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      La individualità geografica del Matese (di Vittorina Langella)

       Capitolo I (pp. 3-9)

 

Con i suoi 2050 m di altezza ed i vasti pianalti ad oltre 1000 m.s.m., con il compatto biancore dei suoi calcari antichi, con le sue forme aspre, le sue cime erte e l’appoggiarsi ancora ad esse, almeno in parte, dello spartiacque principale della penisola, il Matese sembra concludere più che turbare quell’allinearsi ordinato di massicci potenti che costituisce la sezione centrale dell’Appennino.

Il Subappennino gli fa ancora regolarmente da sfondo verso il rettilineo della costa adriatica, vi si innesta quasi ad angolo retto con le sue dorsali smussate, appiattite. Soltanto più a sud si fa spiccato il decentramento delle massime altezze verso il Tirreno e si fa ampio e frequente l’intercalarsi ad esse delle forme monotone, delle altitudini modeste che tradiscono il diffuso dominio delle coperture cenozoiche e dei paesaggi loro connessi. A nord, lungo il solco percorso dall’alto Volturno in direzione dell’acrocoro abruzzese, delle Mainarde e dei Monti della Meta, il loro insinuarsi è ancora modesto fra i pilastri dei massicci calcarei. Si fa notevole a sud-est, diffondendosi ai rilievi della Daunia ed alla conca beneventana per isolare dal Matese il Taburno ed il resto dell’Appennino campano. Ben si comprende come per G. Marinelli e per altri ancora dopo di lui il limite fra Appennino centrale e meridionale debba esser posto, ove si voglia tracciarlo, a mezzogiorno piuttosto che a settentrione del massiccio matesino, appoggiato ai solchi vallivi che longitudinalmente si aprono su quel lato della montagna, ed a quel Passo di Redole o di Vinchiaturo che segna fra Tammaro e Biferno l’abbassarsi in direzione del Molise della linea matesina delle massime altezze[1].

In effetti la geografia del rilievo poggia su di una individualità che offre non pochi aspetti dell’area tipica di transizione ed è tuttavia il quadro antropico più che di per sé stesso quello naturale, a crearli. Quell’ergersi del massiccio fra fertili lembi di pianura aperti sui due opposti versanti della penisola proprio là dove essa tende maggiormente a restringersi fra Tirreno ed Adriatico, senza che ulteriori ostacoli orografici di rilievo intervengano a far schermo fino alla linea di costa, si traduce nei confronti dell’insediamento in motivo di passaggio obbligato, di contatto fra ambienti diversi; le vie storiche fra Campania, Molise, pianalti abruzzesi, si appoggiano alle prime balze di questo rilievo. Struttura e forme del suolo, clima ed idrologia concorrono invece al distacco netto dalle regioni circostanti e la vegetazione dà ancor essa in tal senso valido contributo. Sul piano fisiogeografico i confini risaltano netti e la tradizione li ha del resto da tempo accolti. Li suggeriscono la Sella di Pastena a nord ed i solchi dei fiumi Carpino-Cavaliere-Volturno a nord-ovest, dove il primo si insinua con la bassa insellatura di Pettoranello (m 513), e il Volturno medesimo a mezzogiorno insieme al basso Calore, quindi il fiume Lente e, dall’altezza dell’abitato di Campolattaro, il Tammaro; poi, oltre la sella di Vinchiaturo, il Rio Cupo-Quirino ed il Rio, i rami cioè che ai piedi del Matese, a valle del Ponte della Fiumara, confluiscono per dare vita al Biferno.

