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TITO Livio storico della terza guerra sannitica

 

nella regione matesina e del Medio Volturno

 

del prof. Antonio Manzo

 

 

Come nel saggio sulla seconda guerra sannitica[1] seguimmo criteri che miravano a lumeggiare particolari momenti d’un capitolo di storia locale con la scorta di Tito Livio, così nel presente è nostro intendimento non discostarci dalle medesime finalità e dalla medesima fonte. Oltre al fatto che il racconto liviano costituisce il documento letterario più ampio per ricostruire la trama delle guerre sannitiche, lo storico patavino, per elevatezza d’ingegno e per nobiltà di carattere, suscita in noi il più vivo rispetto e trova la critica odierna concorde almeno nel giudicare positivamente la sua narrazione dei fatti svolta su base annalistica; inoltre, talune notizie, proprio perché scarne o poco elaborate, ci appaiono non prive di credibile genuinità[2].

Alla fine della seconda guerra, nel 304 a.C., Romani e Sanniti si riconciliarono e rinnovarono il trattato[3], da cui in precedenza erano stati legati con Roma ed in base al quale i popoli romano e sannita vengono ora a trovarsi nuovamente sul piano di perfetta parità. I Sanniti, pur conservando la loro sovranità ed indipendenza, subivano tuttavia una perdita di territorio nell’alto corso del fiume Liri e – cosa ancor più grave e degna di rilievo – perdevano l’Oltrevolturno, vedendo in tal modo ridotta ed esautorata ogni loro ingerenza nella Campania. Di Allifae non sappiamo più nulla, per quanto il De Sanctis[4] la ritenga annessa allo stato romano; va, in proposito, considerato che i Fasti Triumphales registrano il trionfo de Aequis di P. Sempronio Sofo ed il trionfo de Samnitibus di P. Sulpicio Saverrione, mentre Livio (9, 45, 1) ricorda che sotto il loro consolato vengono a Roma ambasciatori sanniti a chiedere la pace, e Diodoro (20, 101, 5 e 20) neppure fa menzione di vittorie sui Sanniti nel 404, per quanto non tralasci la vittoria di P. Sempronio Sofo sugli Equi. In dipendenza di ciò, il Pais[5] nota opportunamente che «dal racconto di Livio risulta forse implicitamente la stessa versione sul trionfo dei due consoli, laddove in Diodoro si celebrano esclusivamente le gesta ed il trionfo di P. Sempronio Sofo». Conclusa la pace, entravano, viceversa, nell’orbita romana o rinnovavano con Roma i loro trattati dell’alleanza tutte le tribù abruzzesi rivierasche (Marrucini, Marsi, Peligni e Frentani)[6]. Nel corso del 303 Roma attese al consolidamento delle sue posizioni sia estendendo la cittadinanza a centri come Arpinum e Trebula[7], sia privando di un terzo del loro territorio le popolazioni, che, come i Frusinates (abitanti di Frusino, l’odierna Frosinone), avevano partecipato e sostenuto la ribellione degli Ernici.

Tale operazione, che saldava intorno al Sannio una cintura di sicurezza, e l’effettivo bisogno di terre ubertose da parte dei Sanniti determinarono in essi uno stato di disagio e, conseguentemente, l’acuirsi della loro insofferenza. Pertanto, verso la fine del 299, la ripresa delle ostilità sembrava cosa certa (Samnites arma et rebellionem spectare: 10, 11, 7) ed i Romani ne ebbero notizia dai Piceni, ai quali proprio allora era stata concesso il foedus d’amicizia che essi avevano richiesto. Ma l’inizio vero e proprio dello stato di guerra  fu determinato dalle continue scorrerie dei Sanniti nel territorio dei Lucani[8]. Questi, infatti, mandano un’ambasceria a chiedere alleanza e protezione ai Romani, che l’accordano e immediatamente dopo impongono ai Sanniti di sgomberare i territori da loro occupati in Lucania[9]. Al rifiuto di accondiscendere a tale richiesta si ha nel 298 la ripresa delle ostilità, la cui conduzione fu affidata ai consoli dell’anno, L. Cornelio Scipione Barbato e Cn. Fulvio Massimo[10], che operarono su due fronti, verso l’Etruria e verso il Sannio, con l’intento qui di proteggere gli alleati Lucani ed Apuli, nonché di impedire ai Sanniti di congiungersi con gli Etruschi. Il primo combatté un’incerta battaglia in Etruria ed operò anche nel Sannio[11]; l’altro, pur avendo in animo di sviluppare la sua azione contro il massiccio del Matese con un attacco frontale ed una manovra diversiva dal Sud, vide il suo disegno frustrato dal fatto che lungo i confini meridionali del Sannio si guerreggiava da un pezzo. Il console Fulvio, allora, ricorse ad un attacco dal Nord, che agevolato dall’alleanza con le popolazioni rivierasche dell’Abruzzo, fu coronato dalla vittoria. Cn. Fulvi consulis clara pugna in Samnio, scrive Livio (10, 12, 9), ad Bovianum haudquaquam ambiguae victoriae fuit. Bovianum inde adgressus ne cita multo post Aufidenam vi cepit. Lo storico patavino si riferisce, verisimilmente, a Bovianum vetus, l’odierna Pietrabbondante, sita, come l’altra località a cui oggi fa riscontro Alfedena, nel territorio dei Saraceni. Precisazione non inutile, codesta, in quanto ultimamente A. La Regina[12] ha sostenuto che è priva di fondamento l’identificazione di Pietrabbondante, con Bovianum vetus e che sono tutte relative all’odierna Boiano le testimonianze antiche su Bovianum.

Anche in merito all’azione militare non v’è accordo nella critica: menzioniamo, per tutti, il De Sanctis, per il quale «la vittoria presso Boiano e la presa di questa città… è probabilmente una reduplicazione delle gesta del console M. Fulvio nel 305»[13], in quanto è poco probabile che si possa conquistare la capitale dei nemici, sita nel cuore del Sannio pentro, tanto più che con la caduta di Bovianum, caput Pentrorum Samnitium (9, 31, 4), aveva praticamente avuto termine la seconda guerra sannitica. Rilievo giustissimo e tale da fugare ora ogni dubbio sulla identificazione di Bovianum con Pietrabbondante. Ma in favore dell’identificazione è possibile addurre anche un altro fatto. All’inizio della terza guerra sannitica Bovianum dei Pentri doveva essere tornata in mano dei Sanniti, se, come vedremo più avanti, fra le mura di questa città essi trovarono rifugio, nel 293, dopo la sfortunata battaglia di Aquilonia. Tutto, comunque, lascia pensare che la campagna del 298 fu sfortunata per i Sanniti o, quanto meno, che essi furono messi in difficoltà dalla rapida e decisa azione dei Romani.

