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Cap. II

IL CASTELLO, LA ROCCA E LA TERRA

(pp. 22-27)

(Raffaele Marrocco: Memorie storiche)

 

CONDIZIONI GENERALI AVANTI IL SEC. XI – Non a caso dicemmo che Piedimonte cadde per più secoli in oblio. La inesistenza di ogni prova epigrafica od archivistica che la potesse riguardare innanzi e durante la dominazione longobarda, mentre ci prova la profonda oscurità nella quale viveva, non ci ha permesso sapere quali fossero le sue condizioni sociali e politiche in quel tempo. Sappiamo solo, dalle notizie del Trutta, che per Piedimonte, come per tanti altri paesi, non furono tra i più civili e tranquilli i tempi che segnano il frazionamento del principato di Benevento. Essi, infatti, importarono una funesta anarchia ed una dispersione di forze per cui le nostre contrade – l’Alifana e la Telesina – potettero essere lacerate dalle incursioni dei Saraceni e le popolazioni immerse in una profonda ignoranza. Fu allora che numerose terre e villaggi nostri cominciarono ad avere le rocche, le torri, i castelli e le fortezze, che Vescovi, Abati e Signori innalzavano sulle cime dei colli per la sicurezza delle loro persone e dei loro beni. Fu allora che i rurali delle ville, i discendenti dei coloni romani e barbari – cioè i non pochi Latini ed i non pochi barbari che coltivavano le terre – credettero migliorare di condizione con l’offrirsi ad un Signore o ad un Abate. I monasteri divennero allora gli assoluti padroni di vaste contrade e dei miseri abitanti per le larghe concessioni ad essi fatte dai principi longobardi, da re e da imperatori, di celle, cappelle, torri (castra), masserie, donne libere maritate a servi, servi, ancelle, coloni, porti, peschiere, molini, campi, selve ed acque.

Ecco perché Piedimonte, non ingrandendosi con molta sollecitudine, né avendo allora, importanza di sorta, permase nell’oblio in cui era, del resto, già caduta.

 

GASTALDATO DI TELESE E CONTEA ALIFANA – Solo dei deboli sprazzi di luce illuminano qua e là quel periodo oscuro. Sappiamo, per quanto ne hanno scritto il Trutta ed il Gattola, che la contrada alifana era soggetta alla judiciaria o distretto giudiziario di Telese, il cui gastaldo rivestiva, nel tempo stesso, le cariche di giudice, di ufficiale politico e di comandante militare. Ci è ugualmente noto che più tardi il territorio alifano venne distaccato dal gastaldato di Telese ed eretto a Contea, i cui confini furono ad un dipresso quelli che al presente circoscrivono la giurisdizione vescovile.

Questa Contea, però, non sorse ai tempi dell’elevazione di Arechi II a primo Principe di Benevento (774-788) come vorrebbe il Trutta, ma quasi un secolo dopo, perché il Gattola riporta un diploma dell’anno 841 dal quale si rileva che il gastaldato di Telese si estendeva, in tale epoca, ancora ad Alife.

 

DOCUMENTI RIGUARDANTI PIEDIMONTE – Per quanto riguarda in particolar modo il nostro paese, abbiamo notizia di due importanti documenti che – non avvertiti dal Ciarlanti prima, né successivamente dal Giorgi – smentiscono le loro affermazioni con le quali assegnano a Piedimonte un’origine non anteriore al Secolo XII. A questo proposito il Trutta giustamente osserva che i suddetti scrittori scambiarono il ripopolamento e l’ingrandimento del nostro paese con la sua fondazione. Anch’egli però sbaglia allorché sostiene che sul finire del Sec. VI dell’E.V. furono edificate le sue mura e le sue torri, perché Piedimonte passò alla condizione di castello, per nulla sottraendosi alle dipendenze di Alife, due secoli più tardi. Forse è nel vero quando dice che dopo l’anno 865 Piedimonte divenne grossa Terra, ripopolata di Alifani scampati a delle stragi ed incendi della loro città, e che precedentemente a tale epoca, cioè nell’anno 770, fuori le nostre mura venne edificato il Monastero di S. Salvatore da Arechi II, allora duca di Benevento.

I due interessanti documenti sopraccennati, che ci riguardano direttamente, sono rappresentati da un diploma dell’anno 978 e da una scrittura del 1020. Il primo, riportato dal Di Meo, è del principe Pandolfo, il quale, ad istanza del conte Grimoaldo, dona e conferma al Monastero di S. Maria in Cingla (Ailano) alcune corti in Cingla stessa, in S. Arcangelo Caprata, Ailano, Lanico, S. Colombano e Sepeczano (datum XV Kal. Januarij dell’anno 978). È notorio che Sepeczano (Sepicciano) è una borgata di Piedimonte e tale è stata sempre. Il semplice fatto della sua esistenza nell’epoca indicata ci prova la preesistenza di Piedimonte quasi due secoli innanzi al periodo indicato dal Ciarlanti e dal Giorgi. Ma pur volendo non tener conto di questo documento, perché potrebbe far ritenere che nessuna corte di Piedimonte venne donata a S. Maria in Cingla, vi è l’altro, quello del 1020, riportato dal Gattola – cioè la transazione del vescovo di Alife, Vito, con lo stesso Monastero di S. Maria in Cingla fatta sotto il principato di Landolfo e Pandolfo – nel quale documento si menziona Piedimonte.

