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LA PASTORIZIA NEL COMPRENSORIO MONTANO DEL MATESE

 

(In Annuario ASMV 1993, pp. 55-70)

 

del Dottore Forestale Tito Angelini

 

Ambiente d’allevamento

 

Clima

Il comprensorio montano del Matese presenta caratteristiche climatiche alquanto particolari rispetto alle condizioni comuni all’Appennino meridionale. I fattori principali che contribuiscono a tale diversità sono l’altitudine e l’esposizione che influenzano fortemente le escursioni termiche, la ventosità, le precipitazioni.

I gruppi montuosi del Miletto-Gallinola e del Mutria, che sono orientati approssimativamente in direzione da NO a SE, si elevano bruscamente e si frappongono alle correnti d’aria umida provenienti dal 3° quadrante, determinando così un rapido raffreddamento delle masse d’aria con conseguente immediata precipitazione localizzata sui rilievi stessi.

Volendo definire genericamente il clima del comprensorio si potrà dire che esso è caratterizzato da un’elevata quantità e frequenza delle precipitazioni, da una accentuata escursione termica, sia stagionale che giornaliera e da una notevole ventosità. Nell’ambito di tali caratteristiche vi sono naturalmente diverse condizioni ambientali particolari che possono costituire, in ristrette aree meglio protette, dei microclimi locali più miti.

Per quanto riguarda la temperatura, i valori medi mensili per il periodo 1961-1965 presentano i minimi in Gennaio-Febbraio ed i massimi in Luglio-Agosto. L’escursione termica giornaliera risulta sempre accentuata: sono frequenti, in ogni stagione, differenze dell’ordine di 10-12 °C fra massimo e minimo, ma si registrano anche valori notevolmente più elevati, dell’ordine di 18-20 °C.

L’esame delle precipitazioni nel trentennio 1921-1950 mostra per il massiccio del Matese un quantitativo medio annuo di pioggia non inferiore ai 1.500 mm. I maggiori quantitativi di precipitazioni si rilevano alle altitudini più elevate (2.094 mm al Lago Matese-Brecce e 1.980 mm al Lago Matese-Scennerato) cui corrisponde anche la maggiore frequenza, pari a 123-124 giorni piovosi all’anno.

La distribuzione stagionale delle piogge è relativamente regolare (almeno in paragone ad altri bacini imbriferi): in quantità, il 34% cade in inverno, il 24% in primavera, il 10% in estate ed il 32% in autunno; in frequenza, i valori sono rispettivamente il 31%, il 29%, il 13% ed il 27%. Il mese più piovoso è, di norma, Novembre, cui seguono, nell’ordine, Dicembre, Febbraio (raramente Gennaio) e Marzo; il periodo più arido è Luglio nel quale non piove mai per più di 3-4 giorni.

Nel periodo invernale sono invece abbastanza frequenti le nebbie specialmente nella zona pianeggiante e pedemontana dei versanti settentrionali. Sul versante meridionale campano del Matese ricorrono a volte temporali e bufere di vento, a tale proposito va ricordato che detto territorio risulta particolarmente esposto a forti venti marini, fra i quali predominano quelli di ponente (ovest) mentre sul versante molisano sono dominanti i venti freddi di tramontana, greco (nord-est) e greco-levante.

 

 

Geologia e idrologia

Tra i maggiori massicci d’Italia meridionale, il Matese si individua facilmente nella sequenza appenninica per le sue particolari caratteristiche morfologiche. Da un basamento di contorno ellittico, esso si erge tra la valle del Volturno e quella del Biferno-Tammaro, con pareti ripidissime, fino a quasi 1.000 m.s.m. e si suddivide in sommità, nel senso longitudinale, in due grandi dorsali separate da un solco centrale e di altezza sensibilmente diversa. La parete più importante è quella nord-orientale, che contiene le cime più alte: M. Miletto (2.050 m), M. Gallinola (1.922 m) e M. Mutria (1.822 m).

Il massiccio, parte integrante del sistema calcareo che continua a nord con i monti della Meta e a sud con il M. Taburno ed il massiccio del Terminio, presenta ancora visibili tracce dell’azione glaciale.

Esso risulta composto principalmente da una compatta formazione calcarea attribuita al Cretacico, avvolta alle sue pendici da terreni arenaceo-argillosi del Terziario inferiore e da conglomerati di varia natura che si insinuano nella media valle del Volturno, fasciando il versante sud-orientale del massiccio e colmando alcune conche che si aprono lungo il solco centrale della montagna.