Sei i sanniti avvertirono la necessità di migliorare organizzativamente la futura condotta delle ostilità, ai Romani il 297 si presentava come un anno ancor più difficile, in quanto che si profilava una guerra anche in Etruria. Mentre però, i consoli Q. Fabio Rulliano e P. Decio Mure stavano accordandosi circa la divisione del comando, ogni loro indugio nella scelta fu rotto dalle notizie di pace sul fronte etrusco ed entrambi quindi mossero alla volta del Sannio.

Al fine di rendere più agevole per le proprie truppe il servizio di vettovagliamento e di lasciare il nemico maggiormente incerto sulla zona, dove si sarebbero svolte le operazioni militari (10, 14, 4), Q. Fabio Rulliano penetra nel Sannio dalla parte di Sora (l’omonima odierna cittadina laziale, sulla riva destra del Liri), ivi ponendo la base delle sue attività; e P. Decio Mure si porta con l’esercito nel territorio dei Sidicini, il cui centro principale era Teanum (oggi Teano). Entrambi i consoli divisero i loro uomini in piccoli distaccamenti per misura precauzionale, nonché per maggiore agevolezza tattico-manovriera, dovendo operare in un territorio accidentato. Inoltre, prima di darsi all’opera di devastazione e di saccheggio, essi mandano ad esplorare una zona più vasta di quella prevista per i loro movimenti, onde evitare spiacevoli sorprese da parte del nemico.

Nel corso di tali spostamenti, Decio puntò verso la vallata del calore e Fabio si diresse verso il territorio alifano: grazie alla sua accortezza e vigilanza nel condurre la marcia poté sfuggire ad un attacco di sorpresa che i Sanniti avevano predisposto schierandosi in una valle fuori mano, nei pressi di Tifernum nel territorio dove s’era già combattuto nel 305[14]. Ipotesi non lontane dal vero fanno ritenere che si trattasse d’un oppidum che portava lo stesso nome del massiccio del Matese (Tifernus mons)[15], sito dove una via montana immetteva nella Campania. È pensabile, infatti, che, oltre alla normale via attraverso il Matese (Alfe-Castello-S.Gregorio-Lago-Perrone-Guardiaregia)[16], esistesse un altro itinerario, che partendo da Saepinum [17] sfiorava il territorio di Guardiaregia e le falde sud-orientali del monte Mutria, toccava il territorio di Pietraroia e di Cerreto, proseguiva attraverso la valle del fiume Tiferno e raggiungeva, infine, il piano nei pressi di Faicchio. Qui i Sanniti costruirono imponenti fortificazioni, le cui tracce sono ancor oggi visibili sulle pendici meridionali di monte Acero e troverebbero riscontro con le costruzioni monte Cila[18].

Il console Fabio, dunque, fa marciare i suoi uomini a reparti affiancati, per essere pronto ad ogni manovra d’attacco, e fa procedere in posizione arretrata le salmerie protette da una piccola scorta. I Sanniti, allora, che pur hanno visto sfumare il fattore sorpresa e diminuire, nel contempo, le probabilità di vittoria, scendono verso il piano per dare battaglia e fortunae se maiore animo quam spe committunt (10, 14, 8). Magnifica e significativa pennellata: Livio ci fa capite quale era lo stato d’animo dei Sanniti, ma più ancora la realtà delle loro condizioni. Senza voler usare un’immagine iperbolica, per essi, ormai, si trattava di vita o di morte; c’era nei loro cuori la consapevolezza di chi sta per affrontare il combattimento che avrebbe deciso per la sopravvivenza stesa della patria libera ed indipendente. Per questo il loro impegno e la loro combattività furono tanto accaniti, da impensierire il comando romano, che fa pervenire un efficacissimo messaggio ai suoi reparti di cavalleria. Fabio cerca di far leva sui suoi uomini suscitandone lo spirito di corpo, ma non si nasconde il timore che neppure la carica di cavalleria possa dare il vantaggio sperato. Bisognava ricorrere anche all’astuzia. Egli, allora, comanda a Scipione, il console dell’ano precedente, di mettersi a capo degli hastati, che venivano così distolti con un audace gesto dalla posizione che occupavano nello schieramento della legione[19], e di guidarli con la maggior cautela possibile sulle balze circostanti la zona dello scontro, alle spalle del nemico. Come già previsto e paventato, la carica della cavalleria non riuscì a sfondare la fronte dei Sanniti, che passano ad attaccare con maggior violenza per la fiducia riaccesa nei loro animi del primo successo, ma vengono arrestati dalle forze fresche dei triarii che il console aveva fatto avanzare; inoltre, quando meno essi se l’aspettavano, vedono le insegne di nuove truppe che venivano giù dai monti e sentono il loro grido di battaglia. In vero, però, i Sanniti furono atterriti non tanto dallo spavento che potevano realmente incutere quelle poche truppe apparse sulle alture, quanto dall’inganno (error) che giungesse l’esercito del console P. Decio Mure. D’altra parte, questo medesimo error, che Fabio non tralascia di accreditare presso i suoi, infonde coraggio ai Romani ed ogni soldato grida pieno d’esultanza. Per i Sanniti è il crollo: si danno alla fuga e si disperdono rapidamente salvandosi su per le balze del Matese in quanto non s’erano allontanati molto dall’imbocco della valle..

Dallo svolgimento della battaglia possiamo anche arguire che l’altro console aveva proseguito la sua marcia, ma, conosciute le intenzione dei Sanniti, si sposta verso Sud-Est, attraversa il Volturno e procede lungo la riva sinistra del Calore. Tali dovettero essere i movimenti, determinati dal comportamento degli Apuli [20], che erano stati indotti alla ribellione dai sanniti e marciavano ora in direzione di Maleventum [21]. Decio, dunque, li affronta senza indugio e, avendo agito con risoluta decisione, riesce a metterli in fuga. Che le cose, siano andate in questo  modo non è difficile ammettere; altrimenti riesce incomprensibile spiegarsi la presenza degli Apuli a Maleventum [22]. Il successo ottenuto dai Romani induce il console a proseguire la sua marcia all’interno del Sannio; ed una volta congiuntosi con il collega, entrambi si danno per cinque mesi ad un’azione di guerriglia, che, se da un lato porta alla devastazione di vaste zone, dall’altro non frutta il raggiungimento di interessanti obiettivi militari. Livio registra la conquista di Cimetra (probabilmente l’odierna Cusano, ma forse è meglio non volerne precisare l’ubicazione e annoverarla fra i tanti centri del Sannio scomparsi per sempre dopo questa guerra di distruzione).

