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Domenico Caiazza

 

IL PALAZZO DUCALE E PIEDIMONTE D’ALIFE MEDIEVALE

 

(In Barbiero Anna, Arte e storia nel palazzo ducale di Piedimonte d’Alife, 2000, pp. 5-11)

 

 

 

Il palazzo dei Gaetani dell’Aquila di Aragona torreggia maestoso nel quartiere medievale di Piedimonte d’Alife, ora Matese. Nonostante sia da anni in malinconico abbandono, praticamente disabitato e privo di manutenzione, per la sua posizione e la sua mole severa è certo la più imponente testimonianza storico-architettonica di un antico e notevole comparto edilizio peraltro non privo di altri monumenti, come la chiesa gotica di S. Giovanni che svetta sul borgo, o la basilica di S. Maria, o il convento domenicano.

Continua così a testimoniare i fasti di una delle più antiche e cospicue famiglie italiane, imparentata con le più nobili casate del Regno, che vanta nella sua secolare storia pontefici e condottieri, vicerè, letterati e scienziati.

Nella sua secolare evoluzione il palazzo ducale ha, per così dire, registrato gli eventuali positivi e negativi che hanno interessato Piedimonte: ha accolto ospiti illustri e subito saccheggi, raccolto le rendite feudali e distribuito arte, cultura e letteratura.

È, dunque, testimonianza importante e forse unica del passato della città, oltre che della dinastia che per secoli la ha governata, sicché la sua storia in pratica coincide con quella di Piedimonte medievale e va esaminata nel contesto di questa.

 

L’esame delle superstiti case e chiese medievali del quartiere di S. Giovanni documenta che lo steso ebbe origine, o quanto meno si monumentalizzò, nell’epoca gotica alla quale senza dubbio rimandano le opere d’arte e le ogive della Chiesa di S. Giovanni, di Palazzo de Forma, di S. Biagio, mentre non risultano testimonianze architettoniche di epoca longobarda o normanna.

Tale dato concorda pienamente con l’esame delle più antiche fonti documentali, ed infatti la prima menzione del toponimo Piedimonte data all’anno 1020 ed è contenuta nel placito della lite tra Vito, Vescovo di Alife, e l’Abbazia di S. Maria in Cingla, sita in Ailano.

Nell’antica pergamena, edita dal Gattola e tuttora conservata a Montecassino, [6] sono menzionate molte località del territorio alifano e tra queste alcuni pezzi di terra che il monastero cedeva per combenientiam al Vescovo.

Precisamente vennero date

 

Quinque peciis de terris pertinentes nominatae suae ecclesiae monasterii, que sunt videtur in nominate Alifane finibus, cultis et incultis, una ex ipse in loco Sanctu Columbanu, una cum ipsa ecclesia S. Columbani inique constructa, et alia in loco Brellanicu, et tercia ex ipse in loco Sipiczanu, quarta in loco Scarpellani, quinta vero IN LOCO AD PEDE DE MONTE ubi dicitur ad pentuma et petra cupa erga flubio Torano.

 

Erano terre, coltivate o incolte poste nei confini del territorio di Alife: l’una presso la chiesa di S. Colombano, l’altra presso un logo detto Brellanico, la terza a Spicciano,la quarta nel luogo detto Scarpellani e “la quinta nel luogo ai piedi del monte che viene chiamato alla Pentima e Pietra Cupa presso il fiume Torano”.

Dunque nel 1020 il toponimo di Piedimonte è nell’uso ma non è predominante ed univoco se a differenza delle alte località, deve essere specificato con ulteriori riferimenti ai toponimi Pentima (= luogo scosceso, nome ancora conservato per indicare la zona dell’abitato prossima alla sorgente del Torano) e Pietra Cupa, presso il fiume Torano.

