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Rosario Di Lello

 

La caccia sul Matese tra storia e tradizione - (2)

 

L’attività venatoria, durante il Medioevo, venne dovunque svolta per necessità più che per svago.

Per quanto attiene il Matese, giova ricordare che il territorio subì le invasioni barbariche, le incursioni saracene, le continue lotte feudali. Avvilite da condizioni di indigenza e di penuria alimentare, le popolazioni, costrette da motivi di sicurezza al ricorrente pendolarismo pianura-montagna, riscoprirono nel fiume e nel lago, nel bosco e nell’acquitrino, inesauribili riserve di cibo. Il contadino-pastore, dunque, tutelato dal principio consuetudinario che la selvaggina era “res nullius”[1], dovette, per poter sopravvivere, saper trarre profitto dai lacci, dalle reti e dalle panie, non meno che dall’aratro e dallo stazzo in tempo di pace.

I tipi di caccia erano numerosi nel Medioevo. Il “livre de la chasse” descrive e minuziosamente illustra tutti gli espedienti messi in atto contro la selvaggina, fino al modo di mimetizzare i valletti sotto acconciature di frasche[2]. La cacciagione era tanto abbondante che una sola battuta ne procurava per molte settimane; eppure, i cacciatori procedettero con tanto impegno che, dopo qualche secolo, larga parte della selvaggina risultava sterminata[3].

I sistemi adottati nella zona, non altrettanto numerosi né raffinati, varianti di tecniche ereditate dai Romani, non differivano da quelli, all’epoca, conosciuti altrove[4].

Per la caccia ai quadrupedi, oltre ai “cani conduttori”, tenuti al guinzaglio e spinti da battitori a cercare la preda, venivano impiegati i segugi (segusii) e i levrieri (veltres) che, ad olfatto e rispettivamente a vista, quando scovata, la inseguivano e la spingevano verso le reti dove i cacciatori, in attesa, erano pronti a colpire con gli spiedi[5] e con le picche (pili fortes). Per catturare i predatori di grossa taglia, il cacciatore li attirava, altresì, dentro tagliole di ferro o dentro fosse, usando come esca piccoli animali da cortile.

Diffusa era la caccia ai volatili per mezzo di corde o di rami impaniati, e di reti. L’erpicatoio, particolare tipo di rete, veniva lanciato sulla preda puntata dall’ausiliario.

I lacci consistevano in cappi a nodo scorsoio costruiti o con crine di cavallo, e tenuti da archetti di giunco quasi a fil di suolo, o con corde che, legate ad un ramo piegato e messo in tensione, scattavano alla più lieve trazione. Venivano destinati, rispettivamente, ai volatili alla pastura e ai quadrupedi.

A differenza della caccia notturna con la fiaccola, perfezionata nei secoli successivi in quella con la lanterna, la pratica venatoria con gli archi con le balestre e con i falconi, abituale svago della nobiltà, si presentava insolita nel territorio.

 

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Nel sec. XVI, il territorio era ancora popolato da selvaggina abbondante e varia: vi nidificavano i fagiani, pernici e starne, vi si riproducevano cinghiali, cervi, camosci e lepri[6]; gli orsi e i lupi, numerosi, causavano ripetute distruzioni di armenti[7].

Gli strumenti per uso di caccia rimanevano tradizionali[8].

Leggi locali la disciplinavano, ma non in tutte le Università.

