Il Vescovato
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Dal libro: Il Vescovato alifano nel Medio
Volturno, di Dante B.
Marrocco; Edizioni ASMV – Piedimonte Matese, 1979.
Origine e costituzioni. – Non si ha traccia di un collegium
di sacerdoti dal V al X secolo.
Negli anni intorno al Mille si trova un nucleo di
ecclesiastici unito al vescovo. Insieme con Vito firmano un atto, l’anno 987, Cennamus
diaconus, Johannes diaconus, Guimundus presbyter, Aczo (pronunciato
Accio) presbyter, Benedictus subdiacomnus[1].
Queste firme però non portano a concludere all’esistenza di un Capitolo
regolarmente costituito, con canonici e dignitari.
Nel 1252, Papa Innocenzo IV raccomanda al Capitolo Magister
Alferius, canonico alifano. È la prima notizia del Capitolo.
Nel ‘300 il Capitolo appare nelle Rationes
decimarum (Rat. Dec. Campania, 190), e risulta tassato per tarenos X,
e nel 1328 la tassa è portata a 15 tarì. Ecco il testo:
1308 Archidiaconus
alifanus pro beneficiis suis que valent uncias VI, solvit tarenos IX (con i
residui)
Primicerius
dicte Ecclesie s. tarenos VI.
Capitulum
alufanum tarenos IX.
1328 Capitulo
alifano tarenos XV.
***
Titolare
e patrona del Capitolo è s. Lucia, la martire siracusana, e l’effige di lei
appare nel sigillo. (Per le probabili ragioni di questo culto speciale del
Capitolo, v. il capitolo Culti speciali).
***
Da
quando fu aperta al culto la Cattedrale edificata dal conte Rainulfo, il
Capitolo vi ebbe sempre la sua sede.
Crollata nel 1688, il Capitolo si trasferì a s.
Maria la Nova ma siccome la chiesa era umida, i canonici piedimontesi ottennero
dalla congregazione del Concilio che l’ufficiatura, salva Cathedralitate,
fosse portata in altra sede, stabilita dall’ordinario. Il vescovo De Lazzàra la
trasferì all’Annunziata di Piedimonte, dietro decreto di quella congregazione,
del 26 Luglio 1690.
L’Università di Alife, ricostruita la Cattedrale,
invitò i canonici a tornare, ma quelli si rifiutarono a causa della malaria e
della via impraticabile. Dopo ricorso di Alife, la Congregazione il 15 Maggio
1692 ordinò di tornare. Nuovo rifiuto dei canonici, e nuovo ordine della
Congregazione, il 15 Aprile ’93. Ancora un rifiuto.
Alife ricorre all’arcivescovo di Benevento, affinché
faccia applicare il decreto.
L’arcivescovo Orsini viene sul posto, osserva e, il
15 Aprile 1693 si ha il decreto della congregazione sinodale. Niente.
Si arriva al 19 Aprile ’99, quando si ha l’ordine
perentorio o ritorno o sequestro delle rendite[2].
Il numero dei canonici è stato per secoli di sei,
oltre ai due dignitari, l’arcidiacono e il primicerio. È infondata la notizia
che in passato fossero stati ventisei.
Nel 1565 firmarono il ricorso contro il vescovo
Nogueras due dignitari e sei canonici. Lo stesso numero si ha nel 1676. Nel 1752
ne troviamo invece dodici[3].
Nel 1861 il vescovo Di Giacomo aggiunse i sei
cappellani di s. Caterina, tre come canonici e tre come suddiaconi. Per questo
il coro ha diciotto posti.
***
Un
sinodo romano del 1735 emanò direttive riguardo agli statuti.
Un primo statuto del Capitolo, oggi è introvabile.
Il 6 Agosto 1889 i canonici approvarono un nuovo statuto preparato dal can.
Vincenzo di Buccio, completamente autonomo dalle direttive.
Con la codificazione del diritto canonico nel 1917,
lo statuto dovette essere rifatto. Il 13 Maggio 1920 l’incarico fu dato al can.
Pasquale Tartaglia. Questi preparò un vero e proprio trattato, che fu ritenuto
esorbitante da una commissione di canonici, e respinto.
Il vescovo Noviello affidò la riforma dello statuto
ai canonici G. di Caprio, F. S. Finelli e M. di Muccio, e il testo fu approvato
dal vescovo il 9 Ottobre ’42, per un anno, e definitivamente l’anno dopo.
Le costituzioni capitolari della Cattedrale di
Alife, conformate all’art. 459 C. J. C., si compongono di sette paragrafi. Da
notare che la prima parte dell’art. 1 è storicamente infondata.
***
Il
parroco di Alife non apparteneva al capitolo.
Con Real Dispaccio del 2 Marzo 1782, e con delibera
del 6, fu annesso al capitolo un altro canonicato con cura d’anime, mansione
prima esercitata da un prete extra gremium.
Il 1 Giugno 1790, il vescovo Gentile dichiarò in
apposita bolla che la carica di curato era di libero conferimento vescovile, e
perciò si doveva chiamare «canonico curato» e non «vicario curato».
***
Fra
l’altro, dallo statuto si ha notizia delle insegne.
Stando a Trutta, fino al vescovo Isabelli (1735-52)
i canonici avevano usato rocchetto e mozzetta violacea[4].
Riguardo alla sottana violacea le notizie sono
contrastanti. Il 17 Settembre 1726 la Congregazione del Concilio concesse l’uso
della zyrma, ossia sottana violacea con collare e zona, ossia
fascia a due fiocchi[5].
Altra notizia invece è che la sottana violacea caudata, fu concessa da
Re Ferdinando IV nel 1789 su richiesta del vescovo Gentile, «per impedire li
passaggi che li canonici della Cattedrale facevano spesso nelle suddette
Collegiate» (Mss. presso l’ASMV, 26).
Il 23 Giugno 1917, Papa Benedetto XV, su richiesta
del vescovo Del Sordo concesse il palliolum, cioè la matelletta
violacea. Così l’abito prelatizio era completo.
La tipica insegna dei cavalieri e dei canonici, la lacerna,
ossia la cappa, di tessuto viola, rialzata sulla spalla sinistra, era ricoperta
di pelliccia bianca dal 31 Ottobre all’antivigilia di Pentecoste. Ciappe
d’argento tenevano sospeso il cappuccio, e dal fianco sinistro pendeva lo
stolone violaceo con nocche amaranto.
Quanto alla mozzetta papale almùtia, che
sostituì quella violacea, s’ignora la data non lontana di concessione. È
probabile ai tempi del vescovo Puoti che la concesse anche all’arciprete di San
Gregorio.
Queste insegne così caratteristiche e distinte, nel
1972 sono state sostituite da un mozzetta nera.
***
La frequenza al coro anticamente era di obbligo due
volte al giorno per l’intero Capitolo.
Data la situazione eccezionale secondo cui la
maggior parte dei capitolari veniva da Piedimonte, si ebbe il decreto della
Congregazione del Concilio, per cui l’ufficio divino veniva recitato per intero
nella sola mattinata.
Sempre a causa del dispendio economico, il 20 Giugno
1789 fu emanato il decreto della Real Camera di s. Chiara, per la frequenza a
settimana alternata, disposizione che fu confermata l’11 Marzo 1911 dalla
Congregazione del Concilio. Il 10 Maggio 1962 la stessa Congregazione
autorizzava i canonici per un triennio, a intervenire al coro nelle sole
domeniche e il 2 Febbraio, Mercoledì delle Ceneri, Giovedì e Venerdì santo e
10-11 Agosto.