Un perimetro di 200 km. Il livello sale a mezzogiorno dai 38 m della confluenza Volturno-Calore ai 250 della Volturno-Vandra (Cavaliere), non si abbassa a nord oltre i 480 della breve piana di Boiano. Il massiccio se ne leva con ripida compattezza a sud, lasciando alle quote inferiori ai 200 m un orlo pianeggiante che si allarga in corrispondenza di Alife e di Telese a qualche chilometro (6-8), si alza con pendio meno acclive ma non meno netto a settentrione ed al levante; solo a sud-est, fra Tammaro e Calore, resta posto all’affacciarsi d’una superficie dalle linee caoticamente eterogenee nella morfologia e nella natura del suolo, ed il distacco si diluisce in un orlo di terre senza più il lineare risalto di cui gode altrove. In quest’orlo si immerge il Lente col suo basso corso, ma il ventaglio dei suoi rami sorgentiferi, che volge a sud dai monti Mangialardo e Calvello (m 1036 e 1018), abbraccia quello che è effettivamente lo sprone estremo su quel lato della grande dorsale matesina.

La regione appenninica del Matese si estende in questi suoi liiti su 1440 kmq., coperti per l’85% da altezze superiori ai 200 m, per il 73% ai 400. Pel 37% essi rientrano nella provincia di Caserta, pel 30% in quella di Benevento; il resto fa parte del Molise.

I limiti amministrativi, che portano nell’esame dei fenomeni antropici a qualche leggera modifica del perimetro suggerito dal semplice insieme delle condizioni naturali[2], riflettono motivi storici complessi e la geografia ne è stata profondamente influenzata. Centro e punta avanzata dell’area di insediamento sannita sul Lazio e sulla Campania, l’area matesina conserva la sua unità ancor dopo la conquista romana e nella circoscrizione augustea fa parte del Samnium, sebbene la lambiscano a sud i confine della I regione (Campania) e della II (Apulia). Ancora con Diocleziano è inclusa tutta nel VII distretto della Diocesi d’Italia. Prende invece a frazionarsi in età longobarda e lo è definitivamente col dominio normanno. Inclusa nell’ambito del ducato, poi principato, di Benevento, è travolta dall’estremo mobilismo di feudi, contee, città libere che lo animano fra l’VIII ed il XII secolo. Nella prima metà del XIII il Matese è nella giurisdizione del Giustizierato di Terra di Lavoro; ma, mentre un quinto della sua estensione, cioè la Terra di Piedimonte, è destinato senza ulteriori scosse a rimanervi, il Contado del Molise, sviluppatosi a nord intorno al gastaldato longobardo di Boiano, è portato a sentire sempre più l’attrazione della Capitanata e finisce per esserle definitivamente annesso nel 1579. Giustizierato d’Abruzzo, Abruzzo Citra, Principato Ultra ne sono intanto venuti successivamente sfiorando le sezioni estreme a nord-ovest ed a sud-est, interessandole in maniera eterogenea e discontinua. Né meno instabile appare la circoscrizione ecclesiastica, che nel X secolo collega le diocesi antiche di Alife e di Telese al Metropolita di Benevento, mentre 800 anni dopo si trova a far dipendere Alife ed anche Isernia da Capua, ed a legare a Benevento, oltre a Telese, Boiano.

Dopo la conquista francese, l’area è ripartita fra i tre distretti di Piedimonte di Terra di Lavoro, di Campobasso e di Isernia di Molise e nella Terra di Lavoro resta incluso tutto il versante meridionale del massiccio, coi bacini del Sava e del Titerno e la fascia delle sue alteterre centrali. Poi, con la prima circoscrizione del Regno d’Italia, il bacino del Titerno torna a dipendere da Benevento e col 1927 anche il cuore del versante sud, fino all’altezza del medio corso del fiume Lete, è portato nei confini della provincia beneventana; tutto il resto passa a Campobasso, poiché la provincia di Terra di Lavoro viene abolita. Quando la si ricostituisce, nel 1945, i suoi confini sono nuovamente portati a toccare la più alta cresta del Matese così da includerne l’estensione più ampia rispetto alle province vicine, ma la valle del Titerno rimane a Benevento, nell’intento di ricostruire una provincia sannita, anche se del Samnium essa non rappresenta che la espressione formale.