Considerevole, per contenuti, si rivela il complesso di norme, attinenti la materia venatoria, ratificate per l’Università di Cerreto nei “Capitula transactionis”[9] e negli “Statuta”[10]. La caccia “de qualsivoglia animali terrestri, aquatici, o aerici” era libera “come antiquamente è stata a li homini (…) in tutto lo territorio de contado salvo de Starne e Fasane qual sia in potestà del Signore defensarla”[11]. Era vietato portare “arma prohibita et molita (…) balista, vel scoppitta”[12]. Chiunque, uomo o donna, avesse rotto o devastato siepi di chiuse, allo scopo di cacciare animali selvatici, avrebbe dovuto, se accusato, pagare due tarì e riparare il danno[13]. La cacca alla lepre, con laccio e reti, era consentita sui monti, sopra Cerreto ed a Montalto, era proibita a valle del centro abitato, pena l’ammenda di due tarì; era altresì consentito cacciare, dovunque e senza licenza, la lepre col solo cane e gli altri animali con lacci, reti o “venabulo”; il feudatario riservava al proprio “sollazzo” la caccia con la rete a fagiani, starne e pernici; la multa a carico dei bracconieri era di due tarì[14]..

Dai “capitula” e dagli articoli statutari traspare l’esigenza e l’intendimento di tutelare la sicurezza individuale e pubblica attraverso il divieto di armi improprie, di difendere la proprietà fondiaria e le colture dall’invadenza dei cacciatori e dei selvatici nocivi, di proteggere gli armenti dai predatori, di garantire le scorte carnee ai poveri ed il divertimento ai ricchi, per mezzo della caccia praticata con sistemi tradizionali.

Durante il sec. XVII ed ancor più nel successivo, lo sviluppo industriale e mercantile dei centri maggiori del Matese incentivò la pratica venatoria con arma da fuoco ed il consumo della polvere da sparo.

Nel Cerretano prosperava l’industria armentizia; le manifatture tessili di Piedimonte, Cerreto, Cusano e Morcone, e la ceramica di San Lorenzello andavano imponendosi sui mercati di Terra di Lavoro e di Molise; Guardia produceva ed esportava pellami e vini; in Piedimonte si affermava un’industria della polvere pirica[15].

L’uso dell’arma da fuoco raggiunse larga diffusione. In Cusano, ad esempio, non fu possibile “prohibire li cittadini di detta Terra a portare, et andare a caccia con scoppette a miccio et a grillo purché non siano contro la forma della Regia prammatica e mentre il Demanio è libero di detta Università… Con licenza però di nostri Officiali, quale non li sarà negata; non chiedendola perda l’arma”[16]. In Cerreto, invece, il Conte, sollecitato dall’Università, poté soltanto imporre il divieto di “tirare archibusciate per mezzo miglio intorno alle Palombere” e la pena non lieve di tre ducati, a carico dei trasgressori[17]. In Piedimonte, infine, il Feudatario, rifacendosi ad un privilegio concesso da Carlo V nel 1517, aveva tentato di proibire ai vassalli la caccia nelle terre appartenenti a Casa Gaetani; i contravventori sarebbero stati puniti con la multa di dieci ducati, con la confisca dell’arma e con due mesi di carcere. I vassalli contestarono tale diritto e ricorsero al potere regio; il Gaetani non potendo dimostrarne il legittimo possesso, ricorse all’espediente di prendere in fitto, dalla Regia Corte, la concessione delle licenze di caccia e, in tal modo, incamerò un utile di circa 40 ducati l’anno[18].

Vero è che il fiorire dell’industria e del commercio si accompagnava ad uno stato di agiatezza crescente, tuttavia, per la maggior parte delle popolazioni, in particolare per le classi rurale e bracciantile, le condizioni di vita permanevano precarie. E mentre i poveri continuavano a disporre trappole ed a tendere lacci, i benestanti adottarono, in tempi successivi, “scoppetti” a miccia e a ruota e fucili a pietra focaia sempre più funzionali.

Il meccanismo “a miccia”, fissato in un incavo sul lato della cassa, davanti il calcio e sotto lo scodellino portapolvere solidarizzato di lato alla culatta, consisteva in una piastra di ferro che, alle estremità anteriore e posteriore, portava imperniate una serpentina, terminante in un morsetto serramiccia, ed una leva arcuata spinta verso il basso da una molla e da un braccio snodato. Tirata in alto, la leva muoveva il braccio e abbassava la serpentina; la miccia, in tal modo, dava fuoco alla polvere contenuta nel sovrastante scodellino e quindi, attraverso un foro della canna detto “focone”, alla carica nella camera di scoppio.