È del 2 Gennaio 1741 una costituzione per cui i
canonici della Cattedrale devono assistere il vescovo anche a Piedimonte.
Arcidiaconi e primiceri. – Non è stato possibile
ricostruire, anteriormente al 1688, almeno la serie dei dignitari del Capitolo.
Oltre ai quattro che salirono sulla cattedra
vescovile – Giovanni Alferio, Angelo Sanfelice, Giovanni Bartolo, Angelo Sarro,
cinque a volervi includere Vito diacono – troviamo nel 1565 Ascanio de
Notariis.
Lo stesso va detto per i primiceri, uno dei quali
Gabriele Ventriglia, nel 1852 fu nominato vescovo di Caiazzo. Nel 1535 viveva
Loisio Acilio, nel 1565 Troiano Mirillo (Milillo?).
Dal 1688 le due serie sono complete. Arcidiaconi: 17
V 1690 Francesco Pezza (di Piedimonte); 16 V 1710 Domenico de Benedictis
(Piedimonte); 2 II 1722 Francesco Pierleone (Piedimonte); 12 IV 1727 Saverio
Paterno (Piedimonte); 11 X 1744 Silvestro Scasserra (Piedimonte); 10 X 1773
Cesare Cardelli (Piedimonte) 15 X 1775 Raffele de Cesare (Raviscanina); 1 IV
1798 Giacinto Cirioli (Alife); 7 I 1803 Vincenzo Meola (Piedimonte); 1 IX 1850
Ottavio Scappaticcio (Piedimonte); 4 II 1863 Luigi Cornelio (Alife); 30 VI 1881
Francesco Ferrurri (Alife); 22 II 1888 Luigi Paterno (Piedimonte); 5 VII 1896
Giuseppe Prota (Piedimonte); 24 XII 1899 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 10 X
1910 Domenico Macchiarelli (Alife); 28 VII 1932 Giuseppe Colella (Alife); 14 I
1938 Girolamo Di Caprio (Alife); 26 V 1965 Michele Di Muccio (Piedimonte); 1 II
1975 Francesco Corsini (Alife).
Primiceri: 15 X 1690 Stefano de Angelis
(Piedimonte); 8 VI 1700 Nicola Coridano (o Giordano, Piedimonte); 23 II 1706
Giuseppe Perrino (Piedimonte); 9 VII 1710 Nicola De Stefano (Piedimonte); 20 VI
1730 Francesco Meola (Piedimonte); 24 VI 1735 Francesco De Marco (Piedimonte);
20 IX 1736 Pasquale De Stefano (Piedimonte); 13 I 1741 Filippo Iannitelli
(Piedimonte); 4 VII 1756 Ignazio de Benedictis (Piedimonte); 2 VII 1779
Pasquale Giorgio (Piedimonte); 29 XII 1822 Gabriele Ventriglia (Piedimonte); 3
VI 1850 Giuseppe Fiondella (Calvisi); 9 III 1862 Luca Panella (Alife); 31 XII
1879 Francesco Ferrucci (Alife); 30 VI 1881 Giuseppe Prota (Piedimonte); 1 II
1897 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 15 IV 1900 Vincenzo La Catena
(Piedimonte); 8 XII 1906 Domenico Macchiarelli (Alife); 20 VIII 1911 Giuseppe
Amato (Alife); 26 III 1931 Giangiuseppe Pacella (Piedimonte); 8 V 1937 Luigi
Vastano (Piedimonte); 15 VII 1947 Pasquale Panella (Alife); 21 VII 1959 Egidio
Ciaramella (Alife); 14 XI 1964 Raffaele Ricigliano (Piedimonte).
Non trovata la nomina di Michele Rossi Primicerio
alifano, fra i teologi del concilio regionale di Benevento nel 1695. Lo
stesso per Gaetano di Renzo, † 1800.
La storia di questa Collegiata, nella sua ascesa
durante i secoli XVI-XVII-XVIII, fa da parallelo nel campo ecclesiastico allo
sviluppo di Piedimonte di cui è chiesa madre, matrix.
L’origine giuridica della Collegiata di s. Maria,
come delle altre, risale al 1417, al regolamento del vescovo Sanfelice.
La parrocchia collegiale derivò dalla riunione, in
s. Maria, dei rettori delle piccole chiese di Piedimonte: S. Maria, S.
Arcangelo, S. Maria degli Angeli, S. Benedetto (oggi Pietà), S. Pietro
(incorporata a S. Domenico), e S. Caterina a San Potito: una cura d’anime fatta
collegialmente da tutti i parroci in una sola chiesa.
I canonici curati riuniti in S. Giovanni non si
capisce da quali altre parrocchie derivassero. Certo, se la bolla
dell’arcivescovo Capace di Benevento è autentica, si dovettero riunire presto
ai loro colleghi in S. Maria; se non è autentica, come sostiene Trutta nella Cronaca
di quattro secoli, S. Maria ebbe fin dal primo ‘500, dodici
canonici-parroci.
Dal 1417 il territorio della Collegiata termina al
Toranello (oggi Maretto), che però fu spostato dalla sinistra alla destra del
Carmine (ove scorre tuttora), abbraccia l’intero Cila; termina pure con la tesa
dopo la cappella inferiore sulla via vecchia di Castello, e abbracciava le
montagne fino al confine con Gioia; in pianura seguiva il corso di Torano
vecchio. Per il distacco di San Potito e di Spicciano, il confine è arretrato.
Il confine con San Potito, dal 14 Aprile 1601, per
decreto del vescovo Gavazzi, oggi segue quello dei due comuni, dal Purgatorio
alla Cappella.
Il confine con Spicciano, dal 3 Ottobre 1696 per
decreto del vescovo de Lazàra, segue il vallone d’Agnese fino alla confluenza
nel Torano.
La giurisdizione della Collegiata sul territorio
appare da autorizzazioni e divieti.
Nei primi anni del ‘700 il Capitolo vieta al padre
Cuzzani l’erezione di una casa dei chierici regolari minori allo Scorpeto.
L’assenso ci fu invece nel 1710 alla duchessa Aurora Sanseverino Gaetani per la
costruzione della chiesa superiore della Madonna delle Grazie a Cila, che sta
al confine della parrocchia: «Niente si negò alla Signora Duchessa per opera sì
lodevole e santa».
Il diritto ad andare processionalmente nella chiesa
della Trinità, oggi s. Lucia in territorio di Vallata, per celebrarvi la festa
della Trinità, già accennato nell’art. 35 del laudo del vescovo Sanfelice,
esiste sicuramente dal ‘300.
***
Lo
sviluppo diciamo «interno» di questa chiesa non può essere tralasciato.
Dalle bolle di Callisto III, Nicolò IV e
dell’arcivescovo Capace risultano 7 canonici in S. Maria, 5 in S. Giovanni.
Il 22 Dicembre 1581, il vescovo Santoro, da Roma,
dichiara già esistenti i due gruppi in S. Maria. La bolla Ex injuncto
adduce la ragione che S. Giovanni, in alto, non è frequentata: «…Et pro
majori populi dictae terrae devozione… ac in eadem ecclesia cultus divini
aumento, sex canonicatus, et totidem praebendas in ecclesia sancti Johannis
Baptistae dictae, terrae Pedemontis, ad conventum Christifidelium minime apta,
et fere inaccessibili, et non frequentata, existentes, et populi dictae terrae
devozione in eam in dies refrigescente, sita inibi suppressimus et extinximus,
totidemque canonicatus et praebendas… in eadem ecclesia beatae Mariae pro sex
Canonicis… una cum aliis, unum Capitulum efficerent…ereximus et instituimus».
