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Il sequestro di don Nicola Coppola,

 

giudice regio a Piedimonte D’Alife

 

di Alberico Bojano

 

 

Nell’estate del l86l, con l’Italia costituita da pochi mesi, comparvero sul Matese le prime bande di uomini che, inneggiando al ritorno dei Borbone, si opponevano con la forza al nuovo Regno.

Tra i tanti paesi assaltati e messi a fuoco, nell’agosto di quell’anno fu colpito anche Guardiaregia, sulle pendici del Matese molisano. Durante quell’attacco di briganti si distinse un giovane soldato sbandato([1]) nativo proprio di quel paese: Libero Albanese.

Dopo quell’episodio egli non tornò ad una vita normale, restando sul Matese a fare il brigante. Trascorse l’inverno del 1861 e tutto il ‘62. Agli inizi del 1863 l’autorità si accorge che Libero Albanese non é un brigante qualsiasi: si tenta di catturarlo, ma l’agguato fallisce, per cui viene spiccata una taglia di 10.000 lire per chiunque lo prenderà, vivo o morto.([2])

 

La banda armata

In quella primavera Libero Albanese riveste, non si sa per quali imprese, il ruolo di capobrigante, ed organizza una sua banda raccogliendo intorno a sé gli elementi  più determinati, superstiti di quelle formazioni che hanno acceso la miccia della reazione unitaria sul Matese, ma che hanno visto cadere la prima generazione di capibanda o perché rinunciatari (Ferradino, Dell’Ungaro, Michelangelo Albanese, Sartore) o perché eliminati dalla repressione (Varrone, Cecchino, Raffaele De Lellis, Di Lello).

L’uomo che si mette subito al fianco di Albanese è Giovanni Civitillo, di Piedimonte.

È una testa calda di 24 anni, che ha militato per due anni nella banda di Raffaele De Lellis, detto Padre Santo,([3]) col quale si è guadagnato il soprannome di Giovanni senza paura.

Quando Padre Santo viene ucciso, nel novembre del ‘62, Giovanni sta per un po’ nella banda di Salvatore Dell’Ungaro, poi con Cosimo Giordano, e infine decide di mettersi agli ordini di Libero Albanese.

I due fanno opera di proselitismo su un’altra testa calda di Piedimonte. È un carbonaio di 20 anni, Giovangiuseppe Campagna, soprannominato russo per il colore dei capelli,([4]) più volte arrestato per aver costruito delle carbonaie abusive e perché manutengolo della banda di Salvatore Dell’Ungaro.([5])

Nella veste di manutengolo è stato conosciuto da Albanese e Civitillo i quali, intuito che del russo ci si può fidare, lo assoldano.

Egli, tra l’altro, non ha buoni esempi neppure in famiglia. Suo padre, Diodato Campagna, viene arrestato proprio in quei giorni del luglio ‘63, e dopo quasi un anno di carcere viene spedito in domicilio coatto a Cagliari.([6])

Ma perché Libero Albanese ha deciso di mettersi in proprio? Rispetto ad altri capibanda ha una visione geograficamente più ampia del territorio su cui agire: ha in mente una formazione agile che non si limiti ad un’area ristretta, ma che possa operare nei circondari di Piedimonte, Cerreto e Isernia, e che possa fruttare il massimo denaro possibile in breve tempo, senza grossi pericoli, così da abbandonare per sempre quella vita rischiosa. Ha bisogno perciò di uomini sicuri, che abbiano esperienza di guerriglia maturata in precedenti azioni di brigantaggio. Assolda cosi un altro piedimontese, Filippo D’Onofrio, 23 anni, detto cancelliere,([7]) e due soldati disertori del 40° Fanteria “Bologna” di stanza a Piedimonte; sono Vincenzo Gallozzi, di Avezzano([8]) e Gerardo Autunnale, di Vignola,([9]) il quale aveva già operato nella banda di Salvatore Dell’Ungaro insieme a Civitillo e Campagna.

L’Albanese aveva costituito dunque una buona formazione, esigua ma affiatata.

L’intero Matese viveva drammaticamente quei primi anni di brigantaggio: i malviventi avevano assaltato paesi, ucciso militari e civili, messo in atto rapimenti e ricatti.