Arriviamo così all’anno 296: furono eletti i nuovi consoli nelle persone di Appio Claudio e di Lucio Volumnio, mentre ai consoli usciti di carica fu prorogato l’imperium [23] per sei mesi, affinché continuassero le operazioni nel Sannio. E così P. Decio Mure, da solo in quanto il collega Fabio s’era recato a Roma per i comizi elettorali, sconvolse le contrade sannitiche con una sistematica opera devastatrice e con azioni di guerriglia. Secondo Livio, Decio avrebbe costretto l’esercito nemico ad uscire dal suo territorio ed a rifugiarsi in Etruria (10, 16, 2 sg.): ma questa, come pure altre notizie da lui registrate per il 296, sembrano poco attendibili. Le cose, in realtà, dovettero andare diversamente, perché è probabile che un esercito sannita, al comando di Gellio Egnazio, sia stato mandato di proposito in Etruria, per unirsi colà alle altre forze (specialmente Galli e Sabini, oltre agli Etruschi), che si accingevano a costituire una grande coalizione antiromana. Accettando codesta versione dei fatti, dobbiamo pensare che i Sanniti delle contrade meridionali, il cui occhio avido si volgeva alle pianure alifana e di Terra di Lavoro oltre tutto per bisogno di aree coltivabili e per interessi commerciali, dovettero assumersi il compito di difendere la patria comune. Ma la loro resistenza non poté, evidentemente, essere salda e parecchie città dovettero cedere alle truppe romane. Decio, infatti, occupò Murgentia, che Livio indica come una validam urbem (10, 17, 3)[24], Romulea [25]  e Ferentinum [26]. Livio (10, 17, 11 sg.) ci parla anche di altre fonti, che o attribuivano a Fabio Rulliano un’importanza maggiore facendolo l’eroe di Ferentinum e di Romulea [27] o davano la gloria dei fatti d’arme ai nuovi consoli; e precisa pure che taluni annalisti facevano riferimento solamente ad uno di essi, a L. Volumnio.

I Sanniti, comunque, accettarono di buon animo, almeno in apparenza, la perdita delle città su menzionate e dei relativi territori: essi speravano, così facendo, di distrarre l’attenzione dei Romani, mentre volevano soltanto guadagnare tempo, in attesa che sul fronte etrusco gli eventi maturassero in loro favore e li consigliassero ad operare con decisione nella zona a Nord-Ovest di Tifernum, ovvero in quello che potremmo chiamare lo scacchiere alifano-matesino. E tale disegno ebbe, almeno in parte, un positivo esito nel corso dell’anno seguente. Va, inoltre, tenuto presente che già sul finire della proroga dell’imperium a Fabio Rulliano e a Decio Mure la situazione si era fatta pericolosa per Roma. Mentre i proconsoli operavano nella zona lucano-irpina a causa della defezione di alcune tribù ed i consoli erano impegnati in Etruria, i Sanniti passano in Campania attraverso il territorio dei Vescini, che si estendeva sulla sinistra del Liri fino alle pendici del Monte Massico,e per l’ager Falernus, compreso nella parte settentrionale della Campania sulla destra del Volturno: l’incursione era stata messa in atto certamente attraverso il territorio di Alife e di Riardo.

La notizia delle devastazioni operate dai Sanniti induce il console Volumnio a cambiare itinerario e ad accorrere in difesa degli alleati. Giunto nel territorio di Cales [28], egli si rende conto del danno subito da quelle popolazioni. Dalla loro voce, infatti, apprende che i nemici, procedevano lentamente nella loro marcia di ritorno, in quanto resa difficile dalla preda che si tiravano dietro, e che avevano in animo di fare una seconda spedizione. Volumnio, allora, per avere una conferma di tali notizia, invia, in diverse direzioni, suoi cavalieri col mandato di fare qualche prigioniero: viene così a sapere che i Sanniti s’erano accampati presso il fiume Volturno e che circa la mezzanotte avrebbero ripreso la marcia verso le loro terre. Il comandante romano, prima che facesse giorno, compie una marcia d’avvicinamento al nemico e manda alcuni dei suoi, che conoscevano la lingua osca, parlata dai Sanniti, a spiarne le mosse. Il loro compito è facilitato dalla confusione e dal disordine: i reparti sanniti si erano già messi in marcia, ma con pochi armati, in quanto la maggior parte era rimasta indietro per accompagnare le salmerie, che stavano allora uscendo dall’accampamento. E’ un esercito lento e non solo perché impacciato nei movimenti, ma anche per la mancanza di disciplina: ognuno pensava alle cose proprie, per non dire che era piuttosto scarso il necessario collegamento fra i singoli e fra i reparti. E Livio non manca di farci notare al momento opportuno che codesta deficienza caratterizzava, in maniera evidente, l’inferiorità dei Sanniti, laddove la disciplina era sempre il fattore che caratterizzava e determinava la vittoria dei Romani.

Il console muove all’assalto nel momento più opportuno, quando meno il nemico se l’aspettava, per cui la battaglia, fin dal primo momento, si può dire decisa in favore dei Romani. Il comandante sannita ed un buon numero di suoi uomini vengono fatti prigionieri; nel contempo, sono liberati i prigionieri romani ed è recuperata tutta la preda. Siccome si trattava di oggetti e di materiale sottratti a popolazioni alleate, ogni cosa viene restituita ai legittimi proprietari.

Era, intanto, giunta l’epoca dei comizi consolari e Volumnio fu chiamato a Roma per convocarli, in quanto egli era il console in quel momento meno impegnato nelle azioni belliche. Dietro suo suggerimento, furono eletti, con una scelta veramente intelligente, due uomini la cui perizia militare si era in precedenza dimostrata efficiente, L. Fabio e P. Decio; Appio Claudio fu fatto pretore e Volumnio, per decreto del senato, continuò a tenere, come proconsole, il comando del suo esercito nel Sannio (Liv. 10, 22, 9).

Le operazioni del 295 furono assai complesse: per quelle a Nord, nell’Etruria (battagli di Sentinum, Sassoferrato), Livio si dilunga in particolareggiate descrizioni (10, 22-29)[29]; ma, esulando quei fatti nel nostro argomento, passiamo ad analizzare quanto avvenuto sul fronte meridionale.