Dei 50 comuni che l’area matesina abbraccia, di cui 6 soltanto sono interamente o per la massima parte compresi nell’orlo di terre escluse dalla isoipsa dei 200 m, solo tre hanno meno di un secolo di vita, giacché sono stati costituiti nel 1907 (Pratella), nel 1934 (Telese) e nel 1948 (Puglianello); l’autonomia dei più risale al XVIII secolo, per molti è più antica. L’uomo non ha mancato di cogliere anche qui, attraverso i secoli, gli aspetti migliori dell’ambiente naturale e di valorizzarli attraverso efficaci forme di vita, ma lo ha fatto in modo eterogeneo, disuguale nel tempo come nello spazio. La scarsa rispondenza che può essere rilevata fra struttura fisica e confini amministrativi, ne è stata causa concomitante ad un tempo ed effetto.

 

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La storia della conoscenza geografica della regione è recente. Del nome non si conosce l’origine; lo si incontra nelle fonti latino-medioevali, Mathesium, e non è difficile pensare alla contaminazione d’un toponimo già in uso in età preromana, data la parte importante che il massiccio ha avuto nel popolamento della penisola e nel suo assetto politico prima della unificazione promossa da Roma. Per i Romani, ai quali sbarrò a lungo la via della Campania e del Mezzogiorno e che lottarono settant’anni per conquistarlo, fu soltanto il Tifernus mons, il monte dal quale l’omonimo fiume traeva le sue ricche sorgenti, poiché la loro colonizzazione si concentrò sulle sue prime balze, dalle quali le acque scaturivano abbondanti, e sulle terre irrigue dell’orlo pianeggiante. Notizie diffuse sulla montagna non sono date prima del XVIII secolo, quando vengono compiute le prime ascensioni di cui resti cognizione sicura, fin sulle vette più alte[3]. Ma fantasia e leggenda vi hanno gran parte, anche quando a darle sono in quel secolo gli storici del Regno di Napoli.

Nell’atmosfera di generale progresso culturale sopravvissuta alla Restaurazione del 1815 si colloca la prima misura barometrica d’una quota matesina (1824), e nel 1831 vi venne anche intrapreso un sistematico rilevamento geodetico[4]. Soltanto gli ultimi decenni del secolo scorso concretizzavano tuttavia i primi tentativi di studio minuzioso, di interpretazione scientifica del suo complesso paesaggio. L’attenzione si rivolgeva agli aspetti geomorfologici, idrografici, botanici, e ne nascevano osservazioni notevoli, in parte fondamentali tuttora, come quelle di Narici, Del Giudice e Parisio che G. Marinelli ripetutamente cita nel suo Pianure, vallate e montagne d’Italia, nonché gli scritti di O. Costa, di M. Cassetti, di F. Sacco[5]. La carenza perdurante di rappresentazione cartografica avrebbe influito non poco sulla lentezza dei successivi progressi, nella difficoltà che la mancanza di strade conservava per la penetrazione in ogni settore del monte. Anche quando il prospettarsi di una efficace utilizzazione idroelettrica indusse agli albori del secolo organismi pubblici e privati a promuovere dettagliata ed esauriente ricognizione della idrologia del massiccio, nessun lavoro d’insieme comparve ad affrontare su un piano di geografica organicità gli interrogativi molteplici che per la conoscenza del Matese ancor si ponevano.

C. Colamonico e G. Dainelli sono stati i soli che abbiano contribuito a farlo, sul piano della ricognizione diretta; il primo con la serie di note comparse dopo il 1924 su periodici specializzati e non, l’altro con la ben nota Guida della escursione al Matese elaborata nel 1930, in occasione del X Congresso Geografico Nazionale[6]. Del Matese erano portati ad occuparsi nel medesimo periodo di tempo anche studiosi stranieri come K. Suter[7], dato l’interesse immediato che l’interpretazione della morfologia matesina poteva offrire per la comprensione del modellamento della intera catena appenninica. Ed è stato ancora sul piano geomorfologico ed idrografico che ha dato i suoi frutti migliori anche il rinnovato interesse delineatosi intorno al Matese nell’ultimo dopoguerra.

