni vanno verso l’Umanità sofferente.

Sta qui la ragione delle civiche onoranze a Giovanni Petella. È l’omaggio che Piedimonte e il Medio Volturno doverosamente tributano ad una personalità integra e studiosa che fa onore alla terra che la generò, e che ora ne custodisce le spoglie. L’omaggio a Giovanni Petella indica la civiltà del popolo che lo sente e lo compie, perché è il riconoscimento che gli onesti e desiderosi di elevazione tributano in lui all’onore ed alla cultura.

 

Piedimonte, 1 Settembre 1964

Dante Marrocco

 

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[1] Si può dimenticare di parlare (afasia), di scrivere (agrafia), e si può vedere diversamente quel che è scritto (cecità verbale).