La risposta dello Stato era venuta con la cosiddetta Legge Pica, emanata nell’agosto 1863, che metteva praticamente in stato di guerra tutte quelle zone del Meridione d’Italia in cui si era manifestato il brigantaggio. Mentre si avvicina l’inverno del ‘64 Albanese è mimetizzato con i suoi uomini nei dintorni di Piedimonte, dove imperversa la banda di Liberato Di Lello([10]) che tiene occupata la forza pubblica. Egli ha cosi modo di stringere rapporti con una fitta rete di manutengoli di Piedimonte, tutti del quartiere S.Giacomo.([11])

Sono Filippo, Vincenzo e Pasquale Pecoraro, la moglie di questo Maria Carmina Valente, che è anche l’amante del brigante Autunnale, Costanza Grande e sua cognata Benedetta Tortorelli con il marito Domenico Ruscetti.

Nel febbraio 1864 la banda Albanese è segnalata sul versante Ovest del Matese, a Valle Agricola, dove è intercettata dai militi ma, nonostante la neve fresca, riesce a fuggire.([12]) Si dirige verso Camporuccio e prosegue questo curioso itinerario superando i monti sopra S. Gregorio. La comitiva si sta spostando, in pratica, da Ovest verso Est, restando però sulla montagna, in pieno inverno: questo è un comportamento inusuale per le bande, che preferivano svernare nella meno rigida temperatura della pianura.

Ai primi di marzo i briganti sono segnalati nella zona dell’Arito.([13]) È una località di montagna da cui si può raggiungere in poco tempo, ma soprattutto al riparo da occhi indiscreti, direttamente l’abitato di Piedimonte, percorrendo l’impervio fondo del Vallone dell’ Inferno.

Perchè Albanese ha compiuto nei due mesi più rigidi dell’inverno questo lungo itinerario, simulando un allontanamento da Piedimonte lungo la pianura verso il venafrano, e tornandovi invece silenziosamente dai monti del Matese?

Ha organizzato una azione brigantesca in grande stile: non un assalto militare, giacché non ne ha la forza, ma un sequestro a scopo di estorsione. Per fare ciò può contare su tre fattori: gli uomini adatti, una fitta rete di manutengoli, la giusta vittima. Questa è stata attentamente prescelta.

È don Nicola Coppola, ricco proprietario e facoltoso membro di una delle famiglie più importanti di Piedimonte. È un notabile rispettato, che non si è impegnato politicamente nella cosa pubblica.

Figlio del ricco Onofrio Coppola, Nicola era nato a Piedimonte nel 1797. Laureatosi in legge a Napoli era tornato a Piedimonte per curare gli interessi di famiglia, oltre che per esercitare l’incarico di giudice regio. Fece viaggi in Puglia ed a Roma, dove assisté al ritorno di papa Pio VII dopo l’esilio imposto da Napoleone.([14]) Nel 1833 sposò a Caserta donna Teresa Carola, restando comunque a vivere a Piedimonte nella casa di famiglia, il cosiddetto Casino Coppola, situato un pò fuori dal centro, oltre il Seminario.

Non ebbe figli. Si dedicò ad operare nel sociale fondando l’Istituto Immacolata Concezione, un orfanotrofio([15]) che fu per molti anni anche una scuola femminile gestita dalle Figlie di Carità che si dedicarono all’assistenza dei poveri e degli ammalati.([16]) Uomo di profonda cultura, schivo, nel clamore degli eventi postunitari rimase sempre in secondo piano, pur essendo di orientamento progressista e dunque vicino ai liberali antiborbonici. Con questi divideva l’amicizia e le serate, trascorse in casa di qualche gentiluomo a bere un liquore, fumando il toscano e discorrendo di politica.

È appunto don Nicola l’uomo giusto da rapire per ottenere un riscatto talmente cospicuo da permettere il ritiro dall’attività su cui da tempo rimugina il capobanda Albanese.

 

Il sequestro

Il 15 marzo del 1864 era un martedì. Don Nicola, 66 anni, dopo aver trascorso la serata con amici in casa Pitò, si ritirava a piedi accompagnato da un domestico. Erano quasi le ventitré. Giunto nei pressi di casa sentì la moglie e la sorella che dalle finestre gli urlavano di scappare, perchè c’erano i briganti in agguato.([17]) Pochi secondi di fuga e cinque, sei uomini gli furono addosso. Sotto la minaccia delle armi don Nicola e il suo domestico furono catturati e condotti a passi rapidi verso l’oscurità della montagna.

Le due donne dettero subito l’allarme, avvisando il Delegato del Circondario ed il Sottoprefetto di Piedimonte Dainelli.