Il congegno “a ruota” era essenzialmente costituito da una piastra portante cane e ganasce, bacinetto porta polvere e ruota d’acciaio zigrinata, fissa al perno di carica parte di un braccio su cui agiva il grilletto. Operando sul perno, con apposita chiave, si caricava la ruota spostandola di tre quarti di giro in senso antiorario; si immetteva polvere da innesco nel bacinetto e si abbassava il cane fino a livello dello stesso. Premendo il grilletto, la ruota girava in avanti, sfregava contro un pezzo di pirite serrato tra le ganasce e liberava un fascio di scintille che infiammava la polvere d’innesco e, attraverso il focone, quella carica nella camera di scoppio.

Nel meccanismo “a pietra focaia”, il cane, al momento dello sparo, veniva spinto in avanti dalla pressione sul grilletto; una scaglia di selce, stretta tra le ganasce, colpiva il copribacinetto ribaltandolo e producendo scintille che accendevano la polvere d’innesco e, con essa, la carica di canna.

Tra quanti praticavano, per un motivo o per l’altro, attività venatoria sul Matese si distinse Aurora Sanseverino Gaetani, poetessa dal temperamento forte ma gentile. La Principessa di Piedimonte si cimentò nella caccia al cinghiale e, oltre a trarne ispirazione poetica, seppe considerarla nella reale accezione di sport: mezzo di fuga dagli affanni quotidiani finalizzata, nel contesto dell’ambiente, alla verifica costante della identità individuale[19].

Tutti, comunque, chi per indigenza, chi per difendere colture ed allevamenti, e chi per svago, contribuivano, con un tipo di caccia incessante e destruente, al depauperamento di alcune specie stanziali. I maggiori responsabili erano i possessori di armi da fuoco. La loro ostinazione giungeva al punto che, durante i mesi invernali, molti tra i più avventati, mettendo in pericolo la propria vita, tagliavano lastre di ghiaccio dalla superficie del lago e con esse costruivano capanne dalle quali tiravano contro gli anatidi di passo, abbondanti in quella stagione[20].

Nella seconda metà del ‘700, lo stato del patrimonio faunistico appariva non del tutto compromesso. Nei boschi del Massiccio si riproducevano ancora “orsi e cinghiali”, nondimeno v’era chi ammoniva con malcelata ironia: “…sul Matese… abbonderebbe la selvaggina se la moltitudine degli animali domestici e i loro cani la lasciassero in pace”[21].

Tra la fine del sec. XVIII e i primi anni del successivo, il basso costo delle licenze di caccia[22] contribuì all’ulteriore diffusione dell’esercizio venatorio. Il fenomeno interessò, peraltro, tutta la provincia di Terra di Lavoro e il numero delle richieste e delle concessioni fu tanto elevato che i “distributori”, presenti in quasi tutte le università, trassero buona parte del loro sostentamento dal reddito di esazione[23]. Sviluppo analogo dovette aversi, per gli stessi motivi, pure nel Contado di Molise.

A differenza della caccia con panie, lacci, reti e tagliole, quella con armi da fuoco era dispendiosa, se si considera il costo dell’arma, della munizione e dell’abbigliamento. Il cacciatore “tipo” indossava calzoni di panno, lunghi a ginocchio, tenuti da un cinturone di cuoio a fibbia dorata, camicia bianca, camiciola, corpetto e giubba; calzava lunghi stivali che, allacciati sul dorso del piede e fino al terzo superiore di gamba, terminavano poco sopra il ginocchio; copriva il capo con cappello a tesa larga e portava un fazzoletto annodato al collo ed una sacca di munizione a tracolla; era armato di lungo fucile monocanna con batteria a pietra focaia e di due pistole tenute da una fusciacca che, dal cinturone, pendeva sopra una coscia[24].