Ma quando? Non dice la data. Il vescovo stava in diocesi dal 1569.
Trutta nella Cronaca presenta un atto del
Notaio Aquilante de Martinis di Piedimonte, del 1533, secondo cui l’arciprete e
undici canonici di S. Maria affrancano una certa rendita; e negli anni 1522-49,
ricevono derrate e denaro dal procuratore… Dove sta l’errore?… Non solo: ma se
i canonici di S. Giovanni erano parroci, era possibile che non si parla di un territorio
di loro giurisdizione?… ed erano sei o cinque?
***
L’arcipretura. – Se è incerta la questione
dell’unione fra i due collegi ecclesiastici di Piedimonte, con data sicura, 22
Dicembre 1581, è l’atto con cui fu fissato in S. Maria Maggiore l’arciprete di
Piedimonte quale dignitario della collegiata. È chiaro che la carica vi stava
da tempo. La bolla Ex injuncto fu fatta per l’arciprete Paterno.
S. Maria riteneva la prima dignità ecclesiastica di
Piedimonte, e questa fu l’altra ragione del suo primato, e della qualifica di Maggiore,
che dal ‘500 in poi troviamo unita al titolo antico.
L’arcipretura, già riportata nelle Rationes
decimarum del 1325, certamente prolunga l’esistenza a secoli prima, ma
piuttosto come un incarico che come beneficio, come dignità in seguito nominata
sempre con la bolla pontificia dietro concorso. Le entrate però erano scarse,
dice Santoro: «…fructus, redditus et proventus adeo tenues et exilis
existunt, ut archipresbyter ejusdem Ecclesiae pro tempore existens, nedum se ex
illis juxta sui gradus qualitatem, decenter mantenere, sed ne vix quidam
tenuissime se substentare valeat».
Trentasette anni dopo, il vescovo Genovese, nel suo
arbitrato fra arciprete e canonici, del 18 Dicembre 1618, ne stabilì diritti ed
onori: primo fra tutti i preti di Piedimonte e casali in qualsiasi
manifestazione: «…referendum esse omnibus Canonicis S. Mariae Majoris, et
toto Clero dictae Terrae et Casalium…». La prebenda doveva esser quella del
canonico più anziano. Il 26 Gennaio 1620, la congr. dei Riti l’approvò
definitivamente.
La bolla di nomina veniva spedita per semplice
segnatura, data la mancanza di rendita. Nel 1775 il vescovo Sanseverino spedì
la nomina all’arciprete Trutta, ignorando che spettava al papa, con autorità
ordinaria, in quanto godeva della sola preminenza e della doppia distribuzione.
Da chiarire un ultimo dubbio. Data l’importanza che
la carica aveva per Piedimonte capoluogo del distretto, a chi spettava? Al più
vecchio o al più meritevole? Altra causa famosa, per la quale si arrivò in
consiglio di ministri. L’8 Marzo 1835, Re Ferdinando II ordinò che per la
provvista dell’arcipretura di Piedimonte si applicasse il concordato del 1818:
l’art. 10 riservava alla S. Sede la nomina di ogni primo dignitario di
capitolo. La perorazione dell’arcidiacono Scappaticcio aveva prevalso.
Una volta annessa l’arcipretura di Piedimonte a un
canonicato di S. Maria Maggiore, qualsiasi tentativo di separare era assurdo.
Tanto tentò di fare l’arciprete Gian Angelo de Nozze: tenersi l’arcipretura
(com’era stato per secoli), e dare al nipote, canonico Potenza, il canonicato.
Nel 1700 ottenne la separazione dalla Datarla
apostolica. Ma i canonici ricorsero al Papa. L’avv. Domenico di Tommaso, un
piedimontese di gran notorietà a Napoli, difese zio e nipote servendosi della
bolla del vescovo Santoro, ma a nulla valse. Il 23 Dicembre 1706, la Segnatura
di giustizia ordinò il sequestro dei beni. Scrive Trutta che i due ne morirono
di dispiacere[6].
Ufficiatura e qualifica di «insigne». – Il rito quotidiano
collegiale, come nelle cattedrali, ebbe inizio quando il 5 Aprile 1691 (Strumento
Notaio Cesare Loffreda) la duchessa Cassandra de Capua Gaetani assegnò una
somma per una messa quotidiana, col suono della campana grande all’elevazione.
Tutte queste notizie sono esposte nella Cronaca di Trutta.
Nel 1669, per legato di un’altra duchessa, Diana del
Capua Gaetani, ebbe inizio la messa conventuale. La pia e munificente
signora, che ventisei anni prima aveva donato 50 libbre d’argento per la statua
di s. Marcellino, stabilì che in S. Maria Maggiore si recitassero le Ore, e la
messa potesse essere applicata per chiunque. Perciò la data del 7 Gennaio 1698
come inizio dell’ufficiatura va riferita all’approvazione per quanto già si
faceva da trent’anni. In S. Giovanni i tre canonici ultimi nominati si recavano
a recitare gli uffici della settimana santa e dei Defunti. Dal 14 Marzo 1836,
autorizzati dal vescovo Puoti, ritennero più utile celebrare tutti insieme in
S. Maria.
Come la Cattedrale anche S. Maria ottenne i
mansionari. I primi de furono istituiti dal vescovo Puoti, il 16 Marzo 1832.
Usarono cotta e mozzetta violacea, ed ebbero una rendita di 50 ducati annui,
metà del lascito Iacobelli, e metà del lascito Mastrodomenico. Nel 1834 ne
furono aggiunti altri due, col lascito D’Errico.
Ridotto il numero dei canonici a sei, la dispensa
dal coro fu data a un canonico per settimana; nel 1920 fu ridotta ai giorni
festivi, ed è cessata del tutto nell’immediato Dopoguerra.
Siccome la messa conventuale era applicata per la
volontà dei testatori, nel 1707 il vescovo Porfirio impose una seconda conventuale
per tutti i benefattori. Il ricorso di S. Maria alla congr. dei Vescovi
patrocinato dal celebre Francesco Monacelli, autore del «Formulario», dette
ragione ai canonici.
Pure nel ‘600 un altro onore: la qualifica di
collegiata insigne. Era il riconoscimento di tanti fatti: il numero dei
sacerdoti che la officiavano, la prima dignità, il servizio liturgico quotidiano,
il nuovo culto per il patrono s. Marcellino.
Le pratiche per sollecitare il decreto non ci sono
ben note. Il decreto proclamava: «Collegiatam Ecclesiam S. Mariae Majoris oppiai
Pedemontis, ad omnes juris effectus, Insignem esse, atque ideo honoribus, praerogativis,
praeheminentiis, atque privilegiis Collegiatarum Insignium frui, gaudere posse
et debere». Così il 9 Luglio 1650 si esprimeva la Congr. dei Riti, e
l’originale sta nell’archivio capitolare di S. Maria Maggiore. Dieci anni dopo,
Papa Alessandro VII emanò un breve di conferma, il 21 Gennaio 1660, e il 3
Giugno usc’ un altro rescritto che, il 26, fu presentato al vescovo Dossena per
l’esecuzione.