Quivi troviamo in azione il proconsole Volumnio, che sconfigge un esercito sannita e lo volge in fuga dopo di averlo costretto a ritirarsi sulle giogaie del Matese: così comportandosi egli dimostra di non essere stato intimorito da quei luoghi aspri (non deterritus iniquitate loci: 10, 30, 7). La decisa e rapida mossa del comandante romano stroncò ogni velleità offensiva dei Sanniti, che erano scesi dai monti del Matese attraverso la valle del Titerno con la speranza, se la loro manovra non fosse stata subito notata, di piombare su Capua (l’odierna S. Maria Capua Vetere) marciando lungo la catena dei Tifata. Essi, tuttavia, non desistettero alla idea di invadere la pianura campana. Anzi, proprio mentre si combatteva sui campi di Sentinum, o subito dopo, si registra un’attiva ripresa delle operazioni da parte dei Sanniti. Dalla regione dei Pentri, questa volta, mossero verisimilmente due eserciti. L’uno scende al piano servendosi della via che da Bovianum, attraverso il Matese, me[…] mianumque (10, 31, 2); l’altro si porta ad operare in Aeserninum [30] quaeque Volturno adiacent flumini (ibid), ovvero nel territorio del corso superiore del Volturno ed in tutta la regione bagnata dal fiume.

Il pretore Appio Claudio, con l’esercito di Decio Mure, il console morto valorosamente nella battaglia si Sentinum, corse ad affrontare i Sanniti nella zona di Aesernia [31]; il proconsole Volumnio, intanto, si porta a contrastare la marcia dei Sanniti che dilagavano nel territorio vessino e falerno. La manovra romana costringe i Sanniti ad indietreggiare verso il territorio caleno (Cales) e stellatine (Tremula) per non restare chiusi in una morsa e staccati dalle loro basi di rifornimento. Nell’ager Stellatis le forze contrapposte si scontrano col massimo accanimento (infestissimis animis: 10, 31, 6): i Romani erano esasperati di combattere contro un nemico, che non aveva mancato di riprendere le armi con ostinato impegno dopo ogni sconfitta; i Sanniti, di contro, erano consapevoli di lottare per l’ultima speranza (ad ultimam… spem: ibid). La vittoria arrise alle armi romane, ma va riscontrato che i Sanniti avevano fatto di tutto per avere la meglio e grande era stato il loro sforzo, in questo teatro operativo, in quanto si erano proposti di trovare un punto debole nella difesa avversaria e di volgere in loro favore le sorti ormai compromesse della guerra con la conquista delle fertili terre site tra la via Appia e il Volturno. Ma a nulla vale tale impegno perché le superstiti forze sannite sono costrette a risalire la pianura e si disperdono sui contrafforti del Matese, dove i Romani, per quanto vincitori, si trovarono nell’impossibilità di seguirle e, conseguentemente, di veder risolto come speravano il problema della piena sicurezza dei confini campani. Va, inoltre, sottolineato un altro fatto. I Sanniti, durante lo sfortunato combattimento nell’Aeserninum sperimentarono che la vallata superiore del Volturno offriva l’opportunità di invadere la Campania con una certa agevolezza di movimenti, perché nella zona pianeggiante la marcia risultava facile ed i rifornimenti erano assicurati, mentre, in caso di ritirata, era possibile arretrare su comode posizioni naturali e difficilmente espugnabili anche da un esercito efficiente come poteva esere quello romano. In dipendenza di ciò, i Sanniti spostano il loro campo d’azione nella vallata del Volturno e del Liri, da dove si poteva prendere alle spalle tutta la fertile pianura campana, che ad essi appariva sempre come un irraggiungibile miraggio.

Lo stato maggiore romano non sottovalutò il pericolo che si correva e fu in grado di correre ai ripari per fronteggiare quella minaccia anche grazie al fatto che l’Etruria era in assoluta calma. La condotta della campagna di guerra per il 294 fu, perciò, suggerita ai nuovi consoli da quella finalità. Anche il senato s’era reso conto della situazione ed aveva decretato che tanto L. Postumio Megello quanto M. Attilio Regolo operassero nel Sannio, avendo acquisito la convinzione che su quel fronte esisteva il problema da affrontare e da risolvere, tanto più che a Roma correva voce che i Sanniti avevano messo in piedi tre eserciti: con uno essi pensavano di suscitare, se non anche di fare nuovamente guerra in Etruria; col secondo ripetere l’operazione di saccheggio e di devastazione già attuata in Campania nell’anno precedente; col terzo di difendere il territorio nazionale.

Mentre Postumio è trattenuto a Roma da una malattia, il collega è fatto partire senza indugi perché il senato aveva stabilito di attaccare i Sanniti nelle loro sedi, prima che ne uscissero. Ma tale operazione è frustrata dall’esercito avversario già in movimento. Come per un tacito accordo, scrive Livio (10, 32, 4), le forze contrapposte vennero a contatto in un punto tale, da cui i Romani non riuscivano a penetrare nel patrio suolo dei Sanniti e questi non potevano invadere né le regioni sottomesse a Roma né i territori dei suoi alleati. Col favore della nebbia, che si mantiene fino a giorno inoltrato (ci troviamo, verisimilmente, nella valle del Liri oppure all’imbocco della valle del Rapido), i Sanniti attaccano il campo romano: dapprima la sorpresa blocca qualsiasi azione tendente a sventare la manovra, ma, in  un secondo momento, i Romani riescono ad arrestare il nemico per poi ricacciarlo dall’accampamento. I Sanniti, però sono imbaldanziti dal parziale successo e continuano la loro pressione fino all’arrivo di Postumio, che per quanto ancora malfermo in salute, era stato mandato in tutta fretta col suo esercito. I due consoli per vie diverse (diversi consules: 10, 33, 10) si danno all’opera devastatrice nonché si impegnano ad operare contro città nemiche. Per Postumio ha inizio ora la sua campagna a cui la sorte non manca di arridere. Dopo aspri combattimenti, egli si impadronì di Milionia [32] e prese possesso di Feritrium, città abbandonata in un tempo anteriore dai suoi abitanti; lo stesso avvenne anche per altri centri urbani. Le cose non andarono altrettanto per Attilio, che, spostatosi col suo esercito verso Sud, venne battuto presso Luceria; ma in un secondo momento, dopo di aver sia pure a stento riorganizzato l’esercito, riuscì ad ottenere la vittoria. I Sanniti cercano di occupare la colonia latina di Interamna, posta tra il Liri e Casinum (città laziale sul fiume Casinus, con una rocca dove oggi si erge la famosa abbazia di Montecassino), ma falliscono nel loro intento e per giunta, mentre si allontanavano con la preda raccolta nel territorio, si imbattono nelle truppe di Attilio, reduce dall’Apulia, e sono sconfitti. Lasciato l’esercito ad Interamna,? il console vittorioso si porta a Roma per presiedere i comizi e per celebrare il trionfo, che però gli fu negato a causa delle perdite subite e perché, dopo la seconda battaglia presso Luceria, aveva fatto passare sotto il giogo i prigionieri sanniti sine pactione (10, 36, 19). L’ignominia del giogo, infatti, doveva essere accettata dal nemico nelle condizioni di resa quale riscatto della vita a prezzo del disonore; altrimenti, il far passare sotto il giogo dei prigionieri catturati con le armi in pugno era atto irregolare, senza significato e non poteva essere accolto dal senato.