La notizia del sequestro del giudice Coppola sveglia i galantuomini nel tepore dei loro letti. Dainelli, che ha fama di duro, nel giro di due ore fa partire verso direzioni diverse gruppi di soldati della truppa di stanza a Piedimonte, Guardie Nazionali, Guardie di Pubblica Sicurezza e Carabinieri Reali.([18])

Per Dainelli è un duro colpo. I briganti non hanno colpito nel mucchio come finora hanno fatto, ma hanno mirato in alto, e d’inverno, e poi proprio in città, dove ci sono militari ad ogni angolo di via, dove c’è il carcere e l’ospedale perennemente sorvegliati.

Proprio nella notte del sequestro Coppola era prevista un’ampia perlustrazione della zona. Dainelli l’aveva orchestrata insieme con i militi di Piedimonte, con una compagnia della truppa inviata a S. Angelo e con le Guardie Nazionali ed i Carabinieri di Alife. Il motivo?

C’è da dire che l’orientamento dei notabili locali, primo fra tutti don Achille Del Giudice, consigliere provinciale e già Maggiore della Guardia Nazionale di Piedimonte, era quello di trattare con i briganti, convincerli a costituirsi in cambio di sconti di pena.

Dainelli era invece per la linea della fermezza, ma aveva assecondato queste direttive e da mesi aspettava che Libero Albanese con i suoi pochi uomini venisse a consegnarsi. Cosi mentre Dainelli aspettava tra Piedimonte e S. Angelo, Albanese percorreva tranquillo il Matese senza timore di essere intercettato.

Quando Dainelli capì che le speranze di resa della banda erano svanite, allestì la perlustrazione per la notte del 15 marzo. Proprio nella notte in cui, non si sa se per caso o per dispetto, Albanese rapisce don Nicola Coppola.

Intanto, nel cuore di quella lunga notte, il domestico rapito con don Nicola fa ritorno a casa Coppola: i briganti vogliono soldi, molti soldi. Donna Teresa gli dà l’oro che è in casa e costui, a cavallo, si dirige subito verso il luogo stabilito dai briganti.([19])

A casa Coppola giungono frattanto anche il Delegato Mandamentale di Pubblica Sicurezza ed una guardia in borghese. Dainelli li ha piazzati lì in apparenza per rassicurare la famiglia, ma soprattutto per aspettare l’arrivo della persona che i briganti manderanno con la richiesta di riscatto.

Non sa che il messaggero è già arrivato, ed è pure ripartito.

Il Sottoprefetto Dainelli è un uomo di grande esperienza. È un toscano con un forte senso dello Stato e le doti di funzionario attaccato al dovere gli erano state subito riconosciute.([20]) Non si fida di nessuno: sa che la famiglia vorrà pagare senza essere intralciata dalla giustizia, né spera che i briganti incappino nella truppa che li sta cercando, nella notte, senza un solo indizio.

Il mattino dopo, comunicando al Prefetto di Caserta quanto accaduto, cosi scrive circa la perlustrazione in atto: ”(...) queste erano le disposizioni che la gravità e l’urgenza del caso suggeriva ed esigeva, ma non bisognava fermarsi lì, dappoichè non avendosi tracce sicure dei briganti, e del loro indirizzo, quelle Forze non potevano neppure avere scopo d’azione determinata (...)”([21])

Mentre scrive la truppa fa ritorno a Piedimonte. La perlustrazione è andata a vuoto. Anzi, a conferma di quanto da lui presagito, i militi gli raccontano che nella notte hanno intercettato il domestico di casa Coppola che, fornito di oro, si dirigeva ad un incontro con i briganti. I soldati si sono accompagnati a lui sperando nella buona sorte, ma dei briganti non s’è vista l’ombra.

A Dainelli non resta che interrogare il fedele domestico, che naturalmente non apre bocca.

Qualche cosa aveva ricavato invece poco prima da due giovani di Piedimonte, certi Marcellino Manzi e Antonio Ciaburro. Costoro, verso le ore dieci della sera prima, stavano percorrendo la stradina che collega Piedimonte al Casino Coppola, quando erano stati aggrediti da cinque uomini, che li avevano tenuti immobilizzati per circa un’ora, fino all’arrivo di altre due persone, che quegli uomini aggredirono, consentendo loro la fuga.

Ecco perchè le donne di casa Coppola, avvertite dal trambusto avvenuto lì vicino, erano alla finestra.

Nel buio dell’aggressione i due giovani hanno riconosciuto un solo brigante: è Giovanni senza paura, brigante di Piedimonte, membro della comitiva di Libero Albanese. Dainelli mastica amaro: ha avuto la prova che proprio il più arrendevole dei capibanda, di cui da mesi si attendeva la consegna, gliel’ha fatta sotto al naso.

