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Il Matese sulla stampa napoletana quarant’anni fa.
Chi guarda a Nord da Capodichino, nei freddi e
limpidi pomeriggi d’inverno, vede lontano, sotto un cielo d’un
azzurro intenso, al di sopra d’un fondo nebuloso, dei picchi bianchi,
quasi evanescenti.
Li vede e li sogna come una terra lontana e diversa,
dove spesso la tormenta paurosa, la solitudine incombente, il paesaggio
maestoso, gli raggelano il cuore, e ne traggono con forza quel sentimento del
sublime, che ci dà la nostra misura nel cosmo, e che invece nella grande città
sfugge inavvertito.
Qelle cime nevose, solitarie, intraviste a Nord,
sono il Matese. Lo sguardo umano vi giunge da Napoli, quasi ad indicare che fin
lì si spinge e pulsa il grande cuore dell’antica capitale.
Oggi in macchina in due ore si raggiungono da Napoli
i suoi prati, il suo lago, i suoi piccoli abitati. Per questo, per la sua
imponenza, per la direzione dei suoi interessi, il Matese merita il nome di
montagna di Napoli. Ma questa sua qualità non è nata ora. Già in passato esso
ha avuto i suoi rapporti colla regina del Tirreno. Oggi, questi sono di massa,
ecco tutto. Prima erano solo di pochi.
Rievochiamoli questi rapporti sul Rievocatore, su
questa pubblicazione squisitamente napolitana, ricca come Napoli di passione e
di grazia, povera e nostalgica, fine, colta, avvincente.
Nella vasta pianura campana, fin dalla periferia
stessa di Napoli, il nostro buon popolo, non amante di soverchi trapazzi,
conosceva di un lontano, pauroso Matese, e lo sapeva attraverso due proverbi.
Pioveva a dirotto? – È venutu Matese! Si sentiva dire. C’era
da affrontare rischi poco redditizi? “Matese, Matese, - piére nfuse i
male spese”, ecco l’altro. Dunque terra di tempeste e di
disagi. Ci si vedeva l’opposto del sereno di Napoli. C’è voluta la
strada, la macchina, la villeggiatura, a far cambiare concetto. Oggi il lontano
orizzonte nevoso, irraggiungibile, terrificante quasi, è terra di casa.
Gruppi di cacciatori vi salgono da Napoli per
assaporarvi quaglie, e, perché no? Lepri e pernici, ma chi mai s’è
sognato questo in passato? Sbagliato. Re Carlo III d’Angiò, che regnò dal
1382 all’86, via Telese, sostava a Piedimonte, presso sua zia Sveva
Sanseverino, la colta e pia signora del Matese, e vi saliva a caccia. Fantastico
il corteggio regale. Corni da caccia, berretti piumati, guaiti di veltri e
scalpitii di cavalli, corse di paggi e valletti occupati con falconi e
cormorani, e la cavalcata reale passava per il Castello di Piedimonte e San Gregorio,
dove i Pastori assistevano estatici…
Solo gli Scarponi del C.A.I., gli sciatori di oggi,
non hanno precursori, né l’hanno i giovani e le ragazze che il Comune di
Napoli e vari enti mandano lassù a ritemprarsi. Cose nuove, queste.
L’interesse scientifico c’era dal
‘700. Da Napoli s’inviò sul Matese Leopoldo del Re, il primo che
misurò l’altezza di Monte Miletto (m. 2.050) nel 1822: 1055 tese. E da
Napoli vennero a studiare le specie vegetali di quelle aeree balze il Cirillo,
e il Terracciano. Da Napoli è venuto il Colamonico a visitar grotte e
inghiottitoi. Relazioni severe, silenziose ma feconde, queste, fra la scienza
partenopea e il Tifernus mons di Livio. E non sono terminate. La facoltà
di Agraria di Portici proprio ora vi sta istituendo un centro sperimentale,
tramite il prof. La Rotanda. Il Matese è dunque il campo sperimentale della
nostra Università.
Napoli dinamica e moderna cerca ossigeno?
