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ORAZIO, L’OLIO DI VENAFRO

E I POCULA DI ALIFE

 

del prof. Antonio Manzo.

 

 

Il perché della presentazione, in questo Annuario, delle satire oraziane quarta e ottava del secondo libro si fonda sul richiamo, che, nell’una e nell’altra, il poeta fa all’ottimo olio d’oliva di Venafrum e, solo nell’ottava, ai pocula Allifana. Ma, posto che tali citazioni acquistano in significatività, se vengono considerate per come esse si trovano inserite nell’ambito delle due satire oraziane, ho ritenuto non inutile volgerne in italiano il testo latino, in modo da rendere attuali certe specialità gastronomiche di serm. 2,4 e ancor più sapida la descrizione di un sontuoso banchetto in serm. 2,8. Così facendo avremo modo anche di riflettere su come la finzione del comunicare a viva voce assuma un rilievo tutto particolare nei Sermones di Orazio, poichè il loro procedimento compositivo e strutturale, se il più delle volte non si differenzia dalle movenze di un dibattito mimico-diatribico, talora si svolge in forma di un dialogo inusitato. Il quale tuttavia non perde mai le proprie caratteristiche, anche nei casi in cui si abbia una marcata sproporzione nella parte affidata a ciascun interlocutore del sermo, divenuto ormai simile, nella sua sezione di maggiore ampiezza, a una trattazione, che può riguardare questioni di carattere morale, ma anche argomenti di più leggero spessore.([1]) Inoltre arriveremo a una rilettura delle due suddette satire tale da farci cogliere l’intento ironico del loro autore, che è in grado di toccare i toni enfatici e di servirsi dello stile pertinente alla minuta precettistica filosofica per trattare argomenti propri dell’arte culinaria, arrivando a ottenere l’effetto da lui voluto con il contrasto stabilito fra la solennità dell’espressione e la tenuità del contenuto.([2])

In serm. 2,4([3]) Orazio immagina d’incontrare Cazio,([4]) che se ne andava per la strada, dopo avere ascoltato una lezione di arte culinaria tenuta da un grande maestro e ne ripeteva a memoria i precetti. Il poeta si scusa per averlo interrotto in un momento così poco opportuno, ma a Cazio non sembra vero di trovare qualcuno a cui confidare i segreti della sua sapienza gastronomica e di riferire le meraviglie, che egli ha appena udito, ma intende mantenere segreto il nome del suo insegnante. A queste battute introduttive, intese a rivelare l’occasione del sermo, segue la recita completa della lezione, conclusa da Orazio, che prega l’amico di condurlo a scuola insieme con lui, “affinchè egli possa accostarsi a sorgenti remote e attingervi i precetti della vita felice”.([5])

Mi limito a riservare l’attenzione solo ai versi 12-87, che danno per bocca di Cazio le norme da seguire per l’imbandigione di un ottimo pranzo.

“Ricordati che a mensa vanno servite uova bislunghe, perchè hanno sapore più delicato e il loro albume è più chiaro di quelle rotonde; infatti, se le uova hanno duri i gusci, contengono tuorli destinati a diventar galletti.([6]) Gli ortaggi, che crescono in terreni secchi, sono più saporosi, mentre non ve ne sono di più scipiti di quelli che si coltivano negli orti irrigui”. Fino a questo punto l’ordine dell’esposizione è proceduto secondo le regole, giacchè il pranzo dei Romani si apriva con uova e ortaggi, ma ora Cazio si confonde e viene a illustrare come debba essere preparata alla svelta una cenetta fuori programma. “Quando un ospite càpiti improvviso e a tarda ora, affinchè la gallina (da cuocere) non risulti dura al masticare, impara a immergerla ancora viva in vino Falerno misto ad acqua: procedimento, questo, che la renderà più tenera. I prataioli sono funghi commestibili di ottima qualità, mentre degli altri non v’è da fidarsi. Chi usa terminare la colazione([7]) con gelsi neri, colti dall’albero prima che il sole scotti, si prepara a passare in buona salute i mesi estivi. Aufidio([8]) soleva mescolare miele e robusto Falerno,([9]) ma si sbaglia così facendo, perché conviene ingerire bevande leggere in uno stomaco vuoto, che meglio tu disporrai con vinello misto a miele. Se poi l’intestino continua a essere pigro, toglieranno ogni intoppo datteri di mare e molluschi comuni cotti in vino bianco di Coo con foglioline di acetosella”. Ma, nella scelta dei frutti di mare, bisogna badare alla stagione e al luogo di provenienza, perchè “la luna crescente rende più piene le ostriche([10]) che scivolano giù senza fatica; non tutti i mari, però, sono adatti a dare molluschi di pregio. La pelòride pescata nel lago Lucrino è migliore del mùrice proveniente dalle acque di Baia; come dalle acque del promontorio Circeo vengono le ostriche migliori, così dalle acque del capo Miseno vengono i migliori ricci di mare, mentre la raffinata città di Taranto si vanta dei suoi pèttini, molluschi dalle valve belle larghe”.