Verso la mezzanotte del giorno successivo al rapimento, alla porta di casa Coppola bussano due uomini: uno è Gaetano Martino, dipendente di don Nicola, e l’altro è un pastore di S. Gregorio, certo Salvatore Caso.

Consegnano due biglietti, uno indirizzato alla moglie di Coppola ed uno per il Sottoprefetto Dainelli, ambedue datati 16 marzo ed ambedue scritti di proprio pugno da don Nicola.

Il Delegato Mandamentale e la guardia di P.S., che stazionavano in casa Coppola proprio in attesa di questa mossa, arrestano i due messaggeri, requisiscono i biglietti e corrono da Dainelli.

In quello diretto alla moglie don Nicola tranquillizzava la famiglia e indicava le richieste dei briganti: armi, commestibili, un cannocchiale, vari oggetti e la ingentissima somma di 80.000 ducati. Tutto da consegnare ai due latori “a costo d’ogni sacrifizio”.

Nel biglietto diretto invece a Dainelli, Coppola lo informava di essere nelle mani della banda di Libero Albanese, prigioniero sulle montagne dopo sette ore di cammino e lo invitava, dietro ordine del “Sig. Caporale” a non inviare lassù alcun militare.

Questa è proprio la mossa che Dainelli sta aspettando.

Egli si è fatto l’idea che: ”(...) la cattura del Coppola è esclusivamente intesa a far denaro e non sangue. Se vi è d’altronde caso di sorprendere i briganti è appunto quello dei ricatti, perchè mentre i briganti hanno, per sistema, interesse alla mobilità, quando tengono nelle mani un catturato e ne attendono la taglia hanno invece interesse a star fermi per conseguire il loro intento (...)”.([22])

Organizza immediatamente un gruppo di uomini guidato dai due emissari dei briganti. Per l’importanza che l’operazione riveste la pattuglia è folta: ci sono soldati della truppa, Guardie Nazionali, Carabinieri Reali e perfino alcune Guardie di Finanza, che Dainelli si è fatto prestare dal Sottoispettore alle Gabelle.

Mentre la spedizione sta per mettersi in marcia giungono alla Sottoprefettura i familiari di Coppola, che insistono per inviare ai briganti il denaro e gli oggetti richiesti. Esigono tale permesso per salvare la vita del loro congiunto. Tra essi c’è il medico don Vincenzo Coppola, cugino di don Nicola: già deputato nel ‘48 a Napoli e poi primo Sindaco di Piedimonte nel 1861,([23]) costui è uomo di primo piano nella vita politica di Piedimonte.

Ma Dainelli è fermo sulla sua posizione. Consulta il Comandante del Battaglione di Linea che è di stanza in città ed il Luogotenente dei Carabinieri Reali. Niente da fare: la spedizione s’incammina alle due di notte verso l’appuntamento con i briganti, cosí che possa giungere sul far del giorno al luogo stabilito, che è tra Valle Agricola e Camporotondo.

È la seconda notte di tensione e Dainelli è esasperato dallo smacco subìto e dal clima in cui è costretto ad agire. Da una parte c’è la popolazione che collabora apertamente con i briganti, dall’altra i notabili che insistono per patteggiare con le bande.

In quest’altra interminabile notte egli si lascia andare ad uno sfogo che rivela tutta la sua avversione per costoro: ”(...). Questa pietà sconfinata e sconsiderata verso dei malfattori rivela, a senso mio, una fiacchezza d’animo, con degradamento di moralità, che il Governo non deve affatto dividere; è suo debito provvedere alla Sicurezza Pubblica nei rapporti generali, nè può tener conto troppo minuto di paure o di lacrime compatibili sí, ma mosse da interessi ristretti (...)”.([24])

Giovedí 17 marzo la spedizione torna a mani vuote. Sul luogo dell’appuntamento i briganti si sono guardati bene dal mostrarsi e nonostante le ricerche effettuate, di loro non si è trovata traccia alcuna.

Trascorrono cosi i giorni senza avere nessuna notizia dei briganti. Dainelli si mostra fiducioso: finché riesce ad evitare che la famiglia paghi il riscatto, i briganti dovranno stare fermi in attesa e lui, insistendo con le perlustrazioni, riuscirà a trovare il giudice Coppola.

Ma intanto, persa l’occasione di piombare sulla comitiva a caldo, cioè subito dopo il sequestro, i fatti sembrano dargli torto.

 

La trattativa

In effetti i familiari di Coppola non sono restati con le mani in mano ed hanno stabilito un contatto con emissari della banda, all’insaputa della forza pubblica.