Vie e mezzi di comunicazione hanno ormai decisamente avvicinato il massiccio ad aree con popolamento densissimo e urbano, le moltiplicate esigenze del Mezzogiorno nel quadro d’un suo generale progresso economico, prospettano utilizzazioni insospettate del patrimonio d’acque e di pascoli che si nasconde fra le sue vette, l’industria turistica ne sfiora già largamente i versanti. Mentre pagine decisive alla conoscenza della regione vanno aprendo i rilevamenti geologici in corso alfine nell’intera sua area, la Geografia non ha ancora portato il suo indispensabile contributo di sintesi al quadro fisico-antropico che la montagna va finalmente scoprendo in ogni sua parte.

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[1] G. marinelli, Pianure, vallate e montagne d’Italia, in “La Terra”, vol. IV, Italia, tomo I. Milano, 1895, Cfr. pp. 219-220.

[2] Dato il carattere riassuntivo dei rilevamenti statistici, si è dovuto tenere conto, nel citarli, del complesso unitario di territori comunali come quelli di Isernia, di Macchia d’Isernia e di Morcone, il cui capoluogo è strettamente legato al Matese, ma che dai limiti fisici dell’area matesina restano esclusi per la metà e oltre della loro estensione (rispettivamente per il 75, il 60 e il 48%).

Fra i 47 totalmente inclusi anche nel computo dell’area della superficie considerata, altre tre si spingono per breve tratto oltre la linea oro-idrografica presa a confine della regione, e cioè: Castelpetroso, che abbraccia entrambi i versanti della Sella di Pastena (e che si estende comunque sempre sullo spartiacque Carpino-Rio-Biferno), Boiano, che si allarga per 8 kmq. (sul 49 della sua superficie comunale) nel piano sulla sinistra del F. Rio, Sepino, che 8 dei suoi 62kmq. li sottrae alla sinistra del Tammaro, in corrispondenza della confluenza Valle Grande.

Nella medesima linea oro-idrografica rientrano tuttavia tre lembi amministrativamente legati a comuni la cui vita è del tutto estranea al massiccio, e cioè Sant’Angelo in Grotte, che si insinua con 4 kmq. a lambire il versante del Colle di Mezzo, fra Castelpetroso e Cantalupo, Solopaca che conserva una testa di ponte (3 kmq. circa) sulla destra del F. Calore accanto a Telese. A sud-est la linea del confine tradizionale della nostra area porta poi ad includere 6 kmq. circa del Comune di Campolattaro, a nord della cresta sottile (m 540) che si leva a dividere l’alto Lente dal Tammaro in corrispondenza della stazione ferroviaria di Pontelandolfo.

Inclusi nella loro interezza restano i comuni di Guardiaregia, Campochiaro, San Polomatese, San Massimo, Cantalupo del Sannio, Pettoranello, Roccamandolfi, Capriati a Volturno, Fontegreca, Gallo, Letino, Prata Sannita, Ciorlano, Pratella, Valle Agricola, Ailano, Raviscanina, Sant’Angelo di Alife, Alife, Piedimonte di Alife, Castello di Alife, San Gregorio Matese, San Potito Sannitico, Gioia Sannitica, della provincia di Caserta; Faicchio, San Lorenzello, Cusano Mutri, Cerreto Sannita, Pietraroia, Sassinoro, Pontelandolfo, Casalduni, San Lupo, San Lorenzo Maggiore, Castelvenere, San Salvatore Telesino, Telese, Amorosi, Puglianello, Guardia Sanframondi, della provincia di Benevento.