Le vette più alte del Matese rappresentano lo spartiacque tra i tributari del Tirreno e dell’Adriatico o, per meglio dire, si presume che esso costituisca una linea di separazione tra le acque destinate ad alimentare i fiumi che si originano sugli opposti versanti, in quanto nel senso della montagna vi sono varie zone senza deflusso superficiale, le cui acque raggiungono per vie naturali sotterranee o per condotte sotterranee gli affluenti del Volturno.

Il grande solco centrale si allargava già in origine in conche riempite parzialmente dai terreni terziari, su cui l’azione delle acque superficiali è stata molto intensa. Ovunque si può notare la loro azione meccanica e fisica che dà origine al tipico paesaggio carsico, formato da valloni rocciosi profondamente incisi, come la gola del Torano, il vallone dell’Inferno, le gole del Titerno e del Quirino, percorse da torrenti che proseguono l’approfondimento, da piani e ùvale carsiche più o meno vaste come quella di Gallo M., a poco più di 800 m di altezza, di Letino, a ca 900 m, delle Sécine, a ca 1.000m, del Lago Matese alla stessa altitudine ed inoltre varie cavità minori (Campo Rotondo, Camporuccio, Campo Braca, ecc.).

Numerose anche le doline (una delle più notevoli è quella sul M. Janara, a sud di Campo delle Sécine) e gli inghiottitoi (il più noto è quello in cui sprofondava il Lete nella gola di Letino, prima che la sua valle fosse sbarrata a monte con la creazione di un bacino di ritenuta).

Il Lago Matese, posto nel piano carsico di maggiore estensione, è stato trasformato, mediante l’esclusione degli inghiottitoi naturali, in bacino idroelettrico.

 

 

Aspetti vegetazionali

La vegetazione del comprensori non si distacca molto, nei suoi caratteri generali, da quella degli altri massicci dell’Appennino centro-meridionale.

Ai livelli inferiori (fino ad una altezza di 800-900 m circa), nelle zone ove campi coltivati e pascoli non ne hanno usurpato l’areale le pendici sono ricoperte di boschi. Nel settore che guarda verso il mare e nel versante sinistro idrografico della valle del Volturno, si riscontra una vegetazione del tipo della macchia mediterranea, con forte prevalenza di leccio (Quercus ilex) – specialmente sulle pendici nord-occidentali tra Monteroduni e Capriati – misto con essenze meno termofile come l’orniello (Fraxinus ornus), il bagolaro (Celtis australis), la roverella (Quercus pubescens), l’acero campestre (Acer campestre), il carpino nero (Ostrya carpinifolia). Nelle altre zone di questa fascia sub montana la foresta è più francamente mesofila con cerro (Quercus cerris), raro (causa la natura essenzialmente calcarea del terreno) castagno (Castanea sativa), maggiociondolo (Cytisus laburnum), biancospino (Crataegus spp.), prugnolo (Prunus spinosa).

Ai livelli superiori, dai 900-1.000 m al limite superiore della vegetazione, la foresta si presenta come faggeta quasi pura: impera il faggio (Fagus silvatica) sia sotto forma di alto fusto sia a ceduo più o meno degradato; si uniscono ad esso l’acero fico (Acer opalus), l’acero di monte (Acer pseudoplatanus), il frassino (Fraxinus excelsior), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), il sorbo montano (Sorbus aria). Raro il tasso (Taxus baccata) e più comune l’agrifoglio (Ilex aquifolium). Dell’abete bianco (Abies alba) di cui alcuni autori dann per certa la presenza sul Matese non resta che un piccolissimo nucleo, di non più di 10-15 esemplari che vegetano in fondo alla gola percorsa dal torrente Quirino.

La vegetazione delle radure e delle zone scoperte rocciose non si discosta molto da quella tipica per queste zone: scilla (Scilla bifolia), asfodelo (Asphodelus ramosus), asfodelino (Asphodeline lutea), Viola calcarata, ecc.

Al di sopra del limite di vegetazione arborea (in più parti tenuto più basso dagli interventi distruttivi dei pastori) una fascia di cespuglieti radi dominati da esemplari prostrati di ginepro (Juniperus communis nana).

