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Antonio Manzo

 

A proposito della legio linteata e del suo giuramento

 

in annuario ASMV 2000, pp. 155-161

2001

 

 

 

Mi interessai a Tito Livio storico della terza guerra sannitica nella regione matesina e del Medio Volturno[1]: a distanza di anni, volgo ora l’attenzione a un singolare episodio della medesima guerra.

I Sanniti, per la battaglia da combattere contro i Romani presso Aquilonia (293 a.C.)[2], fecero ricorso anche all’aiuto degli dèi, considerato che i loro soldati erano stati, per così dire, iniziati alla milizia con un giuramento prestato secondo un antico rituale. In tutto il Sannio, prosegue Livio, la leva fu tenuta con un bando straordinario (nova lege), in base alla quale si votava a Giove, come atto di maledizione, la testa (caput Iovi sacraretur) di quei giovani (juniores), che non avessero risposto alla chiamata alle armi o che si fossero allontanati dal luogo di raccolta senza il permesso dei superiori.

Circa 40mila uomini convennero presso Aquilonia, dove, quasi nel centro dell’accampamento, fu recintato con graticci e con tavolati uno spazio, che si estendeva, ugualmente in ogni direzione, al massimo per duecento piedi, spazio che venne poi ricoperto con teli di lino. Quivi fu offerto un sacrificio secondo quanto era stato letto, in un antico libro linteo, da un sacerdote avanti negli anni, un certo Ovio Paccio, persona di nobili natali, che affermava di aver tratto quel sacro rito da un antico cerimoniale dei Sanniti, lo stesso a cui se erano un tempo attenuti i loro avi, quando avevano segretamente deciso di togliere Capua agli Etruschi. Una volta compiuto il sacrificio, il comandante faceva chiamare i giovani che più si distinguevano per stirpe e per imprese compiute e li faceva entrare uno per uno. Come tutti gli altri preparativi per il sacrificio erano tali da infondere nell’animo un timore religioso, così nel centro del recinto v’erano anche altari, vittime uccise e all’intorno centurioni con le spade sguainate.

Ogni nuovo arrivato si faceva accostare agli altari  più come una vittima (victima) che come uno che doveva partecipare al sacrificio (sacri particeps), e gli era imposto il segreto con giuramento, che veniva da ciascuno proferito facendo uso di una orribile formula (diro quodam carmine), intesa a invocare la maledizione su di sé e sulla propria famiglia, se non fosse andato a combattere o se fosse fuggito dal campo di battaglia o se no avesse immediatamente ucciso chi vedeva fuggire. All’inizio, alcuni che si rifiutarono (abnuentes) di prestare un tale giuramento furono sgozati intorno agli altari; quei cadaveri, giacendo fra i corpi delle vittime, indussero gli altri, loro malgrado, a prestare un tale giuramento. Dopo aver costretto i Sanniti più ragguardevoli a pronunziare le suddette maledizioni (execrationes), il comandante ne designò dieci, ai quali si ordinò che ciascuno scegliesse il proprio compagno (ut vir virum legerent), fino a raggiungere il numero di 16mila uomini. I qual costituirono la legio linteata, così chiamata dalla copertura del recinto fatta con teli di lino; ebbero armi splendide ed elmi col pennacchio (cristatae galeae), in modo che questi soldati, sovrastando gli altri, potessero distinguersi.

Ho seguito il testo liviano[3], ora traducendo ora parafrasando, unico a tramandare notizie sulla legio lintata[4] e sul giuramento ad essa inerente, mentre sulla battaglia di Aquilonia si legge in Valerio Massimo (7, 2, 5), in Frontino (2, 4, 1) e in Orosio (3, 22), autori che, come Livio, attribuiscono la vittoria al console Papirio, mentre per Plinio (nat. hist. 34, 43) la vittoria fu conseguita da Sp. Carvilio, collega di Papirio nel consolato.

Non mancai di stupirmi leggendo che E. T. Salmon riteneva la narrazione liviana della legio linteata “brillante, anche se storicamente poco persuasiva”[5], narrazione che, stando a S. Tondo, era da giudicare autentica[6].