I Coppola posseggono una masseria in contrada Montecalvo, a circa tre chilometri dal Casino Coppola, sulla strada che porta a S. Angelo. Il colono che la conduce è un certo Matteo Settembrini, uomo di fiducia della famiglia. Costui, nei giorni immediatamente successivi al sequestro, viene mandato da don Vincenzo Coppola a pagare il riscatto. Insieme a due emissari della banda sale sul monte Ariola e consegna seimila ducati a sette briganti che aspettavano lassù.([25]) Ma la somma non è sufficiente.

Qualche giorno dopo Settembrini torna, nello stesso luogo, con altri cinquemila ducati. Chiede però di accertarsi che il suo padrone sia in vita: ha cosi modo di trascorrere due ore con don Nicola.([26])

Quando torna a casa porta finalmente la buona notizia in famiglia, ma necessitano altri mille ducati per accontentare i briganti. Intanto a Piedimonte si dice che Coppola, anziano, provato dalla fatica e dal freddo, sia morto; ma subito un’altra voce riferisce che invece egli sia ben vivo, ma tenuto prigioniero in una località molto lontana da Piedimonte, forse in Molise, forse verso lo Stato Pontificio.([27])

Siamo ormai alla fine di marzo del 1864.

Matteo Settembrini sale per la terza volta sull’Ariola con gli altri mille ducati del riscatto, ma vuole nuovamente incontrare il suo padrone. Cammina per ore, nella notte, con i briganti, nel freddo della montagna. Don Nicola è in un fosso, vicino ad un fuoco acceso, insieme a due briganti di guardia. È provato: ha dolori ad una gamba e ad un occhio.([28]) Settembrini ottiene di rimanere qualche giorno con lui.

Don Nicola gli racconta di mangiare pane, prosciutto, formaggio; l’acqua la ricava dalla neve liquefatta. Ci sono sempre tre briganti a sorvegliarlo, che si danno periodicamente il cambio con altri, per un totale di nove malviventi.([29])

Quando torna a casa Coppola, Settembrini non porta buone notizie: i briganti chiedono una somma pari a quella già ottenuta, cioè altri dodicimila ducati.([30])

Da questo momento i contatti con la banda si interrompono.

Tutto è avvenuto in gran segreto, tenendone all’oscuro soprattutto la forza pubblica ed il Sottoprefetto Dainelli, il quale il 27 marzo organizza una nuova perlustrazione generale sul Matese,([31]) naturalmente con esito negativo.

Per tutto il mese di aprile è un’altalena di voci che danno il Coppola ora morto ora vivo, prigioniero sulle montagne del Molise. Il 26 aprile viene istituito un posto di guardia militare in località Esule,([32]) alle pendici del monte Miletto.

Qualche giorno dopo è addirittura il Prefetto di Caserta, Carlo Mayr, che fornisce a Dainelli alcune notizie confidenziali che gli sono pervenute. Lo informa che un certo Andrea, colono del Coppola nella masseria Montecalvo, ha fatto da intermediario tra la famiglia ed i briganti, e si è trattenuto tre giorni in compagnia del suo padrone. Dunque, deduce il Prefetto, costui conosce il luogo dove è tenuto prigioniero don Nicola, e conosce le donne che riforniscono di viveri la comitiva “(...) le quali si asserisce siano madri, spose e sorelle dei briganti(...)”.([33]) Pare inoltre che le trattative con la banda siano condotte da un certo Coppola, parente di don Nicola, medico o farmacista.([34])

Il tono del Prefetto è cortese ma fermo. Traspare chiaramente tutta la sua irritazione per questo sequestro che si sta trasformando in una beffa per l’autorità. Perfino a Caserta circolano le voci più diverse sulla vicenda: si dice che il Coppola è trattato molto bene dai suoi carcerieri, si dice che il Prefetto “(...) ne aveva avute tranquillanti notizie(...)”([35]) e che il rilascio è imminente. Si dice che i briganti abbiano chiesto braccialetti e vari fogli di carta da bollo.([36])

Per Dainelli i rimbrotti del Prefetto sono come il sale su una ferita ancora aperta. La popolazione collabora con i briganti, i signorotti di Piedimonte sono tutti per la linea morbida della trattativa con i briganti, la famiglia Coppola porta avanti i contatti con la banda Albanese ed ora ci si mette pure il Prefetto, il quale gli fa garbatamente notare che, forse per una diminuita attenzione dell’autorità locale, la famiglia Coppola è riuscita a pagare una quota del riscatto e che alcune informazioni sono note a Caserta e sconosciute a Piedimonte.([37])