Dopo aver parlato dell’antipasto (gustatio), il nostro Cazio passa a esporre precetti sul pranzo propriamente detto (cena): l’argomento si fa più impegnativo e perciò l’accorto gastronomo sente il bisogno di avvertire Orazio che la sua è una scienza, la quale non dà posto a cultori dilettanti. E allora “nessuno si arroghi alla leggera il possesso dell’arte gastronomica, se prima non ha studiato a fondo la sottile dottrina del saper gustare. Non basta che uno porti via tutto dal banco, dove si vendono pesci di pregio, se poi ignora a quali pesci più si addica una certa salsa e per quali, cucinati arrosto, il commensale ormai sazio riprenderà a posarsi sul gomito. Umbro e nutrito con ghiande di quercia deve essere il cinghiale, che col suo peso fa piegare il vassoio rotondo del padrone di casa, il quale non ne vuol sapere di carne flaccida. Infatti, il cinghiale di Laurento([11]) non vale niente, ingrassato com’è di erbe che crescono lungo i margini delle paludi e di cannucce tipiche dei luoghi acquitrinosi. Il terreno coltivato a vigneto non sempre tira su capriòli dalla carne squisita; chi se ne intende andrà in cerca del pezzo di spalla d’una lepre, attento che l’animale abbia già figliato. Prima che il mio palato lo scoprisse,([12]) nessun altro seppe indagare con tanta bravura, da scoprire la qualità e l’età, che pesci e uccelli debbono avere (per essere più adatti alla cottura). Vi sono anche di quelli che si limitano a escogitare qualche novità nell’ambito della pasticceria, ma non è per nulla sufficiente porre l’attenzione su di un unico particolare: è come se uno si preoccupasse solo che non siano scadenti i vini, senza darsi pensiero di quale olio condisca meglio i pesci”.

Si passa quindi alla potatio, a proposito della quale Cazio avverte che, “se il vino del monte Massico viene esposto all’aperto, l’aria della notte ne riduce il sovrappiù di densità([13]) e ne fa svaporare quella fragranza eccessiva, che dà fastidio ai nervi; ma, se questo vino viene filtrato con la tela di sacco, se ne altera il sapore genuino. Chi invece ha la furbizia di mescolare il vino di Sorrento([14]) con la feccia del Falerno ridotta in polvere, fa bene a raccoglierne il soverchio con l’ausilio di un uovo di piccione,([15]) poiché il suo tuòrlo, mentre va a fondo, tira giù con sè i corpi estranei sospesi nel vino. Il bevitore che non ha più desiderio di mangiare sarà invogliato a farlo da piccoli gamberi di mare arrostiti e da lumache africane, perché la lattuga([16]) balla in uno stomaco che ha l’acidità a causa del vino tracannato. Il bevitore insiste nel chiedere di volersi tirare su stuzzicato dal prosciutto e dalla salciccia più che dalla lattuga, anzi preferisce uno qualunque dei piatti, che si servono caldi nelle sudice bettole. È cosa davvero vantaggiosa conoscere a fondo([17]) la composizione di due salse. La prima, molto semplice, è fatta di olio d’oliva di recente spremitura, a cui va mischiato vino corposo e salsa di pesce fermentato,([18]) ma solo di quella che un orcio di Bisanzio([19]) ha conservato inalterata la fragranza. Questo tipo di salsa, alla quale è stato mescolato un battuto di erbe aromatiche, viene scaldata finché si levi il bollore, cosparsa con zafferano del monte Cèrico (in Cilicia) e tenuta a riposo; infine, volendosi ottenere l’altra salsa, si aggiunge olio di Venafro”, come a dire olio d’oliva finissimo.([20]) Passando alla mensa secunda, Cazio comincia a parlare della frutta e avverte: “Quanto a sapore, le mele di Tivoli sono inferiori a quelle del Piceno, che però fanno più figura. La vennuncula, varietà di uva campana, è adatta a essere riposta nei vasi di coccio, mentre l’uva dei Colli Albani si conserva meglio, se viene affumicata. Sono stato io” -precisa Cazio- “che ho insegnato a mescolare quest’uva con le mele; e sono stato io il primo a mescolare la feccia di vino polverizzata con salsa di caviale; risulta altresì chiaro che io per primo ho fatto mettere torno torno la tavola, in piattini ben puliti, pepe bianco setacciato insieme con sale scuro”.