Il certo è che due elementi del rito sannitico, la lex sacrata e il vir virum legere, già ricorrono in Livio: nel 310 vulg.[7], “gli Etruschi, radunato un esercito in forza di una legge fondata sul vincolo del giuramento (lege sacrata) e secondo la norma che ogni uomo avesse scelto il proprio compagno, combatterono con un complesso di soldati e con un coraggio quali mai altre volte in passato s’erano visti”[8]. Un’altra volta, Livio fa notare che il magister equitum Giunio Bubulco “fu per caso il primo a far vacillare il nemico, respingendo cioè con la sua ala sinistra l’ala destra dei Sanniti, soldati consacrati secondo il loro costume (sacratos more Samnitium milites)”[9], soldati cioè che, con un solenne giuramento, si erano votati fino alla morte, ma non sfugga alla nostra attenzione che Livio non ha parlato prima d’ora di questo giuramento. Che nel 293 a.C. i Sanniti, come abbiamo visto, combatterono lege sacrata si legge anche in Plinio[10], dal quale pure apprendiamo che i Sanniti usavano portare in battaglia armi splendide e tuniche di lino.

Ma in Livio c’è un elemento che direi nuovo, considerato che esso ricorre sovente in un contesto, che lo pone nel giusto risalto: intendo riferirmi al ritus sacramenti, a quell’orribile giuramento, che veniva fatto per una battaglia imminente o durante il suo svolgimento. Leggiamo, per esempio, che il console Sp. Carvilio “strappò ai Sanniti la città di Amiternum, mentre i nemici erano intenti a compiere le loro pratiche superstiziose (operati superstitionibus) e tenevano adunanze segrete (concilia segreta)”[11].

Maggiore interesse desta l’operato dell’altro console L. Papirio, che assicura ai suoi soldati il favore degli dèi, ostili all’esercito nemico, “il quale, macchiatosi, per un empio rito (nefando sacro), di sangue umano misto a sangue di animali, destinato a una duplice ira divina temendo da una parte gli dèi testimoni dei trattati stipulati con Roma, dall’altra le maledizioni (execrationes) del giuramento proferito in contrasto con quei trattati, aveva giurato malvolentieri (invitus), odiava il voto (sacramentum)” fatto a Giove, “temeva ad un tempo gli dèi, i concittadini, i nemici”[12].

Stando a Marta Sordi, “l’insistenza di Livio sugli effetti paralizzanti del giuramento dei Sanniti e sul carattere empio e sacrilego di esso… rivela la polemica che sta al sotto di tutta la descrizione”[13] liviana. Da tale convincimento l’illustre studiosa muove per ritenere che lo storico patavino ha la sua fonte in “un annalista del I secolo, di poco posteriore alla guerra sociale ed influenzato dalla propaganda romana e dalla tradizione familiare dei Papiri sulla guerra sociale”[14]. Da quanto via via prospettato e discusso alla Sordi par lecito concludere che “la trasposizione operata da Livio (o dalla sua fonte) diventa così un esempio tipico di quella pseudostoria, che, senza rilievo per la comprensione dei fatti a cui pretende di riferirsi, diventa importantissima per la conoscenza del clima politico e psicologico del periodo in cui la trasposizione stessa ha avuto origine”[15].

Non vorrei essere severo censore ritenendo grave errore affidarsi all’intuizione storica e fare aggiunte, forse anche suggestive, ma di certo più o meno lontane da quanto dicono le fonti letterarie, che vanno lette sempre con estrema cautela data la soggettiva e talora distorta esposizione dei fatti. Il cammino verso le fonti va tracciato secondo criteri, che si ispirino ad un accorto positivismo, consapevoli che ci muoviamo in una zona delicatissima dell’indagine filologica e che siamo portati a fare ragionamenti per analogia, i quali, però, nella migliore delle ipotesi, approdano a conclusioni probabili, nel senso che il procedimento analogico si limita a fissare rapporti di mera somiglianza. E nulla più di una certa somiglianza può, ad esempio, essere ravvisata tra la forza speciale sannitica convenuta ad Aquilonia e la truppa scelta, detta di ‘guidatori e soldati su carro’, che ancora nel sec. V a.C. esisteva in Tebe, o la ‘schiera sacra’, che, sempre in Tebe, costituiva la parte più aristocratica dei militari e interveniva nella fase decisiva della battaglia. Anche il giuramento dei Sanniti ci richiama alla memoria il giuramento degli efèbi ateniesi, ma sono tanto diversi l’uno dall’altro[16].