Che dove oggi è Piedimonte non vi fosse nel 1020 un abitato lo si ricava non soltanto dalla definizione del sito come locus = località e non vicus o casale ma anche da un documento riferito a Spicciano, questo sì definito vicus, in altro placito relativo ad una lite tra S. Maria in Cingla e i conti di Alife. Siamo nell’anno 999 d.C. -giusto mille anni or sono- e viene descritto un latifondo di Spicciano con i seguenti confini:

 

De prima parte fine via que pergit per Vicum ad ipum Toranum, de seconda parte fine alia via, que vadit circa Rabe e pergit ad Ecclesia S. Angeli. De termia parte fine via, quae est sub ipso Torum. De quarta parte fine alia via, quae vadit et coniungit se in ipsa via que est prioras fines.

 

Il terreno era dunque tutto compreso tra strade che si originavano dal villaggio e vi tornavano. Strade che, come l’abitato, tutt’oggi esistono e consentono di ripercorrere senza dubbi il perimetro del confine descritto nel documento.

Confine che, per il primo lato, coincide con la strada che dal villaggio di Spicciano raggiunge il Torano, da qui risale lungo la rava = corso d’acqua, sino alla chiesa di S. Michele Arcangelo che era nei pressi della sorgente, ma sull’altra sponda, poi corre sino alla rupe dalla quale il Torano sgorga e ne deriva il nome (ipso Torum) ed infine la strada torna indietro sino a chiudere il circuito riallacciandosi al punto di partenza. Basta uno sguardo alle carte topografiche per [7] verificare tale confine che certo raggiungeva la zona ai piedi del monte dove sorgeva la chiesa di S. Arcangelo ovvero le “Pintime del ponte di S. Arcangelo”[1]. È dunque documentata la chiesa ed il nome Torum del monte ma nulla autorizza a parlare di un abitato.

Pertanto anche se esisteva in epoca tardo-longobarda una chiesa dedicata a S. Michele e se non lontano, laddove è oggi il piazzale della stazione ferroviaria di Piedimonte, sorgeva il Monastero di S. Salvatore, la zona del quartiere di S. Giovanni alla stregua di tali fonti non era abitata ma era solo un locus, il locus ad pede de monte.

Era però attraversata dalla principale via che da epoca sannitica e romana portava al Matese e superato l’altipiano del lago scendeva verso Sepino e Boiano. La strada romana fu vista e descritta dal Maiuri e tuttora la via che da Campochiaro sale al Matese è detta Via di Alife, con nome certo anteriore al formarsi dei borghi autonomi di S. Gregorio, Castello e Piedimonte. Diversamente si sarebbe detta ad esempio via di S. Gregorio, o di Castello o di Piedimonte.

La via antica in epoca medievale fu presidiata all’altezza dell’abita di Castello, che si addensò al riparo della mura, ma anche più in basso fece da generatrice all’abitato medievale di Piedimonte, nato, come crediamo di aver dimostrato sopra, dopo il 1020 e dunque dopo l’epoca tardolongobarda e protonormanna.

Assunto come terminus post quem il 1020 è però da dire che non vi è sicurezza alcuna che il quartiere di S. Giovanni sia normanno, come spesso viene ritenuto.

Non abbiamo infatti resti di epoca normanna: ad esempio e torri comparabili a quelle di Castello d’Alife o di S.Angelo Raviscanina menzionato nelle cronache coeve e dunque sicuramente esistente e fortificata.

Invece la torre di Castello d’Alife, priva di scarpa e di difesa piombante ed anche per tessitura muraria comparabile a quelle del castello di S. Angelo Raviscanina, sembra normanna.

Di un abitato normanno dov’è l’attuale borgo medievale non vi è menzione neppure nelle fonti e nelle cronache che pure ricordano, ad esempio, Rupecanina, Dragoni e S. Salvatore Telesino. Inoltre Alife normanna è ancora una grande città e con Rainulfo Duca di Puglia diviene una delle capitali regionali dell’Italia meridionale come Napoli e Palermo.