Cazio si avvia alla conclusione ritenendo opportuno biasimare le spese eccessive, perché la bravura dell’anfitrione consiste non tanto nell’acquistare viveri costosi, quanto nell’apparecchiare il convito con finezza ed eleganza. Perciò “è uno sbaglio enorme spendere ogni volta tremila sesterzi al mercato e ammucchiare in un vassoio, che appena li contiene, i pesci, abituati a star così larghi nell’acqua. Ed è una cosa che rivolta lo stomaco, se uno schiavo addetto alla tavola tocca con le mani unte una coppa, mentre si dà a saggiare di nascosto un intingolo, o se un sudiciume alto un dito sta attaccato a un vecchio cratère”. Né va trascurata la pulizia della sala da pranzo. Del resto, si chiede Cazio, “che grande spesa è comperare scope che hanno poco prezzo, strofinacci e segatura? È invece una gran vergogna trascurare tali particolari. E che dire, se il mosaico del pavimento viene pulito con una granata di palma, però sporca; se tovaglie sudice sono stese  sulle balze di porpora tiria che circondano il letto tricliniare? senza considerare che quanto meno la cura della pulizia richiede attenzione e spesa, tanto più con ragione essa viene censurata, più della mancanza di quello sfarzo, che si può trovare solo nei conviti dei ricchi”.

Fra le satire del malcostume conviviale, le quali, insieme con le leges sumptuariae,([21]) confermano il lusso culinario, che caratterizza la storia sociale di Roma sopra tutto nei secoli I a.C. e I d.C.,([22]) si distingue Hor. serm. 2,8. Questo componimento, in cui l’autore riprende la forma dialogica interrotta con la satira sesta, è un capolavoro di vivacità e una compiuta espressione di quell’ironia sottile, che, pur avendo qualcosa d’inafferrabile, si lascia tuttavia cogliere con immediatezza.

Il banchetto, sontuoso e ricco di portate, è ambientato in casa di Nasidieno Rufo,([23]) a cui Orazio intese affidare la parte di una di quelle persone di grado sociale modesto, giunte rapidamente a vivere nell’agiatezza, senza essersi però liberate dai comportamenti propri della loro originaria condizione, le quali si rendono goffe e ridicole, mentre cercano d’imitare il comportamento dei veri signori. Nasidieno non era neppure privo di sfrontatezza, se non si astiene dal convitare Mecenate, e nella sua smania di sembrare anche dotto non si accorgeva di dire sciocchezze e di prendere per buona moneta le sguaiate esclamazioni dei suoi commensali burloni. Il ruolo di narratore era sostenuto da un bravo commediografo, Fundanio,([24]) che, interrogato da Orazio su come gli era andato il pranzo in casa di Nasidieno, inizia il suo dire partendo dall’antipasto (gustatio o promulsis), che placa lo stomaco dei convitati rabbioso per la fame.