Il titolo di basilica. – Coronamento di tutti
questi titoli è quello di basilica.
Fu sollecitato dal vescovo Novello, firmato da Papa
Pio XII il 24 Dicembre 1945 e controfirmato dal sostituto della Segreteria di
Stato Giovan Battista Montini, e giunse a Piedimonte nel Maggio ’46.
Il papa vi si rifà al fatto che Piedimonte è città
residenziale del vescovo di Alife, che S. Maria ne è il tempio più grande, omnium
maximum, riedificata nel neoclassico del ‘700 classico stylo confectum,
che vi convengono la classe dirigente e i forestieri, specialmente per
venerarvi le reliquie di s. Marcellino potissimumque (exuvias) sancti
Marcellini, e che vi è la cattedra vescovile. Per questo, nel terzo
centenario dell’anno (1645) in cui s. Marcellino fu dichiarato patrono di
Piedimonte, il ven. fratello Luigi Novello vescovo, a nome suo, dei canonici e
dei cittadini ha supplicato che venisse dichiarata basilica.
Il Papa, sentito il parere del Cardinali Salotti
Prefetto della Congregazione dei Riti, la proclama basilica minore:
smemorata Ecclesiam et Collegiatam – S.e Mariae Majoris titulo et digitate
Basilicae minoris officimus et declaramus cum omnibus juribus ac privilegiis
rite competentibus.
L’alto onore non comporta la qualifica di
«pontificia», come per errore è stato scritto sulla porta, e che spetta quando
è di proprietà della S. Sede. L’originale del decreto sta nell’archivio di S.
Maria.
Arcipreti di Piedimonte. – …1325 Non nominato: paga
le decime insieme agli altri ecclesiastici di Piedimonte[7];
1328. Non nominato: paga 9 tarì di decime; vivente 1417 Non nominato: sta nel
Regolamente del vescovo Sanfelice, art. 20; vivente 1499 Gian Crisostomo de
Parrillis: edifica la cappella inferiore della Madonna delle grazie a Cila;
vivente 27 V 1504 Benedetto Clarelli (o Clavelli): ha tomba in S. Giovanni;
vivente 1562-60 Marco Confreda; vivente 1567 Fulvio de Franchis: nel Settembre
1581 promosso canonico palatino a Lucera; 22 XII 1581 Gian Vincenzo Paterno;
vivente 1609-18 Pietro Iacobucci; vivente 1620 Domizio de Nozze, de Nuptiis;
…Gian Luigi Suave, morto nella peste del 1656; 19 XII 1656 Gian Angelo de
Nozze, nominato a 27 anni, arciprete per 51 anni †18 V 1707; vivente 1713-25
Michelangelo Pagano; …Nicola del Stefano †1 VIII 1745; …Antonio de Stefano †6 I
1756; …Gian Felice Meola †8 VIII 1775; …Gian Francesco Trutta †11 XII 1786;
…Nicola de Clavellis †3 XII 1788; …Pasquale Paterno †8 V 1804; 25 V 1804 Nicola
Gambella †30 I 1811; 5 IV 1812 Carlo Ragucci †4 II 1832; …Filippo Ciminelli †5
X 1838; …Ferdinando Iannucci †7 V 1852; …Luigi Merolla †2 I 1884; …Marcellino
Civitillo †13 XI 1904; 24 II 1905 Vincenzo Tartaglia †19 III 1915; 12 X 1919
Gian Giuseppe Pacella, trasferito 26 III 1931 alla cattedrale; 26 II 1933 Luigi
della Paolera †19 VII 1962. Dal 1962 la prima dignità ecclesiastica di
Piedimonte non è stata conferita.
Bibliografia: su S. Maria Maggiore ampie notizie in
tutte le storie di Piedimonte; Trutta Gian Francesco: Cronaca di quattro
secoli, mss che l’Associazione Storica va pubblicando sull’annuario; già
pubblicato «Secolo XV» su Annuario 1977; Anonimo: Memoria dell’arcipretura di
S. Maria Maggiore (Caserta 1834), De Luca card. Giovan Battista: Theatrum
veritatis et justitiae (Venetiis 1706); li. III, pars. II De praeheminentiis, a
pag. 24: Pro Capitulo Pedimontis cum ecclesiis Castri et Vallatae; Monacelli
Francesco: Compendio del formulario legale pratico del foro ecclesiastico
(l’allegazione per S. Maria Maggiore sta nel tomo I, additio pag. 33,
dell’edizione di Venezia di Baglioni); Quaglia Angelo: Memorie nella
confutazione del voto del promotore fiscale nella causa alifana (…);
Spennati-Gallotti: Difesa per l’Insigne Collegiata di S. Maria Maggiore.
È nata anch’essa nel 1417, conseguenza del
regolamento arbitrale del vescovo Sanfelice. Con le stesse bolle pontificie
della precedente ebbe sei canonici curati, con l’obbligo del coro in comune nei
giorni festivi, con le insegne del rocchetto e della mozzetta viola con
cappuccio. Esattamente come S. Maria Maggiore, la cura fu esercitata da due per
una settimana, poi per un anno, fino al 1867.
Nel 1719 il numero dei sacerdoti che la officiavano
fu raddoppiato.
Il raddoppiamento dei canonici era effetto
dell’accresciuta popolazione di Vallata, dell’accresciuto clero, e anche di
emulazione verso l’altra collegiata.
Le rendite di due confraternite esistenti nella
chiesa – il Sacramento e l’Annunciazione – dovevano servire alla prebende dei
nuovi beneficiati. Tutto fu preparato dal vescovo Porfirio. Il 9 Giugno 1719,
Papa Clemente XI emanò un breve con cui autorizzava il raddoppiamento, che fu
munito di Regio Exequatur il 26 Settembre. «Esibita siquidem Nobis nunc pro
parte dilectorum filiorum unius SS. Sacramenti et alterius SS. Annunciationis
B. M. V. de Vallata nuncupatae Terrae Pedemontis Alliphanae Dioecesis sitarum,
modernorum Guberantorum petitio continebat…». Le rendite dovevano servire
alla nuova istituzione: «ad aliorum sex canonicatuum praebendarum huiusmodi
fundationem, et dotationem, sub infrascriptis conditionibus inter eosdem
Gubernatores et sex nunc existentes canonicos dictae Collegiatae Ecclesiae».
L’istituzione dei nuovi canonici portò a un urto di
competenze: a chi spettava la nomina?… Pretesero il diritto 1) il Principe di
Piedimonte, ma fu escluso, perché era protettore ma non fondatore delle
confraternite; 2) l’Università ma fu esclusa perché niente di suo aveva dato
per la fondazione; 3) gli Economi delle due cappelle fondatrici; 4) il Vescovo.
Ne venne una causa interminabile, discussa nella Real Camera di S. Chiara, che
ebbe momenti forti: la Real Camera ritenne abusivo il raddoppiamento e
antigiuridico, contra jus publicum erectos fuisse, et irritum ab inizio
fuisse; arrivò, il 1 Dicembre 1781 una violenta lettera del Re contro le
intromissioni del Principe nella nomina; l’Università, vista la piega che
pigliavano le cose, li rinunziò al Fisco nel parlamento del 14 Dicembre 1783.