Anche dopo il saccheggio datale da Ruggero Alife non decadde e, sebbene nel [8] suo territorio vadano ricompresi quelli dei casali poi resisi autonomi, è nel Catalogus Baronum menzionata come feudo di ben XX militi posseduto da Malgerio Sorel.

Occorre qui chiarire che il Pedemontis feudum II militum che compare nel Catalogus Baronum non è il nostro Piedimonte bensì Roccapiemonte in Provincia di Salerno posseduto da Novellonus de Bussono insieme a Ceppaloni, Altavilla, Pannarano, Penta, S. Giovanni, frazione di Ceppaloni.

I De Bussono ebbero terre nell’alifano e dintorni ma non pare possibile smentire la Jamison ed il Cuozzo[2] sull’identificazione del Pedemontis del Catalogus con Roccapiemonte.

D’altro canto, anche a tenere ferma in via di mera ipotesi l’identificazione proposta dagli eruditi locali del Pedemontis e del quartiere di S. Giovanni con la nostra Piedimonte appare impossibile che in un secolo questa fosse cresciuta tanto da divenire non solo feudo autonomo ma potesse con un suo abitato distinguersi dal quartiere di S. Giovanni col quale, invece la Piedimonte medievale pienamente coincideva. Dunque pare improbabile che in quest’epoca protonormanna, nella quale Alife era ancora fiorente e potente, nasca Piedimonte che si alimentò del disfacimento della città madre. E durante le guerre tra Rainulfo e Ruggero, allorquando vi fu l’esigenza di presidiare la via del Matese si fortificò l’attuale Castello, rialzando le mura megalitiche sannitiche ed addossandovi la torre tuttora conservata.

È in età Federiciana-Angioina che appaiono con certezza l’abitato e di feudatari di Piedimonte e riferimenti nelle cronache, e tali dati sono compatibili con l’architetture gotiche del borgo medievale. Così ad esempio nello statuto emanato dall’imperatore Federico II per prescrivere la riparazione dei castelli imperiali del Giustizierato di Terra di Lavoro e Molise e ripartire gli oneri tra le popolazioni finitime si legge

 

Castrum Alifie reparari potest per homines ipsius terre, Pedemontis et Baye.

 

Dunque il restauro del castello di Alife incombeva agli abitanti della città di Alife, di Piedimonte e di Baia e gli uomini di Piedimonte sono distinti, quali destinatari dell’obbligo, da quelli di Alife.

Nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 si legge al n. 2027 “clericis Pedemontis pro beneficis suis que valent unc. IIII tar. XXVI e mezzo, solvit tar. VIII”. Nella decima dell’anno 1325 l’abitato appare dotato di varie chiese e di un territorio poiché gli esattori

[9]

receperunt ab archipresbiteri et clericis castri Pedismontis de Alifia pro fructibus suis ecclesiarum territori castri Pedemontis alifane diocesis et obventionibus suis tar. XVIII.

 

Sarà dunque il caso, allo stato attuale degli studi, abbandonare le ansie di retrodatazione sia la suggestione del Trutta che voleva Piedimonte fiorito addirittura nel IX secolo sia quella che lo vuole nato in epoca normanna.

Occorre poi non farsi ingannare dalla dizione castrum dei documenti medievali, definizione con valenza giuridico-amministrativa per indicare nel medioevo un abitato non ornato dall’onere del vescovato, o del titolo di città, ed evitare di confonderlo con castellum che, invece, indica un edificio predisposto alla difesa, quello che noi chiamiamo castello.

Nel caso di Piedimonte sino a che documenti d’archivio, fonti storiche inoppugnabili o scoperte archeologiche non provino il contrario si dovrà, dunque, rifiutare il luogo comune che il quartiere di S. Giovanni abbia avuto un circuito murario e che il palazzo ducale sia la trasformazione di un preesistente castello.