Coloro i quali esercitavano la “caccia per oggetto di guadagno” riuscivano ad ammortizzare le spese attraverso il consumo o la vendita della selvaggina catturata o uccisa.

La cacca all’orso offriva alcuni motivi di guadagno. Il cacciatore ne vendeva il grasso – ricercato dalla medicina per la produzione di rimedi – e la pelle, tolta alla belva subito dopo uccisa ed aspersa con una miscela di sale e allume. La pelle “di stagione”, ossia dell’orso ucciso da Ottobre a Novembre e pertanto di pelo lucido e folto, aveva un valore di 12-15 ducati, se larga otto palmi, di 25 fino a 40 ducati, se più larga. Qualcuno era solito mangiare la carne dell’animale e, pare, che il sapore non differisse da quello del caprone; i cacciatori riservavano per sé le zampe e con esse preparavano una vivanda che trovavano squisita. Altro guadagno, infine, proveniva dai cuccioli: allevati con pane e con latte di pecora o di capra e ammaestrati, venivano dati in fitto o venduti a compagnie di girovaghi. Il fitto rendeva 1/3 dell’intero guadagno annuo, detratte le spese; la vendita procurava un profitto di 60-100 ducati [25].

La battuta all’orso si svolgeva nel modo seguente: individuato il luogo frequentato dalla fiera, numerosi battitori, non meno di una ventina, la scovavano e la indirizzavano verso gli agguati, con urla, fischi, sassate e frastuono di strumenti fragorosi. I cacciatori, numerosi e ripartiti in gruppi di tre, per prestarsi all’occorrenza reciproco aiuto, attendevano in silenzio, coi fucili carichi e a baionetta inastata. Quando la belva capitava a tiro, esplodevano il colpo e rimanevano immobili finché non fossero stati certi di averla uccisa; in tal modo, poiché l’orso ha la vista corta, avevano la possibilità di sottrarsi alla reazione violenta dell’animale soltanto ferito.

Là dove regnava l’orso ed in luoghi ancor più inaccessibili, viveva, raro, il camoscio, oggetto di caccia a motivo della carne non diversa, per sapore, da quella della capra domestica.

La vendita delle pelli di tasso, lepre, volpe, puzzola, martora e faina, ai cappellai di Campobasso, di Agnone e di Terra di Lavoro, era fonte di ulteriore profitto.

Il cacciatore seguiva sulla neve le tracce “pedate” di questi animali e, pervenuto alla tana, dava fuoco a sarmenti umidi posti davanti l’ingresso; il selvatico rimaneva soffocato o, se avesse tentata la fuga, ucciso a fucilate. Nella Primavera, lepri e volpi venivano attese dal cacciatore al limite del bosco allorché, dopo il tramonto, ne uscivano alla ricerca di cibo, o all’alba, vi facevano ritorno.

Una buona pelle di lepre o di volpe si vendeva a carlini tre; da otto a 12 carlini si pagava quella di tasso o di faina, a 15-25 un pelle di lupo.

Il lupo, quando non cadeva, adescato da un pezzo di carne, in qualche grossa “tagliuola” dentata, finiva ucciso all’agguato.

Un qualche profitto si traeva pure dalla caccia agli anatidi. Questi migratori, conosciuti nelle loro varietà sotto il nome dialettale di “papere”, “mallardi”, “capoverdi”, e “marzaiole”, venivano presi con gli “archetti” o abbattuti “all’imposto” con armi da fuoco, nei luoghi pantanosi e sul lago del Matese tra Novembre e Marzo. Beccafichi e allodole, “cucciarde”, costituivano, tra Agosto e Settembre, materia di vendita nei mercati locali.

La “caccia per divertimento… forma(va) una potente passione che non si spegne(va) con l’avanzare degli anni”. Tutte le classi, in diversa misura, ne prendevano diletto.