Per quanto riguarda la prima deca liviana, la ricerca delle fonti e la loro analisi ci porta alle testimonianze dell’annalistica, il cui naufragio, però, è stato completo, salvo felici eccezioni. Converrà allora riconsiderare che, nella Roma delle origini, la storia era una annalium confectio, cui attendeva il pontifex maximus[17]; e noi siamo perciò indotti a qualificare ufficiale e sacra la registrazione dei fatti più importanti, che accadevano nel corso dell’anno[18]. Ma se anche la storia romana vera e propria nasce come testimonianza religiosa e come un insieme di azioni umane e di interventi divini, è, in ogni caso, memoria rerum gestarum, che si esplica come coscienza di una tradizione, a cui sono collegabili l’attitudine, che i Romani mostrarono di avere nel personalizzare la loro res publica, ciceroninamente res populi, e l’uso degli exempla, che sostengono con fondatezza il riporto di quanto è avvenuto.

Ma torniamo al passo liviano, dal quale siamo partiti, e consideriamolo “un interessante testimonianza sullo svolgimento di pratiche rituali in spazi sacri all’aperto, appositamente allestiti”[19]. Per di più nulla vieta di ravvisare nella singolare costituzione della legio linteata dei Sanniti e nel suo terribile giuramento un rituale antico, che “può essere reinterpretato come un documento storico reale: non nel senso di un evento puntuale, ma piuttosto come documento di carattere etnografico affidabile, anche se in parte deformato in funzione polemica”[20], se non da Livio, dalla sua fonte. Certo, per non penalizzare l’attività storiografica, conviene ritornare a una nuova forma di enciclopedismo antiquario, considerato che una metodologia storica per l’antichità classica comporta sopra tutto una discussione sul modo corretto di interpretare le fonti pervenuteci dall’antichità stessa: testi letterari, epigrafi, papiri, monete, avanzi archeologici[21].

 

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[1] Il saggio così intitolato uscì nell’Annuario 1968 della “Associazione Storica del Sannio Alifano”, Capua 1968, pp. 92-114, ed ebbe favorevole accoglienza da parte della critica: cf. “Rivista di Studi Classici” 16, 1968, pp. 231-232.

[2] A proposito dell’antica Aquilonia, cf. R. Tullio, Aquilonia e Monte Vairano, “Atene e Roma” n.s. 34, 1989, pp. 87-96; F. Coarelli-A. La Regina, Abruzzo Molise, Roma-Bari 1993, p. 170; S. P. Oakley, The Hill-Forts of the Samnites, London 1995, pp. 149-150, saggio di cui sono debitore alla cortesia dell’amico Domenico Caiazza, che ringrazio di tutto cuore. È interessante notare come da Aquilonia provengano monete sannitiche con il nome della città: così E. Vetter, Handbuch der italischen Dialekte, Heidelberg 1953, nr. 200 C: Akudunniad; per altro cf. R. Cantilena, La moneta tra Campani e Sanniti nel IV e III secola a.C., nel volumetto miscellaneo Studi sull’Italia dei Sanniti, Milano 2000, pp. 82-89.