I pascoli montani sono costituiti in genere da praterie a Sesleria apennina e Carex kitaibeliana, a Festuca violacea mentre sui brecciati attivi compare la vegetazione discontinua a Festuca laxa dimorpha e nei luoghi pietrosi più umidi e freschi il Brachypodium pinnatum glabrum.

 

 

L’allevamento ovino

L’economia rurale dei comuni del Matese è saldamente ancorata alla produzione ovina, per la quale esiste una lunga tradizione di allevamento e ancora oggi molte famiglie si dedicano a tempo pieno a tale attività. A dimostrazione di questo basta ricordare che nel versante Casertano vengono attualmente allevati oltre 35.000 capi ovini.

L’allevamento si svolge, secondo i metodi di una antica tradizione, prevalentemente in forme estensive (sistema pastorale puro), con spostamenti dai pascoli del Matese (utilizzati nel periodo estivo) alla sottostante pianura del medio Volturno dove gli animali pascolano nel periodo invernale. Soltanto il 20% del patrimonio ovino viene allevato a regime stanziale.

Gli ovini transumanti, pertanto, soggiornano sui pascoli del Matese per circa 6-7 mesi e per gli altri 5-6 mesi nella pianura del medio Volturno, ove vengono predisposti erbai che vengono venduti a prezzi altissimi, anche per la concorrenza che si genera fra gli allevatori – in media il canone d’affitto di un pascolo di pianura, per la durata di circa 6 mesi, oscilla tra £. 300.000 e poco più per ogni Ha –. Tali prezzi sono dovuti, maggiormente, a quello elevato del seme per i pascoli che, nella pianura del medio Volturno, sono costituiti essenzialmente da trifoglio incarnato, il cui seme viene venduto, dal Consorzio Agrario di Piedimonte Matese, a 220.000 £/q. Addirittura, per l’affitto di 1 Ha di erbaio, per un periodo di 5 mesi, sono state pagate £.480.000. Da qui la tendenza a rendere gli allevamenti quanto più possibile stanziali, favorendo il sorgere di idonee e valide attrezzature e di ricoveri per il bestiame e per il personale di custodia.

Il Matese Casertano presenta una situazione sociale particolarissima che si ripete nelle zone situate a cavallo tra il Lazio e l’Abruzzo.

In tutti i casi di transumanza verticale generalmente il pastore risiede in pianura, dove ha i suoi possedimenti, ed in estate prende in affitto i pascoli montani dove poi transuma con gli animali. Nella zona Matesina accade l’inverso, cioè, il pastore durante l’anno risiede abitualmente in montagna ove, non lontano dal paese, ha la sua abitazione, una struttura molto semplice con annessa la stalla per gli animali; d’inverno tali pastori affittano i pascoli di pianura dove portano a svernare il loro bestiame.

Quanto detto mette in evidenza che sul Matese si verifica una sorta di “transumanza inversa”.

Ai giorni nostri la transumanza verso le pianure pugliesi è del tutto abbandonata – l’ultimo viaggio verso la Puglia è stato effettuato nel 1975 da un pastore di S. Gregorio Matese – per il ridotto numero delle greggi e perché quasi tutti hanno la possibilità di usufruire di pascoli locali.

Esiste perciò una cosiddetta “transumanza verticale”, a distanza ravvicinata, che mette in comunicazione la montagna con la pianura sottostante. I pastori posseggono o affittano, degli alloggi in pianura, pertinenti ad appezzamenti di terreno, che utilizzano per poter svernare in condizioni meno sfavorevoli.

Tale usanza ha origine preistorica, in quanto già praticata dai Sanniti – antica popolazione della zona Matesina –, che installavano i loro insediamenti in collina, a mezza costa in montagna e così all’avvicinarsi dell’inverno potevano giungere abbastanza rapidamente in pianura e, a primavera, anche l’alta montagna era facilmente raggiungibile.

Gli spostamenti tra monte e piano e viceversa avvengono, forzatamente, con l’ausilio di veicoli, perché la S.S. 158 che collega il Matese con la pianura del medio Volturno è tortuosa e congestionata dal traffico ed inoltre non si usano più le strade secondarie per effettuare il trasferimento a piedi.

 

 

Aspetti socio-economici

Per secoli la pastorizia con l’agricoltura è stata la base dell’economia locale, e l’allevamento ovino ha avuto prevalenza su quello suino e bovino.