L’aria pura la trovano sul Matese i professori Castellino e Caso. Fondano
a Napoli i Pionieri del Matese, lodevole associazione che durante la gita
studia le possibilità mediche e d alberghiere di quelle alte terre. E quanto si
deve anche a quel gruppo d’uomini della instancabile Pro Loco di San
Gregorio Matese, nella quale Teodoro Mezzullo e i suoi amici non stanno a
sognare, ma puntano le loro concrete realizzazioni proprio sul titolo di
quest’articolo: il Matese avrà uno sviluppo in funzione di Napoli. Così
sono sorti alberghi di lusso, nel piccolo centro: Miramonti, M. Miletto, Villa
Maria, Orizzonte e tanti della pianura vi elevano chalets. Un fervore di
opere che può esistere solo in grazia di questa congiungente ideale Napoli
– Matese.
Per il commercio, Napoli è il mercato del Matese coi
suoi latticini, lana, prosciutti, carni, ed è voluto da forti imprese e ricche
personalità partenopee, quali la Cirio, e Fiorentino e Pignatelli…, ma
sapete che c’era anche in passato, giù giù fino alla preistoria?
Neapolis, la grande figlia di Partenope, inviava lì ceramiche e bronzi.
Un’affacciatina al museo di Piedimonte vi convincerà.
Ho appena accennato allo scambio, all’osmosi
fra la metropoli e quei monti evanescenti a Nord. Ma via, noi dell’antico
regno abbiamo tutti qualcosa dell’animo napoletano. E non viviamo solo di
pane. Sul Matese Napoli ha anche palpitato, e il suo cuore ci ha trovato
qualcosa adatta a variare la vista del suo mare; e per la bocca di E. A. Mario,
ha saputo esaltarne l’inaspettato, il paesaggio sconfinato.
Ncoppa ‘o Matese
– nun ghi mai sulu…
E ppo ‘a llà ncoppa
affacciete,
giacché nce si arrivato vuò
vedé.
Varda attuorn’a te, e
che vide?
tutte cose a stravedé!
Tu stai ‘ncielo e nun
‘o ccride,
pare suonne ma nun è!
Il vento del Tirreno vi ha spinto artisti, che vi
hanno lasciato impronta di quella scuola pittorica, così ricca di colore e di
vita. Nomi come Solimene, Rossi, Ruoppolo, Nani, De Dominici, Cusati, allievi
del De Mura, e ai tempi nostri Fabbricatore, Bocchetti, Piciullo. Essi lo hanno
ricreato sulla tela, come la pastorella arcade Aurora Sanseverino ne aveva
sentito il mormorio delle selve.
E ancora un’altra nota. Napoli ha inviato sul
Matese la sua spiritualità. Il santo di Napoli e di Ischia, Fra Giovan Giuseppe
della Croce, trovò nella “Solitudine” di Piedimonte un ambiente
propizio all’elevazione, fra le cime solitarie, spettatrici di lontane
pianure popolose. Rientrato dalle sue estasi, egli tornava napoletano, dal
pretto e gustoso accento, e conquistava di più.
Ecco la montagna di Napoli! Tutte le corde
dell’arpa partenopea vi hanno vibrato. Continuiamo anche noi questa
serena armonia.
Più si attrezza il Matese – a fra poco anche
le funivie –, più facilmente diventa la meta della gita familiare, e
della villeggiatura estiva. Più facilmente Napoli vi allargherà il suo respiro,
e l’aria mossa e leggera di quei monti completerà la sua azione,
alternata all’aria tiepida del Tirreno, eserciterà il corpo, svagherà la
mente, rinnoverà lo spirito.
È estraneo questo articolo al Rievocatore? Abbiamo
anche rievocato. Ma il nostro ricordo non è quello del vecchio inerte, no, è
quello dell’uomo fattivo, al quale il ricordo dei grandi fatti passati è
sprone, pungolo all’attività e alla realizzazione.