La pratica venatoria con lo schioppo era la più diffusa. Nella variante “d’aspetto” diurna, si faceva uso dell’esca. Le allodole venivano attratte con lo “specchietto”, sorta di marchingegno rosso, ornato di piccoli specchi e mosso da funi o da una corda d’orologio. Per adescare i colombi selvaggi, il cacciatore poneva sopra un albero e ben in vista un piccione legato ad una tavoletta forata; le corde, passando attraverso i fori, giungevano al cacciatore; questi, nascosto dentro una capanna, tirando le corde, stimolava il volatile a librarsi in volo e, in tal modo, a richiamare le torme di colombi a tiro di schioppo.

La caccia notturna “della prima ora” aveva inizio al tramonto e durava fino a quando la visibilità concessa dalle ultime luci consentiva di abbattere i volatili “a volo”. La variante “della seconda ora”, praticata al chiaro di luna da numerosi cacciatori disposti in circolo per il fuoco incrociato, si protraeva fino alle prime luci del nuovo giorno.

La battuta per divertimento a lepri, caprioli e cinghiali non era diversa da quella già descritta per l’orso. Altro tipo di caccia al “porco selvatico” consisteva nell’attirarlo, con esca di spighe di grano sparse nel luogo frequentato dall’animale, fin sotto un albero sul quale il cacciatore aveva preso posto.

La caccia senza schioppo, meno diffusa, ma non per questo meno divertente, faceva uso di sistemi tradizionali modificati attraverso i secoli.

Per prendere uccelli acquatici e beccaccini, il cacciatore disponeva nei luoghi paludosi, lungo il corso dei canaletti o in mezzo ai pantani, “archetti” costruiti con crini di cavallo e muniti di nodo corsoio. La selvaggina vi rimaneva accalappiata nel recarsi all’abbeverata e alla pastura.

Poiché i tordi si cibano di olive, il cacciatore costruiva in un oliveto una capanna e, su di essa, una gabbia di bacchette cosparse di vischio. Sul far dell’alba, si celava in quel nascondiglio e, col richiamo “zufolo o ciufolo”, imitava lo zigolare del volatile. Gli uccelli, adescati, si posavano sulle bacchette rimanendovi impaniati.

Per prendere il maschio della quaglia venivano usati il “quagliere” ed una rete di colore verde. Il “quagliere” consisteva in una piccola borsa di pelle che portava legato alla estremità un osso cilindrico segnato da una profonda incisura longitudinale. Il volume della borsa e la lunghezza dell’incisura erano tali che la fuoriuscita dell’aria riproduceva il canto della quaglia. Tra Maggio e Giugno, dopo aver teso la rete sui culmi, in un campo coltivato a grano, il cacciatore si celava dietro un riparo e, toccando il quagliere, ad intervalli di qualche minuto, dava inizio al richiamo. Il maschio, rispondendo ed avvicinandosi, finiva per trovarsi sotto la rete. A questo punto, il cacciatore usciva con strepito dal nascondiglio ed il volatile, librandosi in volo, rimaneva impigliato.

La caccia con lo “scacciafumo” si faceva tra Dicembre e Gennaio, nelle notti oscure e piovigginose. Quattro cacciatori procedevano lentamente: il primo riproduceva con un campanaccio, nel tono e nel tempo, lo scampanio prodotto dalle mandrie al pascolo e, in tal modo, ingannava la selvaggina adusa a quel suono; il secondo l’abbagliava per un attimo con la luce accecante di una lanterna “a occhio di bue” schermata nella faccia posteriore, “scacciafumo”; il terzo la catturava con una rete cilindrica, la cui imboccatura rimaneva aperta sopra un largo cerchio di legno, inchiodato in un suo punto all’estremità di una pertica; il quarto, infine, la uccideva e la riponeva in un sacco. Questa caccia, data dai “giovinastri” in particolare alla lepre, riusciva assai dannosa ai campi seminati e, benché fosse stata proibita nelle pianure alifane, “la gioventù e la passione la vincevano coll’infrazione degli ordini”.