Come già detto l’allevamento ovino segue un ritmo ben determinato, mantenutosi pressoché immutato nel corso dei secoli. Già verso Febbraio-Marzo, quando non operano ciascuno per conto proprio, in tal caso la pratica pastorale non differisce da quella che verrà descritta, due o più pastori promuovono una riunione e stabiliscono le basi della società tra loro: bivacco, tempo di permanenza del gregge sui fondi rustici per la stabbiatura, spartizione del latte e dei prodotti caseari, fornitura degli utensili per la caseificazione e di quelli per le esigenze della piccola comunità.

In Maggio, unite le greggi, transumano. Pur se partecipa alla società con minor numero di ovini, il pastore ha diritto ad un periodo di mandriato (sorveglianza degli animali al pascolo) uguale a quello degli altri.

I giorni del latte e quelli dei prodotti caseari vanno assegnati a rotazione in rapporto al numero di capi lattiferi posseduti da ciascun pastore.

La giornata è quanto mai laboriosa per i pastori. La levata è fissata intorno alle quattro.

Al mattino, i pastori contano i capi e li sospingono in fila nel corridoio del recinto oltre il quale uno o più uomini assisi su trespoli, provvedono alla mungitura. L’orlo della “secchia” presenta per metà un prolungamento (spénna), che protegge il mungitore dagli spruzzi di latte. Quando la “secchia”, un tempo in legno, oggi in lamiera zincata, è quasi colma, ne vuotano il contenuto in un più capiente paiolo di rame stagnato all’interno, attraverso un imbuto reso filtro dalla disposizione embricata di felci. La resa, di circa 250 cc di latte per capo nel mese di Maggio, va riducendosi fino a 60-70 cc in Agosto-Settembre. Per tale motivo il giorno di S. Pietro (29 Giugno), i pastori sostituiscono il grosso paiolo con uno di più modesta capacità.

Portata a termine la mungitura, mentre alcuni lavano i secchi, i caciai (casèri) specializzati nella lavorazione del latte, con un asse di legno, sollevano e sospendono ai fori di due assi verticali, conficcate nel terreno, il paiolo al fuoco.

Dopo 15-20 minuti rimuovono il contenitore, aggiungono al latte il caglio, nella dose di un cucchiaio per quindici litri, rimestano e lasciano riposare. Quando la cagliata ha preso corpo la rompono, col mestatoio, per separare la parte sierosa, e poi con le mani restringono la parte solida e la ripongono a scolare nelle fiscelle, disposte in ordine sul timpano.

La resa in Maggio è di ca 1 Kg di pasta per 4 l di latte, in Agosto, anche se la produzione del latte è minore, la resa è maggiore.

Altrettanto complessa e delicata è la produzione della ricotta. Il pastore, collocato il recipiente sul fuoco, rimescola velocemente il siero, e provoca al centro del liquido il vortice e la raccolta dei frustoli residui, che asporta con molta cura rimestando lentamente.

La schiuma e frustoli di pasta salgono in superficie e vengono prontamente allontanati con lo schiumino. Il pastore aggiunge una piccola quantità di latte fresco per rinforzare la ricotta e riprende a rimestare, sempre lentamente, asportando successivamente la schiuma e continuando a rimestare finché in superficie non compare la ricotta. A questo punto si toglie il mestatoio per non rompere l’omogeneità del prodotto che altrimenti diventerebbe granuloso, duro e poco compatto. Ai primi segni di ebollizione, si ritira il paiolo dal fuoco, si raccoglie la ricotta con lo schiumino e la si ripone nelle fiscelle a forma tronco-conica di vimini. Il siero mescolato a crusca sarà cibo per i cani. All’alba i familiari di quel pastore che secondo i patti ha diritto ai prodotti caseari, si portano al bivacco e ritirano quanto è di loro spettanza. Dopo dodici ore cospargono il formaggio con sale; dopo due o tre giorni sformano le caciotte, le dispongono a seccare su una tavola sospesa al soffitto e le rigirano giorno per giorno. Quando il formaggio è secco lo ungono con olio misto a poche gocce di aceto e ripetono l’operazione ogni settimana fino a quando il formaggio non assorbe più.

Ai fini commerciali il cacio di un giorno è considerato pasta, quello di quattro o cinque fresco, fino a 20-30 giorni “scamusciato”, oltre secco.