Esso ci dà, tra l’altro, questa notizia, che cioè il custode del menzionato Monastero, s’impegna di dare al longobardo Audemundi, per parte dell’Episcopio, cinque pezze di terra, colte ed incolte, una nel luogo S. Colombano con la chiesa ivi eretta, l’altra nel luogo di Brellanico, la terza nel tenimento di Sepicciano, la quarta in quello di Scarpellano, la quinta, infine, nel tenimento di Piedimonte dove si dice, « ad pentuma » e « pietra cupa » verso il fiume Torano, cioè presso l’attuale casamento in via Sorgente, adibito, un tempo, a molino e ramiera. (Una ex ipse in loco Sanctu Columbanu, una cum ipsa ecclesia S. Columbani ibique construtta et alia in loco Btellanici et tercia ex ipse in loci Sipiczani, quarta in locu Scarpellanu, quinta vero in loco ad Pede de monte ubi dicitur ad pentuma, et petra cupa erga flubio Torano...).

Della transazione se ne occupa anche e più diffusamente il Di Meo. « Dal Gattola e dal Muratori –egli scrive – abbiamo un Placito dei Giudici Gisemondo, Mondo e Landone per una lite per terre e chiese in Ailano, Guttocini, Acquaricobola, Vicobonelli, Ceppalini, Tordisci, Potolisci, Eremio ed altri luoghi (Sepicciano e Piedimonte), tra il Monastero di S. Maria in Cingla, ov’era badessa Sichelgaita e custode Benedetto Prete, e di cui faceva le parti il conte Pandone longobardo figlio del q. conte Pandone longobardo; e Vito Vescovo di Alife. Questo vescovo presentò 23 scritture, due Precetti sigillati, ed un Privilegio, che furono letti. Le carte contenevano compre e donazioni di quelle terre, fatte alla sua chiesa e decreti ottenuti in altre liti su quei beni in favor della medesima. Il Precetto era di Pandolfo Capodiferro, che nel 971 gli confermò a quella chiesa, e ne assegnò i confini; e il privilegio era la Bolla di Alfano, Arcivescovo di Benevento che, dum me Vitum in S. Aliphanam Ecclesiam Episcopum consecrabat, gli assegnò questi beni ora contesi, e ne descrive i confini. Chi non direbbe che a tali pruove la causa si desse per vinta al Vescovo? Ma la parte contraria era il Monastero di Monte Cassino, a cui S. Maria in Cingla stava soggetta, e di Monte Cassino era abate un fratello dei Principi. Sebbene il Monastero non avesse presentata nessuna carta e sebbene il vescovo ne presentasse 26 e mostrasse il possesso della sua chiesa per anni non meno di 247 – dal 764 fino al 1011 – pure sotto pretesto di un accomodamento si ordina che di quasi tutto si spogli la Chiesa e si aggiunga agli immensi beni del Monastero. Fu scritto da Godefrit Ch. E Not. Actum Aliph. Anno XXXIII Pr. Landolfi, & IX anno Pr. D. Pandolfi ejus fil. Magnis PPr. Mense Julio, III. Ind. ».

Questo documento è, secondo il Rinaldi, di una grandissima importanza, perché, per la transazione  della lite, fu chiesta, per confermarla, la presenza e l’assentimento del giudice mondano, cosa assai singolare per quei tempi, dati i rapporti tra il potere civile e quello ecclesiastico. Ma a noi è servito unicamente per smentire le assertive del Ciarlanti e del Giorgi, e per comprovare che Piedimonte non è sorta nei tempi di mezzo, ma che in tali tempi già esisteva, priva, però di qualsiasi importanza civile e politica.

 

IL CASTELLO E LA ROCCA – Avanti il Sec. XI soltanto, la ritroviamo difesa da vari ordini di fortificazioni. Queste opere – collocate a cavaliere di una rupe quasi inaccessibile, sì da tener soggetto il territorio circostante – erano disposte in modo da poter difendere il terreno palmo a palmo.

La rupe, fiancheggiata dalle valli del Torano e del Rivo, è quella ove trovasi addossato il rione S. Giovanni, ed ove, più in alto, s’erge il caseggiato di Castello d’Alife, che, sino al 1752, fu rione di Piedimonte.

Queste fortificazioni consistevano in un castello davanti il borgo (rione S. Giovanni) – quello comunemente chiamato « Palazzo ducale » - e in una rocca nel cennato Comune di Castello.

Il primo era semplicemente fortificato, l’altra comprendeva, oltre un gran numero di torri, come appare da avanzi, anche il mastio che serviva da cittadella e da abitazione, e come estremo rifugio e difesa. Al presente sono esistenti colà due torri merlate ed alcuni ruderi di cortine. Come tute le rocche, anche la nostra aveva le torri poste in ordine di successione, di guisa che, in caso d’invasione, i difensori potevansi ritirare, man mano, dall’una all’altra, sino a fermarsi nel mastio, situato nell’estremo limite.