“Si cominciò col servire cinghiale lucano, cacciato con lo scirocco che non spirava troppo forte”, quanto bastava per frollare la carne senza alterarne il sapore,([25]) “come affermava l’anfitrione: all’intorno erano disposti ravanelli piccanti, lattuga,([26]) radici amare, tutti ortaggi che stuzzicano uno stomaco indebolito, raperonzoli,([27]) salsa di pesce,([28]) feccia di vino di Coo polverizzata”, che veniva usata per condimento acido. “Tolti dalla tavola gli antipasti, non appena un servitore con la tunica raccolta ai fianchi”, per essere più spedito, “ebbe deterso la mensa di legno d’acero con uno straccio di porpora([29]) e un altro ebbe raccolto tutti gli avanzi, che si trovassero per terra e quanto potesse disgustare i commensali, ecco, simile a vergine attica che va in processione portando sul capo i simboli sacri di Demetra,([30]) avanzare lo schiavo Idàspe, scuro di pelle, con vino Cècubo e lo schiavo Alcone con vino di Chio fatto in Italia.([31]) A questo punto il padrone di casa viene a dire:’Mecenate, se preferisci l’Albano o il Falerno invece del vini portati in tavola, la nostra cantina ha l’uno e l’altro’”. E Orazio allora non si trattiene dall’esclamare: “Miseria, non già ricchezza, è codesta!”, curioso per altro di sapere da Fundanio chi fosse con lui e con quali persone egli avesse avuto modo di divertirsi. Così l’amico riprende:”Al primo posto  ero io,([32]) vicino a me stava Visco di Turi e dopo di lui, se ben ricordo, stava Vario; venivano poi Servilio Balatrone e Vibidio, che Mecenate aveva condotto seco come ‘ombre’,([33]) Nomentano aveva preso posto a sinistra del padrone di casa e a destra v’era Porcio, che con fare ridicolo riesce a mandar giù, in un solo boccone, intere focacce. Nomentano aveva l’incarico di segnalare col dito indice se qualche sapore recondito dovesse per caso sfuggire al gusto dei convitati. Infatti, il resto della ciurma, noi voglio dire, mangiavamo uccelli, ostriche, pesci, tutti cibi però che avevano un sapore diverso dal consueto,([34]) come per esempio fu sùbito evidente, quando Nomentano mi fece servire interiora di pesce passero e di rombo, piatto che io non avevo mai saggiato. Di poi egli passò a insegnarmi che le mele nane diventano rosse, se vengono còlte a luna calante, precisando che avrei sentito meglio da Nasidieno stesso l’importanza di tale particolare. Finita la spiegazione, Vibidio dice a Balatrone:  ‘Qui, se non beviamo tanto da mandare in rovina il padrone di casa, moriremo senza vendicarci([35]) delle sue disquisizioni culinarie’ e si fa portare coppe più capaci. Allora sbianca il volto del parochus,([36]) che nulla temeva quanto i forti bevitori, sia perché essi sparlano con troppa libertà, sia perché i vini generosi compromettono la finezza del palato. Vibidio e Balatrone rovesciano anfore fino all’ultima goccia in coppe di Alife([37]) e gli altri appresso a loro, mentre due convitati che hanno posto sul triclinio imus, Nomentano e Porcio, non fecero il minimo danno alle anfore.

“Viene poi servita una murena distesa nel piatto di portata e guarnita all’intorno di gamberetti con il loro intingolo. Ed ecco che il padrone precisa: ‘Questa, gravida è stata presa, perché non sarebbe stata così delicata di carne, se avesse deposto le uova.([38]) L’intingolo è composto dei seguenti ingredienti: olio venafrano di prima spremitura,([39]) salsa preparata con sugo di pesci iberici marinati e vino vecchio di cinque anni, ma, state bene attenti!, che sia vino prodotto al di qua del mare (cioè in Italia), se è versato mentre l’intingolo si cuoce, perché, quando la salsa ha raggiunto la giusta cottura, nessun altro è più indicato del vino di Chio; nè può mancare il pepe bianco con aceto ottenuto dal vino di Metimna alterato.([40]) Io per primo ho insegnato a cuocere dentro quella salsa ruchette verdi ed ènule amare,([41]) mentre il buongustaio Curtillo faceva cuocervi ricci di mare non lavati, perché l’acqua salsa emessa da questi crostacei era preferibile alla salamoia o alla salsa di pesce (muria)’.