Ovviamente col passare dei giorni, la riduzione di peso, per perdita di acqua, implica in proporzione un aumento del prezzo.

Dopo la mungitura i pastori mangiano la ‘mpanata (frugale pasto a base di pane e formaggio) e poi quello di turno, col tascapane a tracolla e con il lungo bastone, conduce le pecore al pascolo. Il pascolo inizia verso le 9, in Maggio, perché le erbe fresche per la rugiada recano danno agli ovini; nei mesi successivi, inizia invece allo spuntar del sole, per l’arrivo precoce delle ore calde.

A capo del branco l’agnellone, opportunamente addestrato, fa da guida al suono di una campanella e regola il percorso degli ovini che lo seguono.

Le categorie ovine vengono così suddivise: agnelli fino a cinque mesi, “ciavarre” fino a sedici mesi, “chiupparole” fino a due anni, e, da due anni in poi, “apparate”; le pecore senza latte vengono definite “streppe” ed i maschi “muntuni”.

Altro ausiliare è il cane. Di taglia media, robusto, ha il pelo bianco. Protetto (ora raramente) contro il morso dei lupi da un collare a punte metalliche, svolge i compiti di guardia, difesa e raccolta del gregge.

Nelle ore di massima calura il pastore raggruppa le pecore in sito ombroso e nelle ore pomeridiane le separa e le risospinge al pascolo, fino al tramonto.

A sera, con gli altri, il pastore conta i capi, chiude nel recinto separato le pecore “streppe”, munge quelle lattifere e raccoglie il latte nel paiolo, che sospende per precauzione a due alte forcine. Poi, dopo il ristoro dell’ultimo semplice pasto, ha termine la laboriosa giornata.

La tosatura va di regola praticata in Maggio e Settembre. La prima dà la lana maggiaiola, in rapporto di 700 grammi a pecora, la seconda dà lana settembrina, meno pregiata “meza lana”, in ragione di g 250 a capo (tali produzioni sono quelle che si avevano dalle pecore dell’antica razza locale Quadrella).

Poiché lo stame è incrostato di melma, precede la tosa un bagno di pulizia, in una delle tante pozze, lungo il corso dei torrenti.

Il giorno della tosa il pastore con abile e rapida mossa, afferra la pecora, ne lega le zampe, e con una mano le immobilizza il capo premendone il collo contro la propria gamba omolaterale e manovrando con l’altra mano le cesoie, le tosa il velo.

A settembre i pastori liberano i montoni dal grembiule e così rendono possibile l’accoppiamento con le pecore.

All’inizio di Ottobre o poco oltre se il tempo è clemente, i pastori sciolgono la società e si separano; da quel momento ciascuno per suo conto, provvederà al proprio gregge.

Tuttavia, sotto l’aspetto strutturale e organizzativo si evidenziano soprattutto aziende agro-pastorali autonome, a conduzione diretta del coltivatore, specializzata prevalentemente nella produzione del latte ed in via subordinata di quella della carne (l’agnello leggero).

Le condizioni che concorrono a non abbandonare l’ovinicoltura sul Matese sono dettate dal favorevole prezzo della carne d’agnello – prezzo che, quando il mercato è particolarmente favorevole (soprattutto durante le festività Natalizie) raggiunge le 6.000-6.500 £/Kg p.v., (tale prezzo può comunque ridursi fino alle 5.000 £/Kg. p.v.) –, sufficientemente remunerativo e parzialmente svincolato dai problemi della concorrenza per la preferenza che i consumatori hanno verso un tipo di agnello leggero, prodotto in genere solo nel Mezzogiorno d’Italia. Tali agnelli vengono macellati ad una età oscillante tra i 30 e i 40 giorni quando hanno raggiunto un peso variabile tra i 12 e 13 Kg.

Altra condizione favorevole è il prezzo del formaggio pecorino, normalmente buono, anche se non esiste un prezzo fisso per questo prodotto. Il prezzo della classica “caciotta” del Matese varia dipendendo da diversi fattori: annata di produzione, allevamento, domanda del mercato e, ovviamente, dal grado di stagionatura.

Il formaggio di due giorni ha un prezzo di 4.500-6.000 £/Kg; il formaggio di 5-6 giorni ha un prezzo di circa 10.000 £/Kg; il formaggio di 10-15 giorni viene venduto a 12.000-13.000 £/Kg; infine, il formaggio più stagionato, usato secco, per grattugiarlo, costa circa 15.000 £/Kg. Tale formaggio è generalmente, di buona qualità elevata e laddove si è riusciti ad accumulare esperienza, capacità e tradizione, come, ad esempio, nel comune di S. Gregorio, esso è addirittura eccellente.