Delle mura infatti non vi sono documentazioni archeologiche o documentarie ma solo asserzioni di eruditi locali, tanto apodittiche quanto non provate che non reggono al vaglio di una disanima critica. Quanto al Palazzo Ducale ove non bastasse l’appellativo di “palazzo”, e non castello, a suggerire prudenza sarà sufficiente dare un’occhiata alla pianta dell’edificio per rendersi conto che nella stessa non appaiono ambienti che per struttura, spessore delle mura o presenza di scarpe o di apparato piombante o tecnica muraria, possano ragionevolmente identificarsi come torri poi inglobate nel palazzo.

Né è diagnostica la pianta quadrata che, ad esempio si ritrova anche nel Palazzo Ducale di Pietramelara.

Le cose non vanno meglio studiando la relazione tra il supposto castello e il quartiere medievale di S. Giovanni. Infatti il castello, contro il normale costume, solo in questo caso, sarebbe stato edificato non a monte dell’abitato ed in alto, ove per intenderci è la chiesa di S. Giovanni, ma in basso, in posizione panoramica e forte per i salti di quota, ma inidonea a difendere l’abitato o anche a sorvegliarlo.

E poi l’esistenza di un circuito di mura, da taluni ipotizzato e persino disegnato, a difesa del quartiere di San Giovanni è ben lungi dall’essere provata.

In primis non ve ne sono indizi sul terreno o nelle abitazioni. Infatti non è dato vedere, per intero od in frammenti alcun muro antico o torre e nulla impedisce di ritenere che il muraglione distrutto nel settecento presso la chiesa di S. Maria avesse funzione di contenimento e sostruzione anziché difensiva. E del resto, mentre nulla indizia una natura difensiva i canonici lo rifecero su pressione del feudatario proprio ad evitare danni alla chiesa.

L’assenza di resti monumentali e le incongruenze delle ipotesi ricostruttive suggeriscono ragionevole prudenza sino a nuove scoperte.

[10] Naturalmente non può escludersi del tutto che l’abitato nato, a giudicare dalla pianta, in modo spontaneo da case aggregatesi lungo la via che dai Seponi conduce a Castello, si sia strutturato nel tempo con edifici addossati tra loro per ragioni di economia e sicurezza e sia stato poi dotato di porte in funzione daziaria e anche di protezione.

È ipotizzabile anche che in S. Giovanni vi fosse anche qualche casa-fortezza per dimora e tutela delle famiglie più cospicue e o per controllo del transito. Ciò è possibile ma non basta a fare di un casale un fortezza e di un palazzo un castello.

Poi non si spiega perché solo a Piedimonte sarebbero completamente scomparse le da tutti ipotizzate ma da nessuno mai viste e documentate mura e torri, mentre negli altri borghi fortificati prossimi dappertutto si vedono strutture difensive superstiti.

Poiché solo a Piedimonte, S. Potito, Sepicciano e S. Gregorio, ovvero negli antichi casali di Alife, non è dato trovare resti di mura o torri o castelli (a differenza di quanto avviene a Castello d’Alife e nei centri prossimi di Ailano, Castello di S. Angelo-Raviscanina, Baia, Gioia, Faicchio) la spiegazione più ovvia e probabile è che tali casali, come dice il nome, non abbiano mai avuto le mura.

È però innegabile che l’impianto del Palazzo Ducale, peraltro analogo a quelli di altri palazzi rinascimentali, come il Palazzo Ducale di Pietramelara, per mole severità e imponenza richiami suggestioni di fortezza e ciò spiega la communis opionio ma non può giustificarla.

 

Se, pertanto, è non provato ed anzi improbabile che il palazzo ducale di Piedimonte sia evoluzione di una fortezza è però certo che siamo in presenza di una imponente dimora gentilizia via via ingrandita e arricchita da una delle più cospicue casate d’Italia.

Nel suo lavoro l’Autrice con puntualità ci accompagna nell’edificio descrivendolo in modo tecnico, ma a tutti accessibile.