“Frattanto venne giù con grande fracasso il baldacchino (aulaeum):([42]) finì sul piatto di portata sollevando una polveraccia nera più di quella causata dall’Aquilone, quando soffia sul terreno tufaceo della Campania. Noi, che sulle prime avevamo temuto qualcosa di peggio, visto che non era capitato nulla di grave, ci levammo in piedi, mentre Nasidieno Rufo piangeva a capo chino, come se gli fosse morto un figlio in tenera età. E chissà quando l’avrebbe smessa, se Nomentano, con quella sua aria di filosofo, non avesse rialzato il morale dell’amico sentenziando: ‘Ah, Fortuna, quale divinità è più crudele di te nei miei riguardi? Gioisci, come sempre, nel burlarti delle vicende umane!’. Intanto Vario cercava di frenare le sue risate portandosi il tovagliolo sulla bocca e Balatrone, abituato a prendersi gioco di tutto, esprimeva il proprio pensiero con un tono cattedratico: ‘Vedi com’è la vita; e appunto per questo alla tua fatica non corrisponderà mai la fama, che tu meriti. Bisogna senz’altro che, per accogliere me con sfarzo, ti torturi con mille pensieri, affinché il pane non sia bruciacchiato, la salsa non sia mal condita, tutta la servitù svolga le sue mansioni come vuole la buona usanza, avendo la tunica raccolta ai fianchi e i capelli ben pettinati? Aggiungi poi accidenti improvvisi, quali sono un baldacchino che precipiti, come è successo ora, o uno sgarbato di servitore, che inciampi e faccia rompere un piatto. Ma, la bravura di chi usa dare pranzi, simile a quella di chi comanda un esercito, la rivelano le contrarietà, mentre la nasconde il filar liscio delle cose’. Al che Nasidieno non si trattiene dal dire: ‘Gli dèi ti concedano quanto tu possa implorare: sei proprio un vero galantuomo e un amabile convitato’; e si fece portare i sandali (per andare in cucina). Allora, sì, avresti potuto vedere su ciascun triclinio i commensali che si erano aggruppati, mentre l’uno mormora confidenze all’orecchio dell’altro”.

Orazio si rammarica di non essere stato presente a uno spettacolo del genere e prega l’amico di raccontargli ciò che lo ha fatto ancora ridere, il quale, ripresa la parola, viene a dire: “Mentre Vibidio chiedeva agli inservienti se si fosse rotta anche l’anfora, poiché non gli si dava da bere, malgrado le sue richieste, e mentre noi si rideva delle frottole tirate fuori da costui e da Balatrone, eccoti, o Nasidieno,([43]) far ritorno in sala mutato in volto, come di uno intenzionato a correggere la fortuna con la sua bravura di gastronomo. Subito dopo si presentarono due inservienti portando su un capace vassoio([44]) una gru maschio ridotta in pezzi cosparsi di abbondante sale con del farro e fegato di oca bianca ingrassata con fichi,([45]) non senza quarti anteriori di lepre staccati dal resto dell’animale, molto più gustosi che se vengono mangiati insieme con i quarti posteriori. Vedemmo mettere in tavola anche merli arrostiti allo spiedo e piccioni privati delle cosce, vere squisitezze, se il padrone di casa non ce ne spiegava le ragioni e le proprietà. Ma noi ce ne vendicammo scappando via, senza assaggiare niente proprio di quella roba, come se fosse stata appestata dall’alito di Canidia([46]) più micidiale di quello dei serpenti africani”.

 

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[1] Cf. A.La Penna, L’autorappresentazione e la rappresentazione del poeta, “Aevum Antiquum” 5,1992,pp. 165-169.

[2] Essenziale, per comprendere il senso e la finalità di questa operazione, mi par che sia il riferimento al modello offerto dalla tradizione della poesia gastronomica, le cui radici si hanno in autori greci del sec. IV a.C., quali Archestrato di Gela col suo Hedypatheia, Matrone di Pitane col suo Banchetto attico e Filosseno di Leucade col suo Deipnon, opere, tutte queste, che, nel dare una rassegna di cibi prelibati dei vari Paesi, non si limitavano ad essere gustose parodie dei poemi omerici quanto al loro stile, ma sperimentavano il verso epico per la trattazione di argomenti inusitati. Sulle orme del poema gastronomico di Archestrato si mise Ennio degli Hedyphagetica, che costituiscono il primo breviario del buongustaio in Roma antica.