Ai nostri giorni ha del tutto perso importanza una terza, caratteristica produzione delle pecore: la lana. Essa non ha quasi più mercato, sebbene fino a circa due secoli fa la zona del Matese fosse un importante e rinomato polo di produzione e di lavorazione della lana.

Fino a circa due anni fa il prezzo della lana, alla produzione, era di circa 1.000 £/Kg, oggi si aggira sulle 400-500 £/Kg.

 

 

Genotipi animali

Circa la popolazione ovina presente si può affermare che essa è derivata dalla vecchia razza locale “Pagliarola” o “Quadrella”, su cui hanno agito, nel corso del tempo, arieti di razza diverse – Comisana (originaria della Sicilia), Langhe (Piemonte), Massese (Toscana), Laticauda (Campania), Barbaresca (Sicilia) – importate per far fronte, a seconda del momento economico, alle più impellenti richieste del mercato.

Per rispondere alle esigenze degli allevatori (migliorare la produzione del latte senza perdere l’attitudine alla produzione della carne) la Sezione di Foggia dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnica, su interessamento del CE.Z.I.C.A (Centro Zonale di Informazione e Consulenza in Agricoltura), ex N.A.T. (Nucleo di Assistenza Tecnica), di Piedimonte Matese (CE), ha elaborato un programma di miglioramento razzologico per l’ovinicoltura del Matese casertano da svolgere nel quinquennio 1980-84 che, per vari motivi, non è stato pienamente realizzato.

Dopo aver vagliato varie ipotesi sulle razze incrocianti, è stato consigliato di dare esecuzione ad un incrocio continuato di sostituzione con la razza ovina delle Langhe: ciò allo scopo di non perdere la mole e la conformazione degli ovini locali e per immettere sangue di una razza più produttiva per il latte, essendo la razze delle Langhe una derivata della pecora della Frisia che, purtroppo, così come tale, ha ripetutamente dimostrato nei vari ambienti d’Italia e delle Isole in cui è stata importata di non potersi ambientare.

Si è deciso di adoperare questa razza per poter fruire quindi di un certo patrimonio genetico che, seppur affievolito dal tempo, è pur sempre una caratteristica da non sottovalutare, ma da rivalutare.

Si effettuarono perciò i primi tentativi di esperimento con la formazione di alcuni gruppi di monta, costituita da 40 pecore cadauno ed affidate ad un ariete della predetta razza.

A tale scopo furono acquistati tramite l’APA (Associazione Provinciale Allevatori) di Cuneo i relativi riproduttori che, mediante sorteggio furono distribuiti agli allevatori aderenti alle prove. I primi risultati ottenuti non furono però molto soddisfacenti perché durante il corso delle prove negli allevamenti prescelti si manifestarono vari episodi di malattie infettive ed infestive.

Nel 1981 furono acquistati 20 montoncini della razza ovina delle Langhe ed in Settembre-Ottobre furono programmati venti gruppi di monta della consistenza di circa 40 femmine ed un maschio presso venti allevamenti.

La giovane età dei riproduttori impiegati (non avevano ancora raggiunto un anno di età) non ha permesso di ottenere risultati soddisfacenti che anche per l’eccessiva onerosità degli impegni richiesta dai controlli dalla monta alla nascita dei giovani soggetti.

Quasi tutti gli allevatori, inoltre, opposero rifiuto alla formazione dei gruppi di monta, in massima parte a causa del sistema transumante da essi adottato e dalla conseguente impossibilità di poter tenere isolati i gruppi di monta per circa un mese, durata dell’operazione.

Quindi si è rinunciato alla costituzione dei gruppi di monta, anche in seguito ad una loro riconsiderazione tecnica che li ritenne non indispensabili. Ancora si verificò il decesso del 20% dei riproduttori a causa di un difficile acclimatamento.

Nel corso dell’anno, come pure nei seguenti anni di durata del piano furono predisposti degli interventi di profilassi igienico-sanitaria per gli allevamenti interessati dal piano.

Durante il 1982 furono tenuti corsi di aggiornamento per gli allevatori sia sugli aspetti zootecnici che sanitari del programma, a carico del CE.Z.I.C.A di Piedimonte Matese.