L’attività venatoria finalizzata alla “distruzione” di talune specie animali, per la salvaguardia della pastorizia e della agricoltura, era assai diffusa.

Dei tipi di caccia ai quadrupedi dannosi ala pastorizia e all’agricoltura è stato detto.

Tra i volatili nocivi, i frisoni e le ghiandaie “si distruggevano” con lo schioppo e i passeri in parte col fucile, in parte col fumo prodotto sotto le piante a notte avanzata, in parte con la rete nella quale rimanevano impigliati quando, nella calura estiva, calavano a bere nei coppi ripieni d’acqua sistemati dai contadini nella rete medesima.

Il corvo dei campi, considerato il più dannoso, migrando arrivava in Novembre e, scorrendo da un campo all’altro, viveva, fino alla primavera, a spese e a danno dell’agricoltura. Le “ciavole”, questo era (ed è) il loro nome volgare, erano oggetto di caccia col “dugo” e col “cornetto invischiato”. Il primo metodo consisteva nel legare un gufo ad un cavalletto e nel sistemarlo in luogo aperto a poco distanza da un albero per quanto possibile, spoglio di fronde. Attratti dalla strana figura di quell’uccello, i corvi si avvicinavano appollaiandosi sull’albero e davano modo al cacciatore di tirare a colpo sicuro. I cornetti invischiati altro non erano che coni di carta aventi l’orlo invischiato e, sul fondo, un pezzetto di carne cotta o un granello di mais, sistemati in un campo aprico. Quando il corvo introduceva il capo, per beccare il contenuto del cornetto, rimaneva impaniato nel cappuccio molesto, si agitava, si sollevava in altissimo volo verticale e, spossato, precipitava al suolo.

I cani trovavano impiego nella caccia errante. Accurata è la descrizione che Raffaele Pepe (1776-1854), agronomo molisano, fa dell’ausiliario: “Distinguonsi i cani da caccia in cani da leva, cani da punta e cani da corso che volgarmente i cacciatori chiamano cani da pelo, i primi, cani di penna i secondi, ed i terzi cani bracchi. I primi hanno l’odorato fino, cacciano col naso basso, sono vivaci, pieni di fuoco, agili, inseguono con voce allegra; hanno il naso lungo ed acuminato, le orecchie pendenti ma leggiere, i fianchi asciutti e stretti, le gambe ed i piedi sottili. Il loro manto pelo è di color negro con gambe e spalle castagno o fulvo chiaro: o bianco con grosse macchie fulve oscure o vinate. I secondi hanno testa e muso più grossi, le labbra sporgenti, le orecchie grandi pendenti lunghe, l’aspetto malinconico, minor vivacità nelle mosse minor agilità nel corso; sono più carnuti, hanno le gambe ed i piedi più carnosi, cacciano col naso alto: alzano i volatili, danno il solo segno, ma non l’inseguono, li puntano cioè si fermano nello scoprirli, e non li alzano che alla voce del cacciatore; il loro manto è grigio bianco macchiato regolarmente di punte color vinato. I bracchi poi sono di vario colore, hanno le orecchie piccole e mal piantate: sono più lunghi che alti, e ve ne sono molti con le gambe corte”.

 

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[1] Il diploma dell’Ottobre del 1222, in cui l’Imperatore Federico II conferma al monastero di S. Maria della Ferrara il privilegio di libero pascolo, legnatico e pesca sul Matese, non fa riferimento a privilegi di caccia. Cfr. documento in A. Gaudenzi, S. Mariae de Ferraria, Chronica, Neapoli, MDCCCLXXXVIII.

[2] J. Heers, Il lavoro nel Medioevo, Firenze 1973, p. 17.

[3] R. Lewinsohn, Gli animali nella storia della civiltà, Torino 1973, pp. 157 e sg.