Nel 293 furono consoli Sp. Carvilio e L. Papirio Cursore. Il caso volle che i Sanniti scendessero in campo con lo stesso animo e con lo stesso apparato di armi del 310, quando erano stati vinti dal padre di Papirio[33]. La sconfitta dell’anno precedente aveva acuito nel loro animo il fermo proposito di prendersi una rivincita, per cui ora adunano nella città di Aquilonia [34] ben quarantamila uomini arruolati per tutto il Sannio con una circoscrizione fatta in maniera inusitata, oltre che severa. Il giovane, infatti, che non si fosse presentato all’adunanza o che si fosse allontanato senza il permesso del suo comandante sarebbe stato sacrificato a Giove. A questo punto Livio (10, 38, 5 sgg.) ci fa sapere che il giuramento dei soldati si svolse secondo un rituale, le cui formule erano state lette in un antico libro di lino[35]. La recluta veniva fatta avvicinare all’altare più come vittima che come partecipe della cerimonia (sacri particeps) per suscitare in lui il sacro timore; poi, gli veniva imposto il segreto con una formula di giuramento orribile per la maledizione (execrationem) che conteneva[36]. In caso di inadempienza, tale maledizione non si limitava alla vita (caput) di chi giurava, ma coinvolgeva la sua famiglia e la sua discendenza, che si sarebbe venuta a trovare esclusa per sempre dalla comunità religiosa e civile del popolo sannita. Vengono, quindi designati per nome dieci giovani tra i più eminenti e ad essi è dato l’incarico di scegliersi ciascuno un compagno (vir virum legerent), il quale a sua volta se ne sarebbe scelto un altro e così di seguito fino a raggiungere il numero di sedicimila. Il vantaggio di un siffatto modo singolare di arruolamento consisteva soprattutto, sul fatto di poter allestire reparti molto bene affiatati e legati anche dal vincolo dell’amicizia. Oltre questo esercito, detto linteato, perché il recinto dove si svolse il giuramento era stato coperto con tela (linteis contectus)[37], anche un altro contingente sannita di truppe scelte si accampò nei pressi di Aquilonia, nec corporum specie nec gloria belli nec apparatu linteatae legioni dispar (10, 38, 13).

In campo romano, il console Sp. Carvilio prese il comando delle legioni lasciate ad Interamna da M. Attilio e con esse occupò Amiternum, oppidum di una certa importanza se l’operazione costò ai Sanniti duemilaottocento morti e quattromiladuecentosettanta prigionieri, ma non identificabile con un’antica città sabina sita nei pressi del fiume Pescara, che ancor oggi nella valle aquilana chiamasi Aterno (Aternus), e della quale esistono le rovine presso il villaggio di S. Vittorino, perché Livio ci fa sapere che Carvilio mosse alla volta del Sannio (in Samnium profectus: 10, 39, 2) né ci sono dubbi sulla tradizione del testo. L’altro console arruolato un nuovo esercito, espugnò Duronia, città di incerta ubicazione, ma sita verisimilmente nel territorio dei Pentri. Entrambi i comandanti romani passano, quindi, all’opera devastatrice nel Sannio occidentale e specialmente nel territorio di Atina, centro dei Volsci e perciò corrispondente all’omonima cittadina in provincia di Frosinone: così facendo, giungono Carvilio a Cominium [38] e Papirio ad Aquilonia, ubi summa rei Samnitium erat (10, 39, 5). Nei pressi di questa città né si sospese del tutto il guerreggiare né si attaccò con impegno: i due consoli si tengono giornalmente informati di qualunque avvenimento, per quanto anche la vigilanza di Carvilio fosse rivolta più ad Aquilonia che a Cominium, consapevole che le operazioni militari avrebbero ivi assunto un carattere decisivo (maiore discrimine: 10, 39, 7).

Papirio, quando ravvisò l’opportunità di dare battaglia al nemico, si accordò col collega, affinché questi muovesse contemporaneamente all’attacco di Cominium per impedire l’accorrere di rinforzi ad Aquilonia. Né omise, dimostrando il suo fine intuito d’esperto comandante, di tenere alto il morale dei suoi uomini, che potevano essere impressionati dall’apparato militare dei nemici. Le parole del console sortirono l’effetto voluto nell’animo dei soldati, che sono presi da un violento ardore combattivo. Livio si sofferma anche a descrivere gli auspici, i preparativi alla battaglia e lo schieramento delle truppe; senza tralasciare di aggiungere qualche pennellata intesa a fissare gli stati d’animo delle due parti in campo: Romanos ira, spes, ardor certaminis avidos hostium sanguinis in proelium rapit; Samnitium magnam partem necessitas ac religio invitos magis quam inferre pugnam cogit (10, 41, 1).

La battaglia infuria ed i Sanniti riescono a mala pena a sostenere l’impeto travolgente delle legioni romane; di rincalzo ecco apparire Sp. Nauzio (altri annalisti tramandano il nome di Ottavio Mecio) con le truppe ausiliarie, che sollevano un polverone non giustificato dal numero effettivo dei soldati. Era un espediente, infatti: si trattava degli addetti al trasporto dei bagagli (calones), che procedevano a dorso di mulo trascinandosi rami frondosi. Anche la visibilità era ridotta a causa della polvere che essi facevano sollevare. Sembrava, visto da lontano, un vero esercito in marcia, del quale si distinguevano in prima fila armi ed insegne, con la cavalleria in posizione arretrata. L’espediente ben congegnato raggiunse il suo scopo, tanto è vero che fefellit non Samnites modo sed etiam Romanos (10, 41, 6). Il console Papiro capì al volo la situazione e con scaltra perspicacia non fece che confermare l’errore dei suoi. A gran voce, in modo che i Sanniti potessero udire, e ripetutamente gridava che Cominium era caduta e che si stava avvicinando l’altro console vincitore; in più andava dicendo ai suoi uomini che bisognava risolvere il combattimento, a tutti i costi, prima che la vittoria non si potesse attribuire all’intervento dell’altro esercito. Perciò egli dà alla cavalleria il segnale di muovere alla carica: provolat eques, scrive Livio (10, 41, 9) usando un singolare collettivo corrispondente ad un plurale italiano, come si incontra più frequentemente in poesia che in prosa, ed un verbo che indica propriamente l’uscir volando, donde lo slanciarsi in avanti; e se ne vedono le conseguenze: Infestis cuspidibus in medium agmen hostium ruit perruptique ordines, quacumque impetum dedit (ibid.). Il nemico è sbaragliato: la fanteria dei Sanniti trovò riparo nell’accampamento o in Aquilonia, mentre nobilitas equitesque Bovianum perfugerunt (10, 41, 11). Che si tratti di Bovianum Undecimanorum, l’odierna Boiano, non c’è dubbio ed è approvato da quanto scrive anche Dionigi d’Alicarnasso (17, 18, 4), che muovere il console da Aquilonia verso la regione dei Pentri; inoltre, la cosa confermerebbe che Livio, quando in precedenza ha parlato di Bovianum (10, 12, 9), si riferiva all’odierna Pietrabbondante.