[3] Liv. 10, 38, 2-12: Deorum etiam adhibuerant opes, ritu quodam sacramenti vetusto velut initiatis militibus. Dilectu per omne Samnium abito nova lege, ut, qui iuniorum non convenisset ad imperatorum edictum quique iniussu abisset, eius caput Iovi sacraretur, exercitus omnis Aquiloniam est indictus. Ad quadraginta milia militum, quod roboris in Sannio erat, convenerunt. Ibi mediis fere castris locus est consaeptus cratibus pluteisque et linteis contectus, patens ducentos maxime pedes in omnis partier parties. Ibi ex libro vetere linteo tecto sacrificatum, sacerdote Ovio Paccio quodam, homine mango natu, qui se id sacrum repetere adfirmabat ex vetusta Samnitium religione, qua quondam usi maiores eorum fuissent, cum adimendae Etruscis Capuae clandestinum cepissent consilium. Sacrificio perfecto per viatorem imperator acciri iubebat nobilissimum quemque genere factisque; singuli introducebantur. Erat cum alius apparatus sacri, qui perfundere religione animum posset, tum in loco circa omni contecto arae in medio victimaeque circa caesae et circumstantes centuriones strictis gladiis. Admovebatur altaribus magis ut victima quam ut sacri particeps adigebaturque iure iurando, quae visa auditaque in eo loco essent, non enuntiaturum. Dein iurare cogebant diro quodam carmine in execrationem capitis familiaeque et stirpis composito, nisi isset in proelium, quo imperatores duxissent, et si aut ipse ex acie fugisset aut, si quem fugientem vidisset, non extemplo occidisset. Id primo quidam abnuentes iuraturos se obtruncati circa altaria sunt, iacentes deinde inter stragem victimarum documento ceteris fuere, ne abnuerent. Primoribus Samnitium ea detestatione obstrictis decem nominati ab imperatore; eis dictum, ut vir virum legerent, donec sedecim milium numerum confecissent. Ea legio linteata ab integumento consaepti,in quo sacrata nobilitas erat, appellate est; his arma insignia data et cristatae galeaeo, ut inter ceteros eminerent.

[4] Paul. Fest. 112, 15 Lindsay: Legio Samnitum (sic) linteata appellata est, quod Samnites intrantes singuli ad aram velis linteis circumdatam non cessuros se Romano militi iuraverant.

[5] E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, ed ital., Torino 1985, p. 282, con rinvio alle pp. 197-201.

[6] S. Tondo, Il sacramentum militiate…, “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 29, 1963, pp. 71-91.

[7] Considerato il disordine cronologico, che rende complessa la storia romana dei secoli V e IV a.C., ho usato la formula vulg. (= vulgata) per la data compresa nei suddetti secoli, nei casi in cui non si possiede un sincronismo greco o un’indicazione cronologica indipendente dalle oscillazioni dell’annalistica romana. Ho, invece riservato l’indicazione a.C. per la data, che in qualche modo si sottrae alle suddette implicazioni. Preciso che la lista dei collegi consolari, fissata da Marrone nel I secolo a.C. e generalmente accettata come vulg. (detta anche varr. = varroniana), contiene nove anni fittizi: cinque detti di anarchia militare e quattro dittatoriali.

[8] Liv. 9, 39, 5.

[9] Liv. 9, 40, 9.

[10] Plin. nat. hist. 34, 43.

[11] Liv. 10, 39, 2.

[12] Liv. 10, 39, 15-17. Cf. anche Liv. 10, 41, 1 e 3.

[13] [13] M. Sordi, Il giuramento della ‘legio lintata’ e la guerra sociale, in AA. VV., I canali della propaganda nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1976, p. 162.

[14] M. Sordi, op. cit., p. 164.

[15] M. Sordi, op. cit., p. 168.

[16] Il giuramento degli efèbi ateniesi è a noi giunto in varie redazioni, tutte del sec. IV a.C., ma il suo nucleo fondamentale è di certo più antico. Cito da Lyc. in Leocr. 77: “ Non disonorerò le armi sacre… combatterò per la difesa delle leggi divine e umane da solo o con molti; … ubbidirò ai magistrati e alle leggi stabilite e a quelle che il popolo di comune accordo vorrà stabilire”. La formula completa del giuramento si legge in Stob. 43, 28.

[17] Cf. Cic. De orat. 2, 52.

[18] Cf. G. De Sanctis, Problemi di storia antica, Bari 1932, p. 225.

[19] G. Tagliamone, I Sanniti, Milano 1996, p. 183, dove si legge altresì che il passo liviano è derivato da fonte antiquaria.

[20] Questa osservazione di L. Coarelli è riportata da G. Tagliamone, op. cit., p. 183.

[21] Cf. Storia antica. Come leggere le fonti, a cura di L. Cracco Ruggini, Bologna 1996.