Ne mostra le fasi, gli elementi architettonici più antichi: dal bel portale gotico alle modificazioni cinquecentesche, ricostruite e datate sulla base delle evidenze superstiti, con dovizia di argomenti.

Ella ha poi documentato con carte, talora citate ma praticamente inedite, l’ampliamento del palazzo e la sua trasformazione settecentesca.

Ma soprattutto ha innalzato il ricco patrimonio di affreschi, dipinti e decorazioni, interpretando i soggetti e formulando con attendibilità le attribuzioni ad artisti di scuola napoletana richiamati a Piedimonte dal mecenatismo dei Gaetani.

Tale lavoro, per la prima volta tentato e compiuto in modo documentato ed egregio, avrebbe già di per se giustificato la pubblicazione dell’opera che, però, si segnala soprattutto per aver ricostruito e reso a noi evidente intorno ad Aurora Sanseverino ed al consorte Nicola Gaetani il fervido clima culturale che nel [11] campo della pittura, del teatro, della musica, della poesia, della filosofia e pedagogia li vide protagonisti attivissimi e non secondari.

Il feudalesimo fu anche questo e se nelle corti angioine e aragonesi furono tenuti in onore poeti, artisti e letterati già nel Quattrocento feudatari si dedicarono alle arti come alle armi e ai pubblici affari.

Rinviamo alla compiuta esposizione dell’Autrice per l’illustrazione di opere e di artisti non senza rilevare che è addirittura impressionante la mole di quadri di grandi autori che i Gaetani seppero radunare nel Palazzo di Piedimonte e lo spessore dei loro corrispondenti, da Matteo Egizio a Giambattista Vico.

E la loro erudizione non rimase sterile ma discese per i rami se è vero che don Raimondo De Sangro, Principe di S. Severo, era figlio di una Gaetani di Piedimonte e si recava nel palazzo dei nonni come è ricordato dal Trutta che con lui compì una ascensione sulla vetta del Matese, narrata con magistrali parole.

Di questo lavoro di documentazione e ricostruzione di una felice temperie culturale, che potrà forse in futuro essere affinato e aumentato, pure essendo già oggi più che sufficiente, siamo grati alla dott.ssa Barbiero ed alla Banca Capasso Antonio SpA.

Questa, col mecenatismo che ha ispirato la sua Collana del Libri di Arte Scienza e Cultura e col dinamismo che distingue un istituto antico per anni e tradizioni ma attivo al punto di aver conseguito in questo anno il lusinghiero traguardo del primo posto nella superclassifica tra le Banche Italiane Minori, ha assunto gli oneri del presente volume consentendo delle scoperte di una giovane e promettente studiosa siano divulgate e diventino comune ricchezza culturale.

Spesso le Banche pubblicano libri, e spesso sono opere bellissime ma più di lustra e facciata che scientifiche ed innovative e naturalmente privilegiano studiosi affermati anziché esordienti.

Di questa scelta, controcorrente ma felice e feconda, va il merito al Consiglio di Amministrazione, al Presidente Corrado Capasso e al Direttore generale dott. Salvatore Capasso ai quali, insieme alla dott.ssa Anna Barbiero andrà il plauso del mondo scientifico e di quanti hanno amore per la cultura e la storia dell’arte.

 

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[1] La Chiesa di S. Arcangelo presso la sorgente ed il ponte sul Torano è citata da D. Marrocco, Piedimonte Matese, II ed. 1980, p. 57, ove è anche segnata in pianta, alla pagina successiva si legge che era chiesa parrocchiale abolita nel 1417. è questa la più antica chiesa ed edificio di Piedimonte di cui abbia notizia e la fondazione alla sorgente trova origine nel particolare i rapporti tra S. Michele e l’axqua.

[2] Cfr. Catalogus Baronum, a cura di E. Jamison, Roma 1972, p. 169, n. 955; E. Cuozzo, Commentario, Roma 1984, p. 265, n. 955.