(Tratto da:
Il Matese montagna di Napoli, In “Il Rievocatore” periodico
mensile di cultura, Anno XIV, n. 1-4, gennaio-aprile 1963, pp. 14-15)
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Da anni faccio passeggiate sulla superba corona di
montagne del Medio Volturno. Preparavo l’itinerario sulle carte del
T.C.I. o dell’I.G.M., e conoscevo così quei nomi di monti e di valli. Ma
poi, interrogando i pastori, sentivo quei nomi in una pronunzia diversa, e che
significava qualche cosa di vero, di corrispondente ed esatto. Conclusi che
bisognava cercare il toponimo non nella pseudo versione italiana, ma nella
pronunzia vernacola dei vecchi ed umili abitatori dei monti che
l’appresero da chi li precedette, per quell’esatta rappresentazione
e funzione che i luoghi avevano per essi.
Questi nomi dialettali che indicano le nostre terre
e i nostri monti, quando sono nati? E che significano? Non sempre si può
rispondere, ed è bene non sforzarsi nelle interpretazioni, altrimenti rideranno
i glottologi. Riportiamo solo i nomi.
Vengono da una pergamena del 1020, un giudizio per
una controversia fra il monastero di S. Maria in Cingla presso Ailano e il
vescovo di Alife. Vi si riporta un altro documento del 987. L’arcivescovo
di Benevento assegna a Vito vescovo di Alife (il vescovo dell’anno Mille)
i confini della diocesi. Per il carattere divulgativo dell’articolo
traduco il testo, riportando anche qualche frase del latino barbarico del
decimo secolo: “Alfano arcivescovo al clero, alla nobiltà e al popolo che
stanno in Alife, figli dilettissimi del Signore chiedenti salvezza, mentre
consacrava (vescovo) me Vito ven. diacono… aveva decretato che la chiesa
alifana, come in passato così sempre, dovesse avere il territorio episcopale
nell’ambito dei seguenti confini, con perpetua giurisdizione, senza
contradizione sua e dei suoi successori, e che inviolabilmente fossero: da una
parte col fiume alvente (ex una parte fine flubio albente), di lì passa
nella selva (indeque badit in ipsa tora), da dove esce presso gli archi
(et exit in ipsos arcus), successivamente avanzando si estende nei
piloni (dein progrediendo qualiter extenditur in ipsas pilas) che si
vedevano sorgere presso il fiume Volturno (quae stare videbantur juxta
flubio Bulturnum), dall’altra parte sul monte che si chiama Esere (ex
alia parte later montis qui Esere dicitur) il territorio di qui avanza
attraverso le cime di quel monte (ambitus deinde progreditur per serras
ipsius montis) fin presso il monte che si chiama Gallo (usque in montem
qui Gallus dicitur), di poi per il pendio di quel monte si estende fin
presso la fabbrica del muro morto (dein per descensum ipsius montis
extenditur usque ad frabicam muri mortui), e attraverso questa nel fiume
Volturno (et per eandem in flubio Bulturno); nella terza parte è separato
ad opera del fiume scorrente (ex tercia parte fluentis ipsius fluminis
dirimitur) ed infine, scendendo lungo il fiume, si riunisce ai primi
confini (dein descendendo per eundem flubium conjungit se in prioras fines).
Ecco i confini del vescovato risalente al quinto e forse al quarto secolo. Sono
gli stessi oggi che ci avviciniamo al Duemila.
I nomi non sono mutati molto. Il torrente Arvénto e
Alvénto esiste sotto Gioia, la tora (‘ncoppa a tora, si dice anche
ora) è la selva di Alife sulle collinette fra Gioia Alife e Volturno, i piloni
possono essere quelli presso il ponte degli Anici. Il monte Esere è il Miletto
(Esule), ed ecco due conseguenze: 1° Miletto non è il nome antico (neanche
Paterno lo nomina nel ‘500), ma è solo la cima dell’Esere: questo è
il nome antico dell’alto Matese; 2° l’italianizzazione in Esule è
arbitraria (e quindi la leggenda della principessa morta lì in esilio,
spifferata dal Del Giudice), “Esere” significa ben altro. Il
significato è oscuro, poiché va con prudenza riportato fino a tre millenni fa,
a un toponimo storpiato nei secoli, evidentemente ignorato nella romanizzazione
d’Italia (i Romani chiamarono il Matese Tifernus mons). Ecco come
si mutano le idee mal comunicate dalla carta topografica!