[3] Cf. P. Fedeli, Sull’arte di mangiar bene e vivere felici (Hor. Sat. 2,4), “Aufidus” 7,1993, n. 21 pp. 13-38.

[4] Da Porfirione (ad Hor. serm. 2,4,1) apprendiamo di un Catius Epicureus, qui scripsit quattuor libros de rerum natura et de summo bono; da Cicerone, in una lettera scritta nel 45 a.C. (ad fam. 15,16) siamo informati di un Catius insuber Epicureus, qui nuper est mortuus (cf. A. Manzo, Facete dicta Tulliana, Torino 1969, p. 144); da Quintiliano veniamo a sapere di un Catius, filosofo epicureo, ma anche scrittore superficiale (levis), cui però non difettava la piacevolezza espressiva (non iniucundus). Il Catius oraziano, tuttavia, resta uno sconosciuto, forse un personaggio dal nome finto, del quale il poeta si serve per fare oggetto di satira la sapientia epicurea ridotta ad avvertimenti gastronomci.

[5] Hor. serm. 2,4,94-95: Fontis ut audire remotos / atque haurire queam vitae praecepta beatae, versi in cui è innegabile l’eco di Lucr. 1,927-928 e 4,2-3: Iuvat integros accedere fontis / atque haurire. Né deve sfuggire che le parole con cui si apre la satira (‘Unde et quo Catius?’) riprendono quelle iniziali del Fedro platonico.

[6] Cf. Arist. hist. anim. 6,2,2; Plin. nat hist. 10,145; Colum. 8,5,11.

[7] Cazio sbaglia, perchè qui, parlandosi della gustatio nella cena, è fuori di posto il richiamo, che egli fa al prandium, ossia alla colazione consumata circa mezzogiorno, composta da pesce, legumi e frutta.

[8] Plinio (nat. hist. 10,45) nomina un certo M. Aufidius Lurco, che aveva trovato il sistema di ingrassare i pavoni. Nel nostro caso, è verosimile che Cazio abbia buttato giù a caso il nome di un buongustaio, smanioso com’è d’inserire uno spunto polemico nell’esposizione dei suoi precetti.

[9] Secondo Crazio, l’errore commesso da Aufidio consisteva nel preparare il mulsum (vino misto a miele) usando vino asciutto, non già vino abboccato, come le buone regole volevano. Che Aufidio avesse ragione è desunto anche da Plinio (nat. hist. 22,113), ma già Orazio aveva consigliato di astenersi da una bibita, “che non sia miele dell’Imetto stemperato nel Falerno” (serm. 2,2,15-16).

[10] Cf. Plin nat. hist. 2,109: Lunari potestate ostrearum conchyliorumque omnium corpora augeri ac rursus minui... exquisivere diligentiores.

[11] Gli scavi di Laurentum si trovano a sud del Lido di Ostia a poca distanza dalla costa. Cf. Verg. Aen. 8,38 s., che lo precisa città dei Latini.

[12] Cazio, nell’esaltare i propri meriti gastronomici, non s’accorge di rivelare quanto Orazio doveva aver già capito, cioè che Cazio e il suo maestro sono la stessa persona.

[13] Per gli antichi tale procedimento costituiva un mezzo sostitutivo della filtrazione: cf. Plin. nat. hist. 14,136: Campaniae nobilissima exposita sub divo in cadis verberari sole, luna, imbre, ventis, aptissimum videtur.

[14] Stando a Plin. nat. hist. 14,64, il vino di Sorrento era di poco pregio; veniva chiamato dall’imperatore Tiberio generosum acetum e da Caligola nobilis vappa.

[15] Cazio non direbbe nulla di nuovo, e di strano, se non prescrivesse la qualità del vino da usare e se non raccomandasse l’uso dell’uovo di piccione.