Finalmente, dopo altre riunioni del Tribunale di S. Chiara, uscì la sentenza
del Cappellano Maggiore: i redditi dei sei derivano da commutazione di
testamenti? Ebbene solo il sovrano può legittimare questo. Perciò,
l’istituzione canonica è fatta dal vescovo, e la nomina, con Real Cedola, sarà
fatta dal Re. Era il caso di dire: fra i quattro litiganti il quinto gode. O
così, o annullamento della fondazione. Ma il pientissimus Princeps non
volle il detrimento spirituale della popolazione, e tutto rimase. Così, fino al
1860 sei canonici dell’Annunziata furono nominati con Real Biglietto.
***
Anche
l’Annunziata volle i mansionari ad imitazione della Cattedrale e di S. Maria
Maggiore.
Dietro richiesta, il vescovo Puoti li istituiva il
25 Aprile 1841. Nella bolla ordinava di dare la destra a quelli di S. Maria
Maggiore tum ratione praecedentis institutionis, tum etiam quod principali
ac insigni ecclesia fuerunt emancipati. Una mozzetta violacea ne era
l’insegna. La rendita era poca: 15 Ducati annui, e 100 messe. I primi furono
Abbatelli, Abbraccio, Guglietti e Ricciardi.
Dal 21 Giugno 1734 il Capitolo dette al più vecchio
il titolo di Decano. Non costituiva il rango di dignità da nominare con bolla
pontificia, e dopo il 1867, quando fu introdotta la cura perpetua, fu annessa
all’ufficio di parroco.
In molti documenti dal ‘700 in poi, propri della
chiesa, appare la qualifica di «insigne». Manca però il documento pontificio.
Nella bolla di Papa Clemente XI è qualificata solo Collegiata.
Nessuna notizia se ne ha nelle Rationes decimarum
del 1308-28. La prima notizia storica sta nel regolamento del vescovo Sanfelice
del 1417: anche il castello di Piedimonte fu organizzato in una parrocchia
collegiale. Si trattò di riunire nell’unica chiesa locale i preti per la cura
d’anime a turno? O di riunirli da chiese diverse? Di queste però non si ha
ricordo, e non resta che la prima possibilità.
Già prima del 1417, nella giurisdizione
ecclesiastica del Castello stava il casale di monte Pedùccoli, che poi prese
nome dalla chiesa di S. Gregorio, e comprendeva pure una sezione della conca
del lago Matese, a sinistra scendendo dalla via di monte Raspato (dal 1810 la
sezione attribuita a Castello sta invece a destra. Acqua di S. Maria e Capo di
campo): «i confini andavano per quella parte che conduce alla terra del Tino,
dalla via delli Jelaturi, al presente chiamati delle Tràvole, che scende alla
cappella vecchia, e tira per diritto alla cappella nuova, e poi uscendo alla
sorgiva chiamata l’acqua del Sambuco, esce al vallone e via di S. Massimo»[8].
L’ultima redazione dello statuto capitolare risale
all’800 e fu firmata dai canonici curati del tempo Francesco Saverio
Costantini, Gabrielangelo Catorcio, Antonio Catorcio, Giovan Giuseppe Pezzullo,
Stanislao Sciullo, Francesco Orlando.
La Collegiata risulta composta di sei canonici
curati. Tale qualifica fu decisa dalla Congregazione del Concilio con le Decisiones
del 14 Marzo 1856; e sanzionata da Ppa Pio IX il 30 Agosto. Manca un
dignitario; un Ebdomadario celebra, e presiede il coro a turno.
Non esistono benefici singoli: i beni sono in massa
comune (Furono incamerati per cinque sesti nel 1867).
Ogni anno, il 31 Dicembre, si svolgevano le elezioni
interne. Venivano eletti due curati, un sacrista, un procuratore (per amministrare),
un puntatore (per segnare gli assenti), due razionali (per la revisione dei
conti). Officiavano tutti i giorni festivi, la settimana santa, le Rogazioni,
tre processioni del Corpus Domini, i venerdì e numerosi altri giorni per gli
anniversari, secondo una tabella mensile. L’abito corale risulta di rocchetto e
mozzetta violacea.
I volumi delle conclusioni sono assai lacunosi.
L’ultimo inizia il 31 Dicembre 1860, e dal 1880 non risulta più continuato.
La cura delle anime. – Primo problema fu la
cura d’anime. Il termine stesso di «collegiata» ci rimanda al concetto di
parrocchia collegiale. Nel ‘4-‘500, ad evitare il frazionamento della cura
d’anime fra chiese e cappelle di un paese, si preferì riunire parroci e
cappellani in una sola chiesa, facendoli esercitare a turno generalmente due
per anno, a volte per una settimana, dopo scelti dal loro collegio stesso, e
perciò vicari curati.
Questo sistema sottraeva al vescovo la nomina dei
parroci delle parrocchie più importanti. E i vescovi tentarono di eliminare
questo diritto, restringendo la cura in un solo individuo, da essi nominato. Il
primo tentativo di abolirla ci fu nel 1600.
La cura sarebbe stata affidata all’arciprete. Saputo
ciò, i canonici fecero appello al Papa e alla Congregazione (atto notarile
Achille de Parrillis del 14 Marzo 1600): «se gravatos translatione curae
existentis penes collegium ad archipresbyterum unum…». Il 21 Febbraio 1601
la Congregazione dei Vescovi diede ragione ai canonici[9].
Se n’è parlato a proposito del vescovo Gavazzi.
Nel 1648 la questione fu ripresa dal vescovo De
Medici. La Congregazione del Concilio prima approvò, poi, dietro ricorso dei canonici,
ordinò che non si mutasse niente, nihil
innovetur. Era il 5 Dicembre.
Anche il vescovo Porfirio introdusse la cura
perpetua in S. Maria Maggiore. Nuovo ricorso dei canonici, e il 12 Gennaio 1726
altra vittoria: due curati annui.
Due decreti dalla Real Camera della Sommaria, del 27
Giugno e del 7 Settembre 1794, esoneravano dalla tassa le collegiate di Piedimonte,
in quanto formate da dodici parroci ognuna. Anche la Real Camera di S. Chiara,
il 1 Febbraio 1796 dichiarava che i canonici delle collegiate piedimontesi
erano tutti curati in titolo e con cura effettiva.
Come se tutto questo non fosse stato sufficiente, il
vescovo Gentile, il 16 Marzo 1811 spinto dal governo, rimise il curato unico in
S. Maria. Di fronte al fatto che uno diveniva attore e undici spettatori a
vita, mutato governo, nel 1817 una petizione dei canonici e del comune di
Piedimonte chiese il ripristino dei due curati annuali. L’insistenza fu tale
che il 26 Giugno, il vescovo accondiscese: omnia reducantur in pristinum.
Ne venne un rapporto al ministro degli affari ecclesiastici sulle collegiate
piedimontesi, e in conseguenza, il Real Rescritto del 19 Maggio 1819, col quale
veniva ordinato lo stato giuridico delle collegiate di Piedimonte. Fu assodato
che in origine erano vere chiese parrocchiali, che i preti beneficiati avevano
diritto al titolo di canonici, che la cura d’anime era di tutto il Capitolo.
Ancora
un tentativo del vescovo Di Giacomo: nominare i canonici con suo biglietto,
senza concorso. Immediato ricorso, e il 10 Marzo 1856, una dichiarazione della
congregazione del Concilio, il 15 Luglio approvata da Papa Pio IX, fu
immediatamente munita di Regio Exequatur. Altro tentativo c’era stato il 6
Novembre 1851. Di Giacomo dichiarò di voler proporre nuovi candidati
all’Annunziata: i canonici avrebbero scelto. Ricorso, e il 29 Dicembre 1853
rispose la congregazione del Concilio. Intervenne energicamente anche il nunzio
a Napoli, e il 4 Febbraio 1854, nella cappella del seminario fu fatto
l’accordo.