Per Gallo abbiamo senz’altro la località, ma
il monte che c’è anche oggi a Vallelonga, è nel territorio storico (oggi
ecclesiastico) d’Isernia. È possibile in tal caso che tutte le cime del
posto (Favaracchi, Caselle Iannitti) siano esse il monte detto Gallo. Per
questo cade l’etimologia germanica del luogo da wald-foresta, e ci si
ricollega o a qualcosa di inerente alla tribù bulgara ivi stanziata nel 667, o
più semplicemente all’avifauna del Matese, su cui esiste anche Gallinola.
La “fabbrica del muro morto” non s’identifica facilmente.
Potrebbe locallizzarsi o sulle mura preistoriche a Roccavecchia presso
Pratella, o al muraglione in altro che chiude Torcino (ma questo non è più
recente?).
Pergamene del ‘400 ci assicurano che Letino si
chiamava Tino: “territorium castri Thini”. L’articolo per
dire “Il Tino”, così vario nei fonemi locali (ad Alife u
lombardo o francese, nella fascia pedemontana lu, a S. Gregorio ru,
sui monti gliu) è a Letino specialmente le (e finale
àtona), ma leggermente lé. I soliti cartografi e burocrati, fin dal
‘700 hanno incorporato l’articolo al nome, leTine, (come è
avvenuto per “sagna”, grossa striscia di pasta tagliata
“sagnata”, cui s’è incorporato l’articolo la-sagna,
necessitando intanto di un secondo cacofonico articolo la la-sagna). Lo stesso
è avvenuto per il Lete. Si chiamava “Ete”. In numerose pergamene
conservate a Monte Cassino, è detto: “flubium qui dicitur Ete”.
A Ete è stato incorporato in seguito l’articolo, e l’Ete è divenuto
lEte, e si è dovuto ricorrere al secondo articolo “lu lEte”.
Perciò niente fiume infernale che dà dimenticanza, e
niente Letino da Lete. In territorio di Ailano c’è “serra de
monte qui dicitur Eremonio”, e dev’essere il monte Cimogna, si
parla del “ribu cerbaru” ed è il torrente Cervaro, ma si
stenta a ritrovare “vicu Bonelle” (pronunzia Vunnéllu).
Torcino, Mastrati e S. Arcangelo sono gli stessi, Piedimonte è “ad
Pede de monte sive petra cupa”, e Sepicciano è scritto Sepeczanu,
e cz si pronuncia cci. Prata è detta “locu prata”
Raviscanina è rupis canina, e S. Angelo vi apparteneva “S. Angeli
de Rupiscaninae”. E si potrebbe continuare. Ma concludo per ora.
Chi non ha mentalità storica si meraviglia che il
nome di un luogo, tanti secoli or sono era lo stesso. Ma una pergamena, uno
scritto non hanno creato quel nome. Già prima del 987 quel nome c’era lì
da secoli. Le antichissime parlate italiche, dai romani colti dette “sermo
rusticus”, parlata volgare e che non avevano proprio niente a che
fare colla lingua degli scrittori di allora e di dopo, sono presenti anche
oggi, dopo quasi tremila anni in espressioni del dialetto. Risalire a una
perfetta pronunzia dialettale è risalire a volte al significato. Si tenga
presente che il “monte della célleca”, che significa della
chierica, sulla carte è scritto “Monte Accèllica”. E che significa
più?…
Con questo articolo mi auguro una collaborazione di
parroci, maestri e studiosi locali. Chiameremo le cose col nome che hanno, e
non già storpiandole, e senza capirci più niente, e contribuiremo pure a
correggere certi errori proprio sul Matese come “Quadrivio della
Pioppetta”, e invece è Pioppeta, Scellerato, e invece è Scennerato
(= scende ratto), Campitello, e invece è Campetéllo. E contribuiremo
pure all’Atlante linguistico d’Italia.
(Tratto da: La toponomastica del Matese prima del
Mille, in “Il Rievocatore – Periodico Mensile di Cultura, Anno
XVI, n. 3-6, maggio-giugno 1965, pp. 21-22)