È da notare infine che i limiti amministrativi non coincidono sempre esattamente con l’alveo dei fiumi che staccano il massiccio matesino dalle terre circostanti, ma non di rado lo abbandonano per includerne la sponda opposta, allargandovisi a formare punti di appoggio di qualche ettaro in corrispondenza di guadi antichi o di isole fluviali. È il caso frequente lungo il Volturno, dove la pendenza dell’alveo si attenua e si arricchisce di rami secondari; in corrispondenza di Capriati il limite amministrativo si allarga fino a circa 1 km sulla destra del fiume, così da includere il complesso delle opere di sbarramento e di derivazione legate al piccolo lago artificiale donde si alimenta la galleria forzata per la centrale idroelettrica di Montelungo-Montemaggiore, sul Garigliano. Naturalmente ci hanno guidato in questi casi motivi di ordine antropico; anche a sud-est sono stati questi a far ritenere artificiosa la inclusione nell’area esaminata dal territorio di Ponte, attraversato dall’estremo tratto vallivo del F. Lente, che chiari motivi umani (ed anche fisico-pedologici) collegano alla regione del medio Calore.

[3] Vi sale G. Trutta, autore di Dissertazioni storiche delle antichità alifane (Napoli, Stamperia Simoniana, 1776) vasta fonte di notizie per la storia dell’insediamento nel Matese alifano.

[4] Un allievo dell’Osservatorio Reale, Leopoldo Del Re, vi compie la prima misurazione altimetrica ad oriente del lago (a 41°26’N-2°3’E), calcolandola in 1055 tese, cioè 2110m. Cfr. D. Marrocco, Piedimonte, Napoli, Treves, 1961, p. 432.

[5] G. Marinelli, op. cit., p. 219. Di O. Costa, Studi sopra i terreni ad ittioliti delle province napoletane diretti a stabilire l’età geologica della medesima. P. II, Calcarea stratosa di Pietraroia (in “Atti Acc. Sc. fis. e mat.”, S. 1-2, Napoli 1865, pp. 1-33) è l’ultimo frutto di tutta una serie di osservazioni sugli affioramenti rocciosi del Matese sud-orientale, pubblicate a partire dal 1847. Fra i diversi scritti di M. Cassetti che interessano per lo studio della regione è anzitutto La geologia del Matese, in “Boll. Com. Geol. d’Italia”, Roma, XXV (1893), pp. 287-368. Si deve al Cassetti la massima parte delle ricognizioni sulle quali si è basata la ediz. del F. 161 – Isernia della carta geologica d’Italia, nonostante l’Uff. Geologico l’abbia pubblicata soltanto nel 1934; nel 1902 era comparso il F. 161 – Caserta, dal quale peraltro il gruppo del Matese è appena sfiorato. Campagne in corso fin dal 1954 preparano ora la riedizione dei due fogli, invecchiati entrambi e non privi di errori (stratigrafici e cartografici), nonché la prima ediz. dei due che interessano tutta la parte orientale dell’area matesina, il 172 – Campaobasso e il 173 – Benevento. A tutt’oggi il settore nel quale sono state compiute le ricognizioni più accurate è quello di SE (F. 173).

[6] C. Colamonico, La conca di Campo Rotondo, in “Mondo Sotterraneo”, Udine, XV-XVI (1919-1920), pp. 55-59; ID., La distribuzione della popolazione nel distretto di Cerreto Sannita, in “Atti VIII Congr. Geogr. Ital.” Firenze 1921, II, pp. 173-180; ID., Genesi della valle del Lete nel Matese, ibid., pp. 128-134; ID., Tracce glaciali sul Matese, in “Atti XI Congr. Geogr. Ital.”, Napoli 1930, II, pp. 114-116; G. Dainelli, Guida della escursione al Matese, in “Atti XI Congr. Geogr. Ital.”, Napoli 1930, IV, pp. 101-174.

[7] K. Suter, Die Eiszeitliche Vergletscherung des Zentralappennins, Zurigo, Gebr. Fretz, 1939; cfr. Pp. 50-55.