[4] Cfr. pure S. Agostini, La caccia nel Medioevo, in Diana armi, 1982, n. 9, pp. 58-59.

[5] Termine longobardo di venabulo.

[6] Cerreto Sannita. Archivio R. Pescitelli, Gli statuti di Cerreto, copia Manoscritta da Gennaro Pescitelli, 1793, Cap. De venationibus, par. 173-176.

[7] Man. cit., De adatio Universitatis Cerreti, 87.

[8] M. c., 173-176.

[9] Interessavano la Terra di Cerreto e Casali e vennero approvati nel 1540. Sono stati riportati in N. Alianelli, Statuti municipali, Napoli 1873, pp. 129-138. Per Ailano cfr. R. Ugo Villani, La terra dei Sanniti Pentri, Curti 1983, p. 19; per Alife, cfr. Biblioteca dell’Associazione storica del Medio Volturno, Piedimonte Matese, sezione manoscritti, Capitula gratie et immunità quali se dimandano… alla Ill.ma Donna Cornelia Piccolomini utile Signora… nel precedente anno 1559, a di 15 di Maggio.

[10] Di fondo antichissimo e consuetudinario, vennero riformati nel 1541.

[11] N. Alianelli, o.c., p. 133.

[12] Man. cit., De armorum portatione, 1, 6.

[13] M. c., De dapmnis illatis in clausis, 41.

[14] M. c., 173-176.

[15] R. Marrocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, ivi 1926, pss.; D. Marrocco, Il titolo di città a Piedimonte d’Alife, ivi, 1951; D. Franco, L’industria dei panni lana nella vecchia e nuova Cerreto, Samnium, 3-4, 1964, 1-2, 1965; N. Vigliotti, I Giustiniani e la ceramica cerretese, Marigliano 1980, Capua, Museo Provinciale, Sez. manoscritti, Bs. 317, carte della Statistica murattiana relative ai circondari di Cerreto e Cusano; M.R. De Francesco, La manifattura dei panni lana di Morcone nel XVIII secolo, Morcone MCMLXXXI, pp. 39-77.

[16] Benevento, Archivio di Stato, Capitoli di Cusano Mutri, 1667, X.

[17] Dalle “Grazie” concesse dal feudatario all’Università di Cerreto e sui Casali. N. Alianelli, o.c., p. 206, 11.

[18] R. Marrocco, o.c., p. 52. Nel 1753, già i cittadini di Guardia avevano inoltrato alla Regia Camera ricorso contro il Duca di Maddaloni il quale pretendeva “l’affitto della caccia”. Il reclamo produsse effetto nel 1803. Cfr. Bollettini delle Commissione Feudale, volume 56. La collezione fa riferimento, anche per altri luoghi del Matese, a privilegi e contestazioni attinenti la materia venatoria.

[19] Tanto si deduce da alcuni suoi componimenti poetici e da riferimenti biografici riportati in: D. Marrocco, L’Arcadia nel Sannio, Aurora Sanseverino, Samnium, 1953, 3-4; G. Fasano, La Gierusalemme Libberata (…) votata a lengua napoletana, Napli 1706, pp. 3, 4.

[20] G. Trutta, o.c., p. 293.

[21] G. M. Galanti, Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise, Napoli, MDCCLXXXI, II, p. 47; G. Trutta, o.c., p. 293.

[22] Variava, secondo il tipo di caccia, da grana 12 a carlini cinque.

[23] Cfr. Documenti, in C. Cimmino, Suolo, risorse, popolazione in Terra di Lavoro nell’età del Risorgimento, Caserta 1978, p. 76.

[24] Da una stampa dell’epoca.

[25] Per questi e successivi riferimenti fino a nota 43 cfr. G. Cimmino, o.c., pp. 53-76; Documenti a cura di A. Zazo, Raffaele Pepe e una sua relazione sulla caccia, pesca ed economia rurale nel Molise, Samnium, LIX, 1986, pp. 109-111.