 

Agli inizi di maggio Dainelli verifica che buona parte delle informazioni suggeritegli dal Prefetto sono vere. Scopre che quel colono Andrea è in realtà Matteo Settembrini. Interrogatolo viene a sapere delle quote di riscatto pagate, degli incontri sull’Ariola, delle condizioni di salute di don Nicola. Settembrini nega però di aver riconosciuto alcun brigante o manutengolo.([38])

Dainelli è furente. Sa che il Settembrini è solo un messo della famiglia: la trattativa la porta avanti don Vincenzo Coppola, il medico. “(...). Se Ella crederà legale il loro arresto “scrive Dainelli al Prefetto” sarò ben lieto di farlo eseguire(...)”.([39])

Ne sarebbe felicissimo, ma sa che non si può sbattere in galera un personaggio come Coppola. E infatti conclude: “(...) Le confesso che mi sento più stanco che mai di trovarmi in mezzo a tanta immoralità pubblica. Qui il funzionario onesto e zelante è inutile, isolato com’è dalla popolazione e imbavagliato dalla legalità (...)”.([40])

Tutte le perlustrazioni operate dalla forza pubblica di Piedimonte, in collaborazione anche con i distaccamenti di Prata Sannita, S. Angelo d’Alife e perfino con la truppa del Circondario di Bojano guidata dal colonnello Gallotti([41]) hanno dato esito negativo.

Briganti e manutengoli, forti dell’impunità, si muovono disinvoltamente tra Piedimonte ed il Matese. Dainelli conosce i manutengoli, ed in particolare sospetta di una donna parente di un brigante.([42])

 

L’azione militare

All’alba del 4 maggio la truppa, protetta dalla nebbia che grava sulla zona,([43]) si porta alle pendici del monte Tagliaferro, dove intercetta un gruppo di briganti. Ne nasce un cruento scontro a fuoco. I briganti cercano di disperdersi, ma il fuoco della truppa non concede scampo. Passano le ore e le munizioni cominciano a scarseggiare: dal Tagliaferro la banda scende verso il Vallone dell’Inferno, e soltanto verso le ore 14 i soldati riescono ad avere la meglio.

Due briganti, sebbene feriti, riescono a fuggire.([44])Vengono catturati i manutengoli Filippo e Vincenzo Pecoraro e la loro cognata Maria Carmina Valente, di 25 anni.([45]) Un altro brigante resta ucciso. Indosso al cadavere i militi trovano una lettera di don Vincenzo Coppola diretta ad Albanese;([46]) convinti perciò di aver ucciso proprio il capobanda, gli tagliano la testa per portarla a Piedimonte quale prova della cattura. È prassi, infatti, che il macabro trofeo venga adeguatamente ricompensato, secondo la norma stabilita dal generale Pallavicini in persona.([47])

In realtà la testa appartiene al brigante Gerardo Autunnale, soldato disertore, amante di quella Maria Carmina Valente appena catturata. La donna, anziché perdersi d’animo, dichiara di essersi trovata casualmente in quel luogo e tenendo quella testa mozzata per i capelli, la porta fino a Piedimonte, ridendo e scherzando con i soldati per tutto il tragitto.([48])

A questo punto il cerchio si è inevitabilmente stretto attorno ai briganti. Dainelli può finalmente cantare vittoria. O quasi. Infatti Libero Albanese la soddisfazione di farsi catturare non gliela dà.

È molto probabile che, dopo lo scontro a fuoco nel Vallone dell’Inferno, i briganti trasferiscono l’ostaggio.

Ma ormai siamo a metà maggio. L’inverno è finito e le montagne del Matese si vanno popolando di pastori che tornano dalla pianura, di contadini che salgono alla fertile pianura del lago. Ci sono, insomma, troppi occhi indiscreti e le taglie che pendono su Albanese e compagni fanno sicuramente gola a qualcuno.

Il 17 maggio don Nicola Coppola viene rilasciato sulle montagne di Macchiagodena,([49]) nel Circondario di Isernia.([50])

Ha trascorso 62 giorni con i briganti e per gli stenti patiti ha perso la vista ad un occhio. Ma torna a casa con le sue gambe. Resta vivo il mistero di Albanese e dei suoi uomini.