[16] Dal Moretum (v. 74: Grataque nobilium requies lactuca ciborum) apprendiamo che un tempo il pranzo si chiudeva con la lattuga; in séguito finì con l’affermarsi la novità proposta da Cazio, come è testimoniato da Mart. 13,14 s.

[17] Hor. serm. 2,4,63: Est operae pretium... L’effetto comico è da Orazio ottenuto usando parole enniane, che hanno un’innegabile suggestione epicizzante. Di tutto il verso enniano, che suona: Audire est operae pretium, procedere recte (465 Vahlen2 = 494 Skutsch), Orazio (serm. 1,2,37) si ricorda, citandolo però a ben altro proposito.

[18] Si noti l’uso oscillante della parola muria, che designa tanto la salamoia, quanto una salsa di pesce fermentato, come il liquamen e il garum.

[19] Plinio (nat. hist. 9,50 ss.) ci informa che nelle acque del Bosforo si pescavano tonni in abbondanza, che venivano conservati in salamoia, ma non risulta da altre fonti che a Bisanzio si preparasse una qualità di muria ricercata dai buongustai.

[20] Oltre che in questa sede e in serm. 2,8, Orazio loda la bontà dell’olio d’oliva di Venafro in carm. 2,6,15 s., scrivendo che l’oliva di Cadice regge in gara con quella della verdeggiante Venafro. Devo alla cortesia dell’amico dott. ing. Dante Fossa, se posseggo il Canto del Can. F. Lucenteforte, Gli ulivi di Venafro (Napoli 1843), ricchissimo di note illustrative, delle quali mi limito a segnalare la lunga nota a piè delle pp. 6-10 inerente agli scrittori che fecero lodevole menzione dell’olio e delle ulive Venafrane.

[21] Le leges sumptuariae, leggi intese a frenare gli sperperi, fra i quali si segnalava lo sfarzo delle mense, furono più volte promulgate, segno palese della loro insufficienza. Fra tutte, la più estesa e particolareggiata fu la lex Iulia, emanata da Giulio Cesare e ripresa da Augusto nel 22 a.C. Al riguardo cf. Tac. ann. 3,52,1.

[22] Cf. E. Ratti, Ricerche sul ‘luxus’ alimentare romano fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., “Rend. Ist. Lomb.” 100, 1966, pp. 157-203. Per un orientamento generale, cf. E. Salza Prina Ricotti, L’arte del convito nell’antica Roma, Roma 1983; AA.VV., Homo edens. Regimi, miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, a cura di O. Longo e P. Scarpi, Verona 1989; I. Mazzini, Alimentazione, gastronomia, dietetica nel mondo classico, “Orpheus” 8,1994, n. 23, pp. 35-56.

[23] Nasidieno, che Hor. serm. 2,8,58 designa con il cognomen Rufus, è in questa sede verosimilmente un nome di fantasia, usato da Orazio per nascondere un personaggio, di cui egli non riteneva opportuno svelare l’identità, trattandosi di uno che aveva rapporti con Mecenate.

[24] A Fundanio si rivolge Hor. serm. 1,10,42 e Porfirione (ad loc.) nota: “Solum illis temporibus Gaium Fundanium (scil. Horatius) dicit comoediam bene scribere”. Niente altro sappiamo di questo poeta del circolo di Mecenate.

[25] Porfirione (ad Hor. serm. 2,8,6) chiosava: “Hoc ideo, quia adfirmant lassam carnem apri, id est requietam, meliorem esse.

[26] Da questa fonte apprendiamo che già al tempo di Orazio la lattuga si serviva con gli antipasti. Cf. nota 16.

[27] Il raperonzolo (siser) stomachum excitat, fastidium absterget, ex aceto laserpiciato sumptum aut ex pipere et mulso vel ex garo (Plin. nat. hist. 20,17).

[28] Con allec (ma anche hallec o hallex) si indicava una salsa simile al garum, fatta di solito con frutti di mare e interiore di pesce. Cf. Plin. nat. hist. 21,95.

[29] In Hor. serm. 2,8,11 gausape, traslitterazione dal greco, designa stoffa dal lungo pelo e di notevole spessore; lo stesso termine in Pers. 4,37 ha il senso figurato di ‘barba folta’.