Ma vediamo i fatti in particolare: L. Volumnio occupa l’accampamento nemico prima che L. Scipione (nel citato elogio non si accenna a questa battaglia) espugnasse Aquilonia, dove la resistenza è maggiore, perché la città offriva, con le sue mura, una buona difesa. Sul far della sera anche Aquilonia cade nelle mani dei Romani, ma il console, che non aveva potuto seguire tutti gli avvenimenti e si preoccupava di radunare i reparti essendo prossima la notte, ritiene opportuno, per timore di insidie, di non prendere possesso della città. Col favore delle tenebre i Sanniti superstiti al sanguinoso scontro (Livio 10, 42, 5) ci parla di 20.340 morti) riescono a sfuggire all’accerchiamento attraverso una porta che s’apriva nel tratto di mura non ancora conquistate dai Romani. Con eguale fortuna si svolsero, per il console Carvilio, le operazioni sotto Cominium che venne in tal modo conquistata (10, 43, 1 sgg.). Le truppe sannite inviate in aiuto alla città non intervengono nel combattimento e, per quanto incalzate dai Romani, riuscirono almeno in parte a rifugiarsi incolumi a Bovianum (10, 43, 15). La battaglia di Aquilonia e di Cominium è un avvenimento importante della storia di Roma e Livio ce lo fa intendere a chiare parole, ponendo sullo stesso piano L. Papirio Cursore figlio, vincitore di Aquilonia, e L. Papirio Cursore padre, da lui proclamato superiore ad Alessandro Magno (9, 17,8 e 13). E’, dunque, un errore fra praticamente terminare la terza guerra sannitica con la battaglia di Sentinum del 295, perché tale scontro non fu determinante né valse a fiaccare la potenza dei Sanniti. «E’ il comportamento ufficiale di Roma» - sottolinea M. Jacobelli[39] - «il primo a farci comprendere che la battaglia di Sentino dev’essere riguardata come una tappa e la nostra come una meta. Solo dopo di essa infatti annota Livio che “l’annuncio dei consoli fu ascoltato nella Curia e nell’assemblea del popolo con giubilo immenso, e la pubblica esultanza fu solennizzata con una supplicatio di quattro giorni a gara con la partecipazione privata” (10, 45, 1)».

I due consoli vincitori decidono, quindi, di sottomettere la regione, per cui procedono alla conquista delle città sannite ed alla distruzione dei centri più importanti. Carvilio opera vittoriosamente contro Velia, Palumbinum ed Herculaneum (tutte località per noi sconosciute e difficilmente ubicabili); Papirio dirige su Saepinum (l’odierna Terravecchia di Sepino), dove incontra una certa resistenza. Strinse, allora, i Sanniti in un assedio vero e proprio, conclusosi con l’espugnazione della città ed una strage di grandi proporzioni. L’inverno sospese le operazioni militari. Papirio celebrò uno splendido trionfo de Samnitibus, con una cerimonia straordinaria per quei tempi, e condusse l’esercito a svernare nel territorio di Vescia, sulla sinistra del Liri ai confini del Sannio. Anche Carvilio celebra a Roma il trionfo de Samnitibus, per quanto abbia conluso il suo consolato con una vittoria in Etruria e con la pacificazione dei Fallisci (le rovine della loro capitale, Falerii, sono visibili presso Civita Castellana).

Con l’indicazione dei consoli per il 292, Q. Fabio Massimo Gurgite e Giunio Bruto Sceva, e con brevi cenni introduttivi sui costumi e sui culti dei Greci si chiude la prima decade dell’opera storica di Tito Livio. Il caso ci ha privati della seconda decade, per cui non possediamo nel racconto diretto del Nostro gli ultimi avvenimenti e la conclusione del pluridecennale duello di Roma con i Sanniti: ricorriamo, per le nostre notizie, alle Periochae [40] e ad altre fonti storiche (Eutropio e Paolo Orosio).

La grave sconfitta subita nell’anno precedente dai Sanniti non ebbe l’effetto che i Romani speravano ed il 292 trova il loro esercito in piena efficienza bellica, anzi, in grado di battere[41] le truppe di M. Fabio Gurgite. La sconfitta dovette essere abbastanza grave, se in senato si discusse sulla opportunità di togliere il comando dell’esercito al console vinto, che fu salvo per le preghiere del glorioso padre Fabio Rulliano, impegnatosi a riprendere le armi ed a restare accanto al figlio in qualità di legato. E la presenza del vecchio guerriero avrebbe rovesciato la posizione fino al punto di procurare una grande vittoria romana con la cattura dello stesso duce sannita Caio Ponzio (il figlio del vincitore di Caudium), che Fabio Gurgite poté portare seco nella sua pompa trionfale (vd. C.I.L. 12, 127; Liv. per. 11) e che venne poco dopo trucidato. Nel 291 sono registrate la espugnazione di alcuni luoghi del Sannio e l’importante conquista di Venusta (l’odierna Venosa, in Puglia), con successiva deduzione di una solida colonia, superiore per numero a tutte le precedenti (ci è tramandata la cifra di ben 20mila coloni, in grado di dominare la regione circostante, nonché di evitare che potessero ancora una volta riunirsi le popolazioni a Nord e a Sud di Roma, come era avvenuto prima della battaglia di Sentinum.

Nel 290, la guerra tra i Romani e i Sanniti viene ripresa, ad opera dei consoli Manio Curio Dentato e P. Cornelio Rufino, con l’invasione dell’eroico Sannio, che è sistematicamente devastato da occidente ad oriente[42]. Finalmente è conclusa la pace e, dopo circa mezzo secolo, ha termine la guerra. Il merito è attribuito al console Curio Dentato, le cui vittoriose imprese sembra si siano svolte piuttosto nel paese dei Sabini.

La nuova pace fu fatta sulla base dell’antica alleanza, pace abbastanza mite e che non comportava condizioni umilianti per i Sanniti, i quali ebbero sì a lamentare qualche lieve menomazione territoriale (la città di Atina e forse anche quella di Venafrum furono incorporate nello stato romano), ma restò ferma la clausola che sanciva l’indipendenza della Confederazione sannita. Riconoscimento teoricamente valido, ma svuotato a poco a poco d’ogni significato: i Sanniti, ormai circondati da tre parti da paesi romani, o alleati di Roma, e disperando di avere aiuti esterni, si rassegnarono, non senza altre prove di forza, alla supremazia romana.