I tentativi dei vescovi riuscirono a causa della
diminuzione del clero, ma soprattutto per il fatto che il governo aveva
riconosciuto un solo parroco, e non riconosceva parrocchie collegiali. Ormai,
il 9 Settembre 1905, un decreto vescovile per S. Maria Maggiore poteva
dichiarare: «actualis cura animarum apud unum Vicarium tantum esse debet».
Il 26 Febbraio 1919 tanto confermava anche la congregazione del Concilio. Gli
altri canonici, arciprete compreso, non dovevano immischiarvisi: nullo pacto
se immisceri valeat. Anche l’arciprete godeva soltanto il beneficio: sola
dignitate polleri in dicta Collegiata, absque ulla actuali cura animarum.
Le insegne canonicali. – I canonici-parroci di
Piedimonte, fin dal 1417 usavano il rocchetto e la mozzetta viola con
cappuccio. Con lo sviluppo di Piedimonte e dei suoi enti ecclesiastici, si
cominciò a pensare a insegne di maggior decoro.
Primo desiderio fu la cappa magna, cioè intera sia
nel drappo amaranto estivo, sia nella pelliccia bianca invernale. La supplica
al Re Ferdinando IV, di cui non si è trovato l’originale, fu trasmessa dal
sovrano alla Consulta dei vescovi, il 16 Marzo 1803, e da questa al Cappellano maggiore,
e questi il 25 Aprile s’informò presso il vescovo Gentile. Ma gli interessati
chiacchierarono, e subito ci fu il ricorso del Capitolo e dell’università di
Alife. Il 31 Maggio il vescovo rispose asserendo che le collegiate di
Piedimonte erano corpi più recenti del capitolo di Alife, sfornite di canonica
erezione al titolo (aveva dimenticato le bolle di Sisto IV e di Callisto III?),
e di assenso regio; che per l’accordo del 2 Gennaio 1741, la cattedrale assiste
il vescovo anche nelle chiese di Piedimonte, ma che comunque si poteva dare
qualche insegna superiore ai piedimontesi (i quali sono in maggioranza nel
capitolo di Alife).
Il
17 Agosto 1803 giunse al vescovo la risposta negativa del Re, tramite il
ministro Migliorini. «Sua Maestà mi ha imposto di scriverLe che non ha luogo la
domanda, e vuole che non si faccia su tale punto alcuna novità».
Nello
stesso anno fallì pure il tentativo per la mezza cappa (quella che si ripiega
sulla spalla sinistra), nonostante l’appoggio dell’arcivescovo Gervasio di
Capua, allora cappellano maggiore.
Mutato
il governo, nel 1862, su richiesta del consiglio comunale di Piedimonte, il
vescovo Di Giacomo si rivolse a Re Vittorio Emanuele II, tramite il Ministro di
Giustizia e Culto. Il decreto reale venne nello stesso anno, e il 4 Gennaio
1863 in S. Maria Maggiore e nell’Annunziata furono indossate le cappe con la
pelliccia di ermellino (si rifiutò di farlo il canonico Salzillo
dell’Annunziata). Ma ecco l’immancabile ricorso della cattedrale.
La
Congregazione Concistoriale proibì le insegne date dal sovrano italiano,
in quanto chi aveva diritto di farlo era il sovrano delle Due Sicilie.
Ma l’indumento era troppo ambito per potervi rinunziare. Continuarono a indossarle,
e continuarono pure i ricorsi del capitolo di Alife (i cinque canonici
cittadini alifani, ma i sette piedimontesi non si associarono). Si arrivò alla
proibizione perentoria i 4 Agosto 1883: la Congregazione proibì negative in
omnibus et amplius [10].
Si
giunse a una parziale soluzione. Il 20 Marzo 1891, il vescovo Scotti ottenne
dalla Congregazione la mezza cappa, però con drappo viola e pelliccia cinerea,
come quella dei mansionari della cattedrale di Benevento. Il breve di Papa
Leone XIII[11] autorizzava:
assumere valeant hyeme perdurante, cappam brevem cum pellibus cinerei
coloris …et cum panno serico violacei coloris tempore aestivo. Queste
insegne sono durate fino all’estinzione delle collegiate verso il 1960.
Rapporti fra Cattedrale e Collegiate. – Può meravigliare un
clamoroso incidente, una lunga e dispendiosa causa fra ecclesiastici, per
motivi che ai «moderni» sembrano futili. Si deve tener presente il movente
psicologico basato sulla coscienza dell’importanza raggiunta dai gruppi ecclesiastici
di Piedimonte. Si aggiunga l’interpretazione di norme giuridiche non ben
definite. Ma proprio dall’urto di competenze veniva una sintesi più chiara e
più stabile. Tali furono i rapporti fra cattedrale e collegiate.
Sulla norma che il parroco associa il
cadavere alla sepoltura, derivò il principio che i canonici di Piedimonte,
tutti parroci, dovessero celebrare essi le esequie, anche quando interveniva la
Cattedrale. Si opponeva l’altro principio, secondo cui la Cattedrale, organismo
superiore, non tiene conto di quella norma.
Un primo incidente avvenne il 27 Ottobre 1734, a
morte del primicerio F. Meola. Il vescovo Battiloro decretò che i funerali
fossero fatti in S. Maria Maggiore dalla Cattedrale: licitum sit fieri
associatio supradicti cadaveris per RR.dos Canonicos Capitulares. Immediato
ricorso di S. Maria ad Sanctissimum, e cioè al Papa. Intanto non
intervennero ai funerali e non sonarono le campane. Il vescovo mandò gente
assoldata a sonarle.
A Roma, nella congr. dei Riti, presieduta dal cardinale
Gotti, gli avvocati di S. Maria affacciarono i seguenti dubbi: È lecito alla cattedrale,
anche se non invitata, intervenire ai funerali dei propri canonici, nel
territorio di S. Maria Maggiore? E dietro quale croce? Quella della cattedrale
o quella locale? Mancano i documenti, ma pare che la risposta fu affermativa
per la cattedrale[12].
Ma non fu definitiva. C’era stata una dichiarazione
del ministro Secchioni a favore dei canonici di Piedimonte. A morte del vescovo
Gentile nuovo urto, nel 1822: chi deve essere il capo funzionante? Le esequie a
Piedimonte e a Napoli furono pagate dai canonici di Piedimonte e dal sindaco,
ben 150 Ducati. Avrebbe funzionato il curato di quell’anno di S. Maria (perché
Mons. Gentile era morto in episcopio, alla Crocevia; morendo in seminario,
avrebbe funzionato il collega dell’Annunziata). Si finì dall’intendente di
Caserta, il quale comunicò il fatto al giudice regio in Piedimonte. Questi
pensò bene di armare la gendarmeria! «come se avessero dovuto espugnare Buda,
Magonza o Costantina», dice il cronista[13].
Il giudice innanzi all’episcopio, diffidò il curato di S. Maria e autorizzò il
curato della cattedrale a pigliare il primo posto. Ma i due rivali già avevano
indossato il piviale. Il giudice ordinò alla gendarmeria di fare il proprio
dovere, e i gendarmi ordinarono ai canonici di mettersi a rango. Questi (di S.