La seconda parte del piano di miglioramento che, seguendo le orme della prima, sarebbe dovuta partire nel 1984, non ha mai visto la luce a causa dell’improvvisa revocazione dello stanziamento di fondi da parte della Regione Campania, per cui la situazione è piombata nel caos. Gli arieti sono rimasti negli allevamenti a cui erano affidati, e qui, gli allevatori hanno continuato a far accoppiare le loro fattrici anche con arieti di altre razze, Massese in modo particolare. Il motivo fondamentale dell’impiego di arieti di Massese è dato dal fatto che l’agnello leggero derivante dall’incrocio con la Massese ha un indice di resa alla macellazione superiore a quello fornito da agnelli derivanti dall’incrocio con la razza delle Langhe e, pertanto, gli allevatori, preoccupati di ottenere un vantaggio immediato, piuttosto che un vantaggio a lungo termine – dato ovviamente dal miglioramento della popolazione –, hanno favorito il ripristinarsi di quelle stesse condizioni che intendevano eliminare con l’applicazione del piano di miglioramento.

Allo stato attuale, anche se non è stata più svolta alcuna indagine, si dà certa la scomparsa di circa il 90% degli arieti delle Langhe introdotti per la realizzazione del piano e anche per il restante 10% la sorte è segnata.

 

 

Prospettive future

Il futuro dell’ovinicoltura è legato alla preparazione e successiva attuazione di un piano organico di sviluppo che promuova e coordini gli interventi. In primo luogo l’impresa agricola impegnata nella produzione ovina richiede una politica di ristrutturazione delle aziende e degli allevamenti che tenga conto delle realtà economiche-sociali esistenti. Un luogo primario in questo quadro dovrebbe essere svolto dall’associazionismo nelle sue diverse forme.

Va poi considerato che la possibilità di sviluppo della produzione ovina dipende in misura sensibile dalla disponibilità di foraggio e di altri alimenti a basso costo. Ed in questo contesto si inserisce il problema dell’irrazionale sfruttamento dei pascoli demaniali da parte delle greggi, nonché l’impoverimento della cotica erbosa naturale per l’eccessivo carico di bestiame e la conseguente, costante, erosione della stessa.

Il problema va risolto con l’istituzione del pascolo turnato e con degli interventi di natura tecnico-agronomica. Le iniziative da realizzare possono essere sintetizzate nel seguente modo:

 

Ø     diffusione di nuove tecniche di produzione di prati-pascoli polifiti per terreni asciutti;

 

Ø     adozione di tecniche per il miglioramento e la ricostruzione della cotica erbosa esistente (erpicatura + concimazione perfosfatica);

 

Ø     utilizzazione dei pascoli in modo razionale.

 

Altri obiettivi del piano di sviluppo possono essere così definiti:

 

Ø     incrocio fra razze per incrementare e migliorare la produzione del latte e della carne;

 

Ø     aumento della fecondità e della prolificità delle pecore;

 

Ø     miglioramento dello stato sanitario con un maggior ricorso agli Istituti Zooprofilattici da parte dell’allevatore, nonché una migliore organizzazione e maggiore snellezza di compiti da parte degli stessi istituti;

 

Ø     riorganizzazione aziendale in quanto esistono condizioni negative per lo sviluppo come le strutture e le dimensioni delle aziende, la cui evoluzione richiede la rimozione delle cause che la ostacolano, relegando tali aziende ai margini dell’economia e mantenendola ad un livello artigianale che esce sempre più dal tempo.

 

Bibliografia

 

CNR, Atlante delle razze ovine, 1983

GEOTECNECO-ENI, Carta della montagna, 1977

 

 

 

Note:

Si ringraziano:

-         Prof. Dante B. Marrocco, dell’Associazione Storica del Medio Volturno.

-         Per. Agr. Gennaro De Michele, del CE.Z.I.C.A. di Piedimonte Matese (CE)

-         Il personale della Stazione del Corpo Forestale dello Stato di Piedimonte Matese: Mar. Magg. Sc. Angelini Silvano, G. Sc. Verrecchia Ernesto, G. Sc. De Lellis Alfonso.

-         Tutti gli allevatori interpellati.

 

Lo studio è stato effettuato nell’estate 1987 ed i prezzi riportati sono da risalire a tale periodo.

 

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