 

            Milano, 31 Ottobre 1967

 

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[1] Il saggio si legge in Annuario 1966 dell’«Associazione Storica del Sannio Alifano», pp. 114-127; per la sua favorevole accoglienza della critica, vd. in Rivista di Studi Classici 15, 1967.

[2] Non manca ancor oggi di stupire quanto ebbe a scrivere un illustre storico che cioè «nell’opera di Livio non c’è sfoggio di pensiero, e nulla è più mediocre delle sue considerazioni politiche, militari, religiose. Incapace come pochi tra gli storici di rappresentarsi un fatto nel reale suo svolgersi,  ma abile parimenti a giudicare bene d’un dato statistico, a farsi un’idea chiara del contendere dei partiti o dell’andamento di una battaglia, a intendere bene il valore di una formula giuridica, tutto ciò che ne’ suoi personaggi sembra vivo non ha che una vita artificiale e retorica» (così G. De Sanctis, Storia dei Romani I Firenze 1956, p. 38). Di contro, con vera gioia ed intimo soddisfacimento, leggiamo quanto rileva un acuto e fine interprete della letteratura latina: «Livio rimane sempre lo storico più grande dell’età augustea, il ricercatore e l’espositore eloquentissimo della verità, come lo definì Tacito (Ann. 4, 34), cogliendo ad un tempo la sua personalità di storico e di scrittore, che è quanto dire di ‘storico-artista’» (vd. B. Riposati, Storia della Letteratura Latina Milano-Roma 1965, p. 391).

[3] Livio (9, 45, 4) lo ricorda come foedus antiquum.

[4] Vd G. De Sanctis, op. cit., II, p. 323.

[5] Vd. E. Pais, Fasti Triumphales Populi Romani Roma 1920. Parte Prima: Introduzione storica, p. 61 sg.

[6] Circa i Frentani, mentre Diodoro (20, 101) ci fa sapere che essi nel 304 erano già con Roma, Livio (9, 45, 18) ci informa che essi, insieme con i Marrucini, Marsi e Peligni, chiesero a Roma pace ed amicizia in quell’anno, vedendo esaudito il loro desiderio. Si tratta, forse, di due notizie non in contrasto, ma che riguardano due momenti diversi.

[7] In tal modo, gli abitanti di Arpinum, città nel territorio dei Volsci tra la Campania ed il Sannio, patria di Cicerone e di Mario, e quelli di Trebula, località sita a destra del Volturno, dove oggi sorge il villaggio di Treglia, compreso nel comune di Pontelatone in provincia di Caserta (vd. la monografia Trebula Baliniense di M. Fusco, uscita a Caserta, in seconda edizione, nel 1954 e riassunta negli Atti del I Congresso di Studi Ciceroniani I Roma 1961, p. 125), furono direttamente incorporati nello stato romano con la forma della civitas sine suffragio.

[8] I Lucani erano di stirpe sannitica ed occupavano, press’a poco, l’odierna Lucania. Durante la prima guerra sannitica,, dopo che i Romani ebbero conquistato Neapolis, Livio ci fa sapere – ma la notizia non è priva di dubbio – che i Lucani strinsero spontaneamente alleanza con i Romani (8, 25, 2); in seguito, essi si ribellarono e tutto induce a ritenere che nel corso della seconda guerra i Lucani militassero al fianco dei Sanniti: Livio, infatti, registra che nel 317 i Romani operarono contro di essi (in Lucanos perrectum: 9, 20, 9).

[9] Da Livio (10, 12, 2) apprendiamo che ci fu secondo la prassi, l’invio dei fetiales, ovvero di quei sacerdoti, eletti a vita in numero di venti per cooptatio, ai quali spettava l’osservanza e l’esercizio del ius fetiale. L’intervento dei fetiales serve a due scopi: a garantire che l’atto sia regolare e che il trattato sarà osservato dalle parti contraenti; a significare che il trattato (foedus) non è solamente l’opera personale di un comandante, ma costituisce anche un atto riconosciuto dai pubblici poteri. Sull’argomento, con acume e dottrina, scrisse R. Paribeni, redigendo la voce foedus-fetiales, nel Dizionario Epigrafico di Antichità Romane di E. De Ruggiero.

[10] La notazione de Samnitibus, contenuta nei Fasti Triumphales del 299, è, secondo ogni probabilità, da correggere in de Sabineis. E ciò non solo per ragioni toponomastiche, ma anche perché non è da escludersi che operazioni militari dei Sanniti, nel 299, abbiano colto di sorpresa i Romani e procurato loro non vittorie, bensì insuccessi. Vd. G. Beloch in Riv. di Storia Antica 9, 1994, p. 277.

[11] Delle imprese di Scipione Barbato ci mette al corrente l’iscrizione posta sul suo sepolcro (vd. C.I.L. I, 6, 7), dandoci però anche notizie in contrasto con i Fasti e con il racconto liviano. In merito, si ricordi che le iscrizioni funerarie hanno generalmente un tono elogiativo e che quella di Scipione, per di più, fu composta almeno mezzo secolo dopo che i fatti s’erano svolti.

[12] Vd. Le iscrizioni osche di Pietrabbondante in Rhein. Mus. 109, 1966, p. 282.

[13] Vd. op. cit., 2, p. 335.

[14] Vd. in proposito il nostro saggio nel citato Annuario 1966, p. 125 (p. 14 dell’estratto).

[15] L’argomento è stato trattato, con precisione e dovizia di particolari da G. Verrecchia in Samnium 30, 1957, p. 67 sgg.

[16] Vd. ancora il nostro saggio in Annuario 1966, p. 118 (p. 7 dell’estratto).

[17] Il Maiuri ritenne potersi riconoscere la Sepino sannitica nell’odierna Terravecchia (presso Sepino), di cui restano pochi avanzi della cinta muraria a struttura di poligonale primitivo (vd. in Notizie Scavi 51, 1926, p. 250, fig. 4 e ibid. 52, 1927, p. 453.

[18] Vd. A. maiuri, Piedimonte d’Alife, Resti di mura poligonali in Notizie Scavi 52, 1927, pp. 450-454.

[19] Hastati erano detti, nell’esercito romano, i soldati che formavano la prima linea dello schieramento; la seconda era costituita dai principes e la terza di triarii: se l’assalto degli hastati veniva respinto, essi ripiegavano sulla linea dei principes, oppure questi venivano condotti nella prima linea, e, se neppur essi erano capaci di resistere alla pressione nemica, venivano fatti avanzare i triarii.