Maria e dell’Annunziata) gettarono via le candele, e si ritirarono protestando.
Si arrivò a un accordo: il vescovo De Martino,
ricordando tutto questo, e in previsione della morte di Re Ferdinando I,
convocò gl’interessati e, con atto del notaio R. Gismondi, il 24 Gennaio 1825,
fu stabilito, in otto articoli, partita vinta per la cattedrale. Il 5 Ottobre,
Re Francesco I sanzionava l’accordo.
Le con cattedrali e la residenza del vescovo. – Piedimonte dal 1806 era
capoluogo di distretto. Fra le autorità stava il vescovo, ma la cattedrale
stava ad Alife. Senza modificar niente, non era il caso di proclamare con
cattedrali le due collegiate di Piedimonte, dove già il vescovo svolgeva da
secoli tutte le sue funzioni?
Il desiderio delle collegiate trovò un’eco nel
progetto del canonico C. G. Iacobelli, il quale mise su «Articoli per l’unione
delle tre chiese di Alife, di Piedimonte e di Vallata, formandosi una
cattedrale di s7 canonici e mansionari»[14].
Quando Papa Pio IX, nella bolla Compertum Nobis dichiarò Piedimonte
città vescovile, Episcopali residentia dignum planeque idoneum esse
censeatur, il progetto parve vicino alla realizzazione. Il vescovo, dissero
a Piedimonte, s’intitolerà aliphanus seu pedemontanus. Non è lo stesso
per il vicino vescovo thelesinus seu cerretanus? Risiederà
obbligatoriamente a Piedimonte; il Capitolo della cattedrale sarà unico in tre
sezioni; insieme si amministrerà il seminario; nelle processioni si stabilirà
una precedenza personale, non di sezione, ad eccezione delle tre dignità.
Ma ecco il ricorso del Capitolo di Alife, e il 20
Dicembre 1853 uscirono le Declarationes della congregazione
concistoriale, firmate dal cardinale Antici Mattei: Piedimonte resti
provvisoriamente residenza vescovile provvisoriam residentiam episcopalem,
la cui prosecuzione resti affidata al prudente giudizio del vescovo prudenti
libitu suo moram et residentiam in civico Pedemontis oppido; il vescovo
s’intitolerà alitano Aliphanum tantum modo nuncupandum; che, per i
canonici, stare ad Alife o a Piedimonte non è la stessa cosa esse haud
omnino equiparatas[15]
.
Le cause contro l’insignità di S. Maria Maggiore. – Gli urti di preminenza
fra le collegiate di Piedimonte, esplodono, si può dire, dal 1650, data della
qualifica di chiesa insigne a S. Maria Maggiore. Si arrivò a cause
interminabili, alla base delle quali c’era la gelosia: dai canonici-parroci di
Vallata e di Castello si insisteva che S. Maria aveva ottenuto la distinzione
superiore «per prepotenza de’ Padroni». Prepotenza sta nel senso di grande
influenza, dei duchi di Laurenzana signori di Piedimonte che favorivano il
collegio sacerdotale della chiesa attigua al castello. Pare che chi mosse la
controversia fu in canonico Baffi di Castello, familiare del cardinale Cecchini
Prodatario, al quale il cardinale aveva promesso il cardinalato una volta
eletto papa.
Il 13 Marzo 1651, S. Croce e Annunziata chiesero che
venisse sciolta l’unione fra S. Maria e S. Giovanni. Nessuno ricordava la data
dell’unione, che aveva portato a dodici il numero dei sacerdoti di quella
chiesa. Neanche essi si presentarono e furono dichiarati contumaci dal vescovo
De Medici. Perdurando l’ostilità, S. Maria si rivolse a Papa Alessandro VII.
L’assenza al processo aveva fatto venire una minacciosa bolla di Papa Innocenzo
X il 31 Luglio 1651: con quali prove S. Maria affermava i suoi diritti? «…contumaces declaramus, ita et taliter… de juribus producendis nullam
haberi rationem decernimus et declaramus».
Il momento brutto fu superato. Il 21 Gennaio 1660 un
nuovo rescritto confermava la qualifica contrastata.
***
Mancava
il documento dell’unione fra S. Maria e S. Giovanni, ma il decreto d’insignità
era un fatto. Fu quanto sostenne il vescovo Dossena. Per cui, di fronte a una
nuova supplica dell’Annunziata al nuovo Pro Datario, «sciocchissima» secondo
Trutta, e piena di falsità, (era il processo spedito a Roma dal vescovo De
Medici), e dovendo rispondere a una lettera scritta il 16 Giugno 1660 dal
Prodatario per ordine del Papa, monsignor Dossena rispose il 10 Luglio.
L’avvocato di S. Maria Maggiore, G. B. de Luca[16]
alle sue perorazioni, e al lungo memoriale del vescovo, ne aggiunse un altro
dello stesso, il 26 Ottobre, speditogli da Frascati, e il 21 Gennaio 1662 la
congregazione dei Riti dichiarò che S. Maria Maggiore era insigne: «…Constare
de insignitate S. Mariae Majoris Terrae Pedimontis Aliphanae dioecesis, eique
deberi procedentiam super Collegiatas SS. Annunciatae de Vallata, et S. Crucis
de Castro». Nonostante il perpetuum silentium imposto, un estremo
tentativo di Vallata e Castello fu l’appello direttamente al Papa: l’insignità
era usurpata; i decreti estorti alla congregazione dei Riti; si rimandi la
causa alla Dataria, e intanto si impedisca a S. Maria di dichiararsi «insigne».
Terza causa. Mangiavano gli avvocati. E il 4 Marzo 1662 il terzo decreto:
respinto l’appello e silenzio per sempre! «E.mi Patres S. Rituum
Congregationi Praepositi, ex quo ejusmodi controversia mature discussa,
impositum sit perpetuum silentium die 21 Januarii p. p. rescribi mandaverunt».
S. Maria chiese che si comunicasse il provvedimento al vescovo[17].
Morto monsignor Dossena, subentrò monsignor
Caracciolo (n. 45 della serie). Questi s’era messo in lotta aperta contro
Piedimonte. Lasciò ricominciare da capo agli avversari di S. Maria. Denunziate
le cose a Roma, gli arriva questa lettera dal cardinale Ginetto: l’Annunziata e
S. Croce non obbediscono ai decreti della congregazione, continuano a
intitolarsi chiese matrici, al Congregazione ordina mandat
Amplitudini tuae di far eseguire esattamente i decreti, ut executionem
decretorum adamussim adimplere faciat, et inhobedientes compellat, etiam sub
censuris, Caracciolo, il 21 Marzo 1665 rispose con una lettera meschina
che, riportandola, degraderebbe questa pubblicazione: la frase più divertente è
che i canonici di S. Maria erano dei provocatori, agivano alla Masaniello, more
Masanellorum. Ma anche quelli di S. Maria avevano spedito il loro rapporto.