Tra maggio e giugno vengono arrestate Costanza Grande e Benedetta Tortorelli.([51]) Insieme a Filippo D’Onofrio saranno condannate dal Tribunale Militare di Guerra di Caserta a 10 anni di lavori forzati perchè manutengoli della banda Albanese.([52])

Lo stesso Tribunale condannerà anche i manutengoli catturati nel Vallone dell’Inferno: 20 anni di lavori forzati a Maria Carmina Valente, rispettivamente 10 e 7 anni di reclusione per i fratelli Vincenzo e Filippo Pecoraro.([53]) L’altro manutengolo Domenico Ruscetti viene ucciso nell’agosto di quell’anno.([54])

E gli altri? Pasquale Pecoraro, detto Zafone, rimasto alla macchia, resta ucciso quattro anni dopo in uno scontro a fuoco presso Sette Frati, mentre cerca di scappare nello Stato Pontificio.([55]) Anche Domenico Valente viene ucciso. Di Domenico Gallozzi non si saprà più nulla.

Ben diversa la sorte di Giovanni Civitillo e di Giovangiuseppe Campagna.

Insieme danno vita ad una piccola ma affiatatissima comitiva. Già nel giugno di quel 1864 operano un nuovo sequestro, poi uccidono un manutengolo che sospettavano di tradimento.([56]) Nell’ottobre formano una grossa banda sotto il comando del capitano Andrea Santaniello, uno dei più noti capibanda del Matese.

Ma il loro destino è comunque segnato.

 

L’epilogo

Nel novembre 1866 Giovanni senza paura viene ferito in uno scontro a fuoco e catturato nei pressi di Alife. Interrogato, dichiara che il giorno dopo avrebbe fatto i nomi di tutti i manutengoli della banda; ma quella stessa notte muore, nel carcere di Piedimonte.([57]) Aveva 27 anni.

Giovangiuseppe il russo ha intanto capito che l’avventura del brigantaggio è finita. Nel maggio 1868 cerca di riparare nello Stato Pontificio,([58]) ma non gli riesce. Il 12 settembre si consegna alla forza pubblica di Sepino, in Molise. Viene rinchiuso nel carcere di Caianello e sette giorni dopo tradotto nel carcere di Caserta, dove è segnalato come “idiota”.([59]) È accusato di essere un capobrigante. Negli interrogatori dichiara di essersi dato al brigantaggio solo “per le mie cervella pazze”.

Morirà nel 1870 nel carcere di S. Maria Capua Vetere,([60]) all’età di 26 anni.

Resta infine il capobanda, Libero Albanese.

Dopo il burrascoso sequestro Coppola, egli sembra scomparso nel nulla. Si sparge la voce che sia stato ucciso dal capobanda Domenico Fuoco,([61]) ma tempo dopo viene segnalato nello Stato Pontificio.

Passano gli anni, il brigantaggio è ormai debellato, quando nell’estate del 1880, cioè 16 anni dopo, sui monti del Matese beneventano ricompare Libero Albanese insieme a Cosimo Giordano, il capo dei capi.

Operano un sequestro, ottengono il riscatto([62]) e scompaiono di nuovo.

E qui si perdono definitivamente le tracce di Libero Albanese. Forse è sceso a Napoli, oppure è andato a Nizza con Giordano. Probabilmente ha preso quel piroscafo per gli Stati Uniti, meta di tanti suoi conterranei, cui si guarda come unica speranza per sfuggire alla fame e alla miseria.

E di lui non si saprà mai più nulla.

Intanto don Nicola Coppola, riguadagnata la libertà ad un prezzo che non sarà mai accertato, se ne sta nella sua casa di Piedimonte. È ritornato agli affari di famiglia ed alle serate in casa di amici. Si mette a scrivere i ricordi della sua vita in un libricino autografo, nel quale narra, in terza persona, la biografia sua e dei suoi parenti. A pagina 14 racconta laconicamente: “(...) Ai 15 marzo 1864 fu catturato dai briganti ad ore 4 di notte lungo la strada Elci mentre si ritirava in casa dalla conversazione di Pitò, e fu trattenuto sulla montagna per 64 giorni restando colla perdita di un occhio e di più che 15 mila ducati (...)”.([63])

Invecchiò tranquillamente e morì alla veneranda età di 84 anni.

 

***

 

N.d.R.: Corre l’obbligo di precisare che, in questo lavoro, l’epilogo della vicenda resta purtroppo nel vago poiché alcuni documenti, tra i quali il verbale di deposizione dello stesso Coppola reso dopo il rilascio, non sono reperibili presso l’Archivio di Stato di Caserta, anche se sono regolarmente registrati sotto la voce: Prefettura, Gabinetto, Busta 258, fascicolo 2672.