[30] Nelle feste eleusine le virgines sacre a Demetra (lat. Cerere), dette Canefore, sfilavano in processione con lento incedere.

[31] L’espressione latina maris expers è stata da noi intesa nel senso di vino fatto con uva di Chio coltivato in Italia; potrebbe, però, anche essere spiegata nel senso di vino puro, non mescolato con acqua di mare: cf. Plin. nat. hist. 14,73.

[32] La disposizione dei convitati è spiegata dal grafico riportato a pag. ?. Il locus imus del lectus medius era il posto d’onore. Il quarto lato della tavola, su cui si depositavano via via i piatti con le diverse portate, rimaneva libero per il servizio.

[33] L’invitato di riguardo, che nel caso nostro è Mecenate, era solito condurre seco una o due persone (clientes) del suo séguito, dette umbrae, perchè accompagnavano il loro patrono come se fossero la sua ombra.

[34] A questo proposito leggiamo in Apicio (4,2,12) la ricetta di “un piatto di acciughe senza acciughe” (patina de apua sine apua), concepita in armonia col principio che ad mensam nemo agnoscet quid manducet; l’abilità del cuoco consiste appunto nel far sentire il sapore anche di una cosa che non sta nel piatto da lui approntato.

[35] Moriemur inulti, scrive Orazio (serm. 2,8,34), parodiando un’espressione epica di sapore enniano, ripresa da Verg. Aen. 2,670 e 4,659.

[36] Fundanio si riferisce con evidente ironia a Nasidieno, cui dà l’appellativo di parochus, come veniva designato l’incaricato di provvedere vitto e alloggio ai magistrati in viaggio; e si trattava perciò di un funzionario noto per la sua tendenza alla parsimonia.

[37] Con Allifana (scil. pocula) vanno intesi i calices maiores, che Vibidio ha in precedenza chiesto; si tratta, infatti, di coppe rozze nella fattura, ma capaci, come in genere era la Campana supellex (Hor. serm. 1,6,118).

[38] Le murene, come anche altri pesci, venivano allevate dai piscinarii nei loro vivai privati (cf. Mart. 10,30,21), in modo che era possibile catturarle quando la carne era più gustosa.

[39] Columella (12,52,11) consigliava: Sint in cella olearia tres labrorum ordines, ut unus primae notae, id est primae pressurae, oleum recipiat, alter secundae, tertius tertiae. Per altro, cif. nota 20.

[40] Città dell’isola di Lesbo, dove si produceva un vino molto ricercato.

[41] L’inula era un’erba dalla radice amara e aromatica. Cf. Plin. nat. hist. 19,91 s.: Per se stomacho inimicissima, eadem dulcibus mixtis saluberrima... Pipere aut thymo variata defectus praecipue stomachi excitat, inlustrata autem Iuliae Angustae cottidiano cibo. Nè sfugge Lucr. 2,430, dove gli inulae sapores sono contemplati fra gli atomi, che possono titillare i sensi.

[42] Orazio (carm. 3,29,15) ci fa capire che il baldacchino eretto al di sopra della mensa era proprio della dimora dei ricchi. Cf. anche Serv. ad Aen. 1, 697: Ideo etiam in domibus tendebantur aulaea, ut imitatio tentorium fieret. Varro tamen dicit vela solere suspendere ad excipiendum pulverem.

[43] Orazio (serm. 2,8,84), non diversamente da Hom. Il. 4,127, usa l’artificio proprio dell’apostrofe poetica, anzichè servirsi della narrazione, che si fa alla terza persona.

[44] Le pietanze, sopra tutto pollame e cacciagione, venivano portate in un grande vassoio, detto mazonomus, traslitterazione di un termine greco, che indicava il tagliere per le focacce sacrificali.

[45] Ficatum (scil. iecur) ‘fegato reso grasso per i fichi’ mangiati dall’oca era un termine culinario, come apprendiamo da Apicio (7,3), e designava nell’uso popolare il fegato puro e semplice.

[46] Nome usato da Orazio (cf. serm. 1,8; 2,1,48; epod. 3; 5; 17) per indicare una donna strega e avvelenatrice.