Il castello davanti al borgo era di forma quadrangolare. Nella sua originaria costruzione era privo dell’attuale secondo piano e delle due terrazze a mezzodì che tanto deturpano il palazzo. Aveva tre torri, anch’esse quadrate, poste – meno a settentrione – ai tre angoli esterni dell’edificio. Esse,  merlate e ricche di decorazioni architettoniche, nonché di piombatoie e di altre astuzie castellane, erano rilegate da quattro corpi di fabbrica, anch’essi merlati e corredati di bifore (di cui esistono tre esemplari trecenteschi privi però di colonnine) oggi trasformate a balconi. Gli appartamenti del castellano erano situati dalla parte interna dei corpi di fabbrica rilegati alle torri, cioè in quelli a sud-ovest dell’edificio.

 

LE MURA – Dalla torre ad oriente (supportico del palazzo) partivano le cortine, cioè le mura di cinta del borgo, anch’esse merlate, che, prolungandosi in linea retta di sotto il palazzo Pierleoni (oggi d’Amore), terminavano fin verso la grotta di S. Arcangelo in via Sorgente.

Contrariamente, poi, al sistema in uso, il borgo di Piedimonte era situato, come abbiamo detto, dietro il castello. I vassalli, quindi, in caso d’invasione, potevansi ritirare facilmente e prontamente nella rocca, come si verificò negli assedi del 1229 e 1437.

 

RESTAURO DELLE MURA – Trentacinque anni dopo il secondo assedio furono restaurate le mura che erano state in gran parte diroccate. Il restauro avvenne non già ad opera del feudatario ma dei preti beneficiati della Chiesa di S. Maria Maggiore situata accosto al castello, laddove nel primo trentennio del Sec. XVIII, i Gaetani fecero sorgere un teatro. Ci racconta il Trutta – in un suo manoscritto conservato nell’Archivio della Chiesa in parola – che Onorato Gaetani, conte di Fondi, e Signore di Piedimonte, adunò un bel giorno quei sacerdoti e fece loro comprendere di voler dare esecuzione al dibattuto « Laudo » del vescovo Sanfelice. Questo laudo consisteva in una convenzione riguardante l’unione del clero, che, causa il numero delle parrocchie, era scisso. Con la convenzione si fissava, invece, la cura delle anime soltanto a quattro chiese: quella di S. Maria Maggiore, di S. Giovanni, dell’antica Annunciata e di S. Croce in Castello.

Il Gaetani pose però loro la condizione che dovessero restaurare a proprie spese le mura diroccate, e ciò anche allo scopo di difendere la Chiesa di S. Maria Maggiore più esposta ad eventuali invasioni.

I sacerdoti, riuniti in capitolo, accettarono le condizioni e decisero, onde fornirsi del denaro occorrente, di vendere alcuni terreni incolti che la chiesa possedeva in contrada Escheta (Squedre). Fu tanta, anzi, la loro premura, che non pensarono a far procedere la vendita del prescritto assenso apostolico, come appare dall’istrumento in data 31 marzo 1471, rogato dal Not. Gaspare di Giorgio. Le mura, però, vennero riparate ugualmente, e di esse si serbarono tracce sino a tutto il Sec. XVII, quando scomparvero del tutto.

 

LA TERRA – Tutto l’assieme: castello, borgo, rocca e casali, costituiva la « Terra ». Tale appellativo dato a Piedimonte da remoti tempi e rimasto costante per più secoli – sino cioè a 23 dicembre 1730, epoca in cui l’Imperatore Carlo VI le concesse il titolo di « città » - non si creda indicasse un luogo di modesta importanza. Gli antichi davano il nome generico di « Terra » soltanto alle città ed ai castelli che avevano acquistato il diritto di tenere adunanze, donde l’appellativo anche di « Università ». E poiché oltre il borgo principale formavano il corpo di Piedimonte i casali di Castello, S. Gregorio e S. Potito, con tutta la vasta estensione di boschi e montagne, la « Terra », ricca di popolazioni e d’industrie, specie armentizie, divenne così un centro importante.

Ma oltre alla parte fortilizia intorno a cui si addensavano le abitazioni, l’organismo della « Terra » era costituito in principal modo dalla piazza del mercato. Questa – l’attuale Largo di S. Maria Vecchia – era il cuore dell’aggregato, il centro dei commerci e dei mestieri, la sede della corte di giustizia e delle adunanze popolari. I lati erano occupati dalla chiesa principale (S. Maria Maggiore) e dalla casa comunale, la quale era anche sede degli affari e delle cerimonie pubbliche, della « pesa » e del granaio municipale. La « Terra », infine, era sotto la potente soggezione del feudatario o dei suoi luogotenenti, degli armigeri e degli agenti, i quali, distaccati anche nei casali – che ad essa facevano corona – travagliavano la popolazione con ogni sorta di vessazioni.

 

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