 

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[1] Palumbo G.R. - “La formazione delle prime bande armate di reazionari nel mandamento di Cusano Mutri” - in: Rivista Storica del Sannio, 25/36, Anno II n° 3, Cerreto Sannita, 1985.

[2] Palumbo G.R. - “Cronologia del brigantaggio sul Matese” - in: Annuario 1977, A.S.M.V., Piedimonte Matese, 1977. (D’ora in avanti: Palumbo 1977, op. cit.). Pag. 220.

[3] Palumbo 1977, op. cit., pag. 222.

[4] Palumbo 1977, op. cit., pag. 225.

[5] Palumbo 1977, op. cit., pag. 225.

[6] Archivio Centrale dello Stato, Roma. - Tribunali Militari per il brigantaggio, Caserta. Busta 66, fasc. 859.

[7] Palumbo 1977, op. cit., pag. 220.

[8] Sangiuolo L. - “Il Brigantaggio nella provincia di Benevento 1860-1880” - Ricolo Ed., Benevento, 1975. (D’ora in avanti: Sangiuolo, op. cit.). pag. 322.

[9] Palumbo 1977, op. cit., pag. 215.

[10] Palumbo 1977, op. cit., pag. 216.

[11] Sangiuolo, op. cit., pag. 321.

[12] Palumbo 1977, op. cit., pag. 220.

[13] Palumbo 1977, op. cit., pag. 219.

[14] Archivio privato. Famiglia Scorciarini Coppola. Caserta.

[15] Coppola A. - “Lettere inedite di Vincenzo Coppola” - in: Samnium, n° 1/2, anno XIII, Benevento, 1940. Pag. 3.

[16] Marrocco D.B. - “Piedimonte” - Treves, Napoli, 1961. Pag. 323.

[17] Archivio di Stato, Caserta - Prefettura, Gabinetto. Busta 258, fasc. 2672. (D’ora in avanti: ASC, P.G.). Doc. 282.

[18] Come nota precedente.

[19] ASC, P.G. - Doc. 282.

[20] Del Giudice A. - “Documenti” - Tip. Nobile, Napoli, 1868. Pag. III.

[21] ASC, P.G. - Doc. 282.

[22] ASC, P.G. - Doc. 285.

[23] Giornale Officiale di Napoli - 18 luglio 1861. N. 170.

[24] ASC, P.G. - Doc. 285.

[25] ASC, P.G. - Doc. 2/5/1864.

[26] Come nota precedente.

[27] ASC, P.G. - Doc. 295.

[28] ASC, P.G. - Doc. 2/5/1864.

[29] Sangiuolo, op. cit., pag. 321.

[30] ASC, P.G. - Doc. 2/5/1864.

[31] Palumbo 1977, op. cit., pag. 199.

[32] Come nota precedente.

[33] ASC, P.G. - Doc. 4272.

[34] ASC, P.G. - Doc. 4260.

[35] Come nota precedente.

[36] Come nota precedente.

[37] Come nota precedente.

[38] ASC, P.G. - Doc. 2/5/1864.

[39] Come nota precedente.

[40] Come nota precedente.

[41] ASC, P.G. - Doc. 1/5/1864.

[42] ASC, P.G. - Doc. 2/5/1864.

[43] Sangiuolo, op. cit., pag. 321.

[44] Palumbo 1977, op. cit., pag. 221.

[45] Palumbo 1977, op. cit. pag. 220.

[46] ASC, P.G. - Doc. 4305.

[47] Sangiuolo, op. cit., pag. 322.

[48] Come nota precedente.

[49] Palumbo 1977, op. cit., pag. 221.

[50] Sangiuolo, op. cit., pag. 322.

[51] Palumbo 1977, op. cit., pag. 220.

[52] Sangiuolo, op. cit. pag. 350.

[53] Sangiuolo, op. cit., pag. 323.

[54] Palumbo 1977, op. cit., pag. 220.

[55] Palumbo 1977, op. cit., pag. 231.

[56] Palumbo 1977, op. cit., pag. 223 e pag. 226.

[57] Palumbo 1977, op. cit., pag. 224.

[58] Palumbo 1977, op. cit., pag. 232.

[59] Archivio di Stato, Caserta - Registro detenuti carcere di Caserta - Anno 1868.

[60] Palumbo 1977, op. cit., pag. 230.

[61] Palumbo 1977, op. cit., pag. 219.

[62] AA.VV. - “Brigantaggio meridionale e circondario Cerretese” - Atti del convegno - Ass. Socio Culturale Cerretese, Cerreto Sannita, 1988. Pag. 115.

[63] Archivio privato. Famiglia Scorciarini Coppola. Caserta.