[20] Gli Apuli erano, forse, affini per stirpe agli Osci ed occupavano il territorio del Gargano. Essi vennero in contatto con i Romani durante la seconda guerra sannitica: da alleati che erano, in seguito si ribellarono, ma furono vinti e definitivamente sottomessi dai Romani nel 317 a.C.

[21] Città degli Irpini, sul fiume Calore; fu poi detta Beneventum (oggi Benevento) dai Romani dopo la vittoria su Pirro nel 275 a.C.

[22] Così, infatti, reputa il De Sanctis op. cit., 2. p. 335.

[23] Ai consoli usciti di carica poteva essere proposto di mantenere la suprema autorità militare e giudiziaria (imperium): essi prendevano, allora, il titolo di proconsoli e la loro autorità continuava ad essere quella propria del console, ma poteva essere esercitata solamente fuori di Roma e nello specifico ambito ad essi affidato.

[24] Il Verrecchia (in Samnium 30, 1957, p. 194) pensa che si tratti della odierna Morcone; è certamente una città dei Pentri e non sita nella zona delle Murge, come vogliono taluni autori. (vd. G. De Sanctis, op. cit., II, p. 335 e bibl. ivi cit.).

[25] Città dei Pentri, identificabile con l’odierna Morra. Gli Itineraria, di età imperiale, ricordano la località ad Romuleam sita a cinque miglia da Aquilonia, sulla cui ubicazione vd. a p.   , e Aec(u)lanum, città degli Irpini del Sannio, e corrispondente all’odierna Mirabella Eclano in provincia di Avellino.

[26] Località dell’alta Irpinia, ma d’imprecisata ubicazione; non si tratta che di omonimèa con centri dell’Etruria meridionale, del Lazio e del territorio degli Ernici.

[27] Va ricordato, e già fu messo in evidenza da B. Bruno La terza guerra sannitica negli Studi di Storia Antica del Beloch, fasc. 6, Roma 1906, p. 33, che in Fabio Rulliano si possono cogliere alcuni tratti propri del suo grande omonimo che frenerà un giorno la audacia di Annibale.

[28] Cales (odierna Calvi) fu conquistata nel 335 a.C. dal console M. Valerio Corvo, che ne riportò il trionfo (Liv. 8, 16). L’anno dopo, la città dei Calessi diventa sede di una colonia latina ed è per lungo tempo il centro del dominio romano in Campania, nonché sede del questore incaricato della giurisdizione di tutta l’Italia Meridionale romana.

[29] Una delle conclusioni più notevoli che la Bruno (nel cit. vol.) trae dall’analisi dei fatti è quella di ritenere non i Sanniti, ma i Sabini presenti nella battaglia di Sentino accanto agli Etruschi ed ai Galli. Si è nel giusto, forse, ritenendo che l’esercito sannita guidato da Gallio Egnazio non doveva essere poi tanto numeroso, anche se degno di rilievo per la figura del suo comandante, al quale fu affidato il comando in capo delle forze coalizzate contro Roma comprendenti Etruschi, Galli, Sabini e Sanniti, mentre gli Umbri se ne erano rimasti tranquilli; Roma, infatti, era alleata con una loro potente città, Camerino.

[30] L’accenno alla discesa dei Sanniti nel territorio di Isernia, città sannita, è interessante, perché in tutta la prima deca di Tito Livio non esiste altro riferimento alla città suddetta. Può solo dirsi che nel 295 a.C. Aesernia era sotto il dominio dei Sanniti, i quali avevano verisimilmente violato la sua neutralità per necessità belliche.

[31] Nel citato saggio della Bruno è di parecchio sfrondata la gloria di Appio Claudio, pretore nel 295; inoltre, l’immolazione dei Decii, riprodotta ben tre volte nelle cronache romane, non è né affermata né contraddetta (op. cit., p. 37, n. 1).

[32] Che si tratti dell’omonima città dei Marsi non par possibile: o bisogna pensare ad una città per noi sconosciuta o la sua grafia va corretta in Aquilonia, come vuole G. Verrecchia, in Samnium 30, 1957, pp. 202-222.

? Il nome è di grafia incerta e la ubicazione è sconosciuta; a meno che, come opina il Verrecchia, op. cit., non si tratti di Venafrum.

[33] Si tratta del grande L. Papirio Cursore, figlio di Spurio e nipote di Lucio, cinque volte console e due volte dittatore, celebre per le lotte vittoriosamente svolte contro i Sanniti. Va, tuttavia, sottolineato che Papirio console nel 293 somiglia, per alcune circostanze della sua vita, al padre (vd. Liv. 9, 40, 1).

[34] L’ubicazione di questa città è stata pensata nel territorio degli Irpini, al confine dell’Apulia, sulla via Appia, ed identificata con la odierna Macedonia; altri la spostano nei pressi di Campobasso, altri perfino a Nord di Roma. Sono intervenuti anche studiosi locali, che hanno cercato di precisare con opportune circostanziate indicazioni: G. Verrecchia (in Samnium 30, 1957, p. 208 sg.) ritiene Aquilonia sita su uno sperone roccioso delle propaggini meridionali delle Mainarde, versante orientale, e corrispondente all’odierna Montaquila; per M. Jacobelli, (Ritrovate le città di «Aquilonia» e «Cominium» Ed. Consiglio della Valle di Cominio 1965, p. 7 sg) Aquilonia si trovava su un’altura denominata Rocca degli Alberi, nel territorio di Picinisco. Par certo, dunque, che era una città del Sannio, non lungi dal corso superiore del Volturno.

[35] Se ricordino, in proposito i Libri Linteati conservati nel tempio di Iuno Moneta.

[36] Vd. il giuramento dei Fetiales: Inde Iovem testem facit: «Si ego ingiuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse» (Liv. 1, 32, 7).

[37] Vd. Paul. Fest. 102, 15 Lindsay: Legio Samnitium linteata appellata est, quod Samnites intrantes singuli ad aram velis linteis circumdatam non cessuros se Romano militi iuraverant.

[38] Altra città dei Volsci, forse a Nord di Atina, lungo il confine sannita.

[39] Vd. op. cit., p. 5.

[40] Col titolo di T. Livii Periochae omnium librorum ab Urbe condita ci è giunto un riassunto dell’opera liviana (mancano, tuttavia, i libri 136 e 137), probabilmente già un riassunto fatto in epoca imperiale, di un’epitome compilata forse nel II secolo dopo Cristo.

[41] La sconfitta romana è attestata da più fonti: Liv. per. 11; Eutr. 2, 9, 3; Oros. 3, 22, 6-12. Vd. De Sanctis op. cit., II, p. 344.

[42] Vd. G. De Sanctis, op. cit., II, p. 345 e bibl. ivi cit.