Confrontate le due missive, apparì la verità, e per Caracciolo fu scritta una
lettera severa, come si conveniva a un accecato dalla faziosità: Lei è
esecutore, non interprete! Adeo admirati sunt, et acriter (i Cardinali
della congregazione dei Riti) che la Congregazione ha emanato ordini, et
quod viceversa Te saltem indirecte predicate Insigni Collegiatae opposueris,
proibendo campanarum sonum, ac ejusdem Collegiatae S. Mariae Majoris canonicos
rejciendo in consacratione Olei sancti. Adeo, inquam, aegre tulerunt E.mi
Cardinales, ut omnes unanimiter censuerint committendum esse, prout commiserunt
Ill.mo Nunzio neapolitano predictorum decretorum executionem. Figuraccia
peggiore non poteva fare! La questione veniva tolta alla sua giurisdizione e
affidata al nunzio. Ma lo meritava. Un rappresentante dei «contumaci» (di
Vallata e Castello) doveva andare a Roma a chiedere perdono a nome di tutti. Atque
haec omnia Tibi graviter significanda esse, ut in posterum, tantum merus
executor, et non iterpres te geras in executionem et observantiam decretorum S.
Congregationis, quod dum Te facturum spero. Era il 20 Giugno 1665. Firmava
il cardinale Ginetto Prefetto e monsignor Casali Segretario[18].
Il nunzio delegò un commissario. Le ammonizioni
furono appese alle porte dell’Annunziata e di S. Croce. Dopo due giorni quella
dell’Annunziata si trovò lacerata. Era stato un canonico di quella chiesa, che
rimase scomunicato. E siccome la scomunica era connessa all’arresto da parte
della forza pubblica, andò fuggiasco per molto tempo.
Altre cause di preminenza. – Come se tante cause non
fossero avvenute, l’Annunziata, nel 1735 rinnovò i tentativi. Fece domandare
dal card. Origo ai S. Riti: si devono eseguire i decreti d’insignità di S.
Maria? Risposero di sì, affirmative; l’Annunziata è insigne? No, negative;
a quale delle due si deve la precedenza? A S. Maria, e lì si deve convenire per
le processioni; il canonico anziano dell’Annunziata ha diritto al titolo di
decano? Solo come nome, quoad nudam denominationem tantum. Per responsi
simili se ne andò parecchio denaro il 6 Agosto 1735.
S. Maria Maggiore (era morto il suo patrocinante
Marcellino de Lucia, che tante cause aveva vinte, ed ora aveva per avvocato De
Retz) fece chiedere dal Cardinale Gentili: quanto è stato deciso il 6 Agosto,
deve essere osservato? Bisognava leggere i testi. Il vescovo Isabelli si scusò,
e giudicò la causa il cardinale Cenci arcivescovo di Benevento. Il 23 Luglio
1738 tutti a Benevento in calesse, per Caiazzo e Capua! (la via per Telese non
era adatta), e finalmente il 28 Novembre 1739, innnanzi a quattordici
cardinali, fu sciolto il dubbio: tutto come prima! In
decisis, in omnibus et non amplius. Et ita decrevit et servasi mandavit.
S. Maria volle il placet regio, e questo
venne il 9 Febbraio 1741. L’Annunziata sconfitta, tramite il principe di
Piedimonte, cercò di ottenere qualcosa dal libero volere dei colleghi di S.
Maria, e si arrivò al «concordato» del 28 Maggio 1745 (atto per notaio Gian
Giacomo Gallo di Castello): tutte le precedenze a S. Maria; si permette
all’Annunziata di appellarsi «insigne»; tutte le processioni separate, eccetto
quella di s. Marcellino che percorre anche la Vallata. Campane e mortaretti
salutarono l’accordo raggiunto.
Era finita? Neanche per sogno. Nel 1773 l’Annunziata
ruppe il concordato. Campane a martello e assembramento di popolo. Il
commissario di campagna (di pubblica sicurezza) ordina funzioni separate. Nel
’75 l’Annunziata manca alla processione del Patrono, e nel ’78 suona le campane
di Sabato santo, un’ora prima dell’altra. Peggio successe il 2 Giugno: la
processione di s. Marcellino con il commissario e le squadre di polizia! L’anno
dopo, il clero di Vallata – è sempre Trutta che riferisce, in «Quattro secoli»
- paga i caicchi[19]
per ottenere che non si facesse la processione di s. Marcellino, ad evitare tumulti.
Così, dopo centotrentenni, s. Marcellino non uscì. Lo stesso fecero l’anno
dopo.
Informata dal commissario, la Real Camera comunicò
al sovrano la situazione intollerabile di Piedimonte, il 21 Agosto 1780: «…nel
sentimento che possa Vostra Maestà sovranamente risolvere che si esegua la
convenzione e concordia del 1745, osservata dalla stessa collegiata della
Vallata, e che se mai avvenga ogni qualunque inconveniente, e specialmente
nella processione di s. Marcellino, ne saranno i canonici della Vallata
responsabili a Vostra Maestà, e cadranno nella Regale Indignazione, con lo
sfratto dal Regno».
Intanto, il 7 Luglio ’81, Re Ferdinando IV, in
consiglio di ministri, riconosceva l’insignità di S. Maria in base ai decreti
pontifici, rigettava un ennesimo ricorso dell’Annunziata, ordinando rispetto
alle preminenze della prima.
All’avvicinarsi del 2 Giugno ’82, i soliti chiesero
udienza al Re, a Caserta, e domandarono che per quell’anno la processione fosse
sospesa. Ma ottennero l’effetto contrario. Il 29 Maggio, pure in consiglio dei
ministri, «Ferdinando IV per la Dio grazia Re…» tenendo presente il decreto del
7 Luglio precedente, ordinò di rispettare le precedenze alla processione del
Protettore e che di qualunque sommossa di plebe «ne saranno essi canonici di
Vallata responsabili», e puniti con lo sfratto dal regno. Finalmente si imponeva
quel che si sarebbe dovuto imporre da 150 anni!.
Il testo è riportato su una lapide già in S. Maria,
ora nel corridoio della sacrestia. Le «sommosse», così spontanee, finirono
d’incanto. Tutto in pace fino al 1860. Al ’61, nuovo tentativo dell’Annunziata.
Dal 2 Giugno ’98 i canonici di Vallata sono mancati alla processione del
Patrono.
Cause di confine. – Il confine fra le parrocchie di
Piedimonte e di Vallata stava sul ponte di Toranello (oggi detto Maretto, in
quanto emissario del laghetto nella villa ducale). Il fiumicello fu
effettivamente spostato all’altro lato del convento (oggi piazza) del Carmine.
Qual era ora il confine? Ne venne un cretino tafferuglio, e una causa
interminabile. Il 25 Aprile 1660, il clero di Vallata volle andare
processionalmente a quella chiesa, e più oltre, a S. Marco. Ricorsi alla
congregazione dei Vescovi e Regolari: spostato il fiume, non è spostato anche
il confine? Intanto il vescovo Dossena proibisce ai Vallatani di passare il
ponte. Quelli vanno lo stesso, ma vi trovano, dice Trutta[20]
«Orazio sol contro Toscana tutta». Tafferuglio, ritorno e altri ricorsi.
Spassose le imprecazioni dei Vallatani contro i Piedimontesi: «Turchi!
Luterani! Così si impediscono i divini uffici? Così si tratta la s. Croce?».
Secondo essi era stata gettata a terra e spezzata, ma secondo gli avversari era
solo caduta. Ma la testimonianza dei Domenicani decise in favore di S. Maria
Maggiore: prime a tirar pietre era state donne di Vallata. Il vescovo di
Telese, Pier Francesco Moja, trasmise a Roma la sua inchiesta, e il 18 Gennaio
1662, la Congregazione dei cardinali decretò che Vallata non doveva passare la metà
del ponte: non licere… nisi usque ad medietatem pontis.
***
Abbiamo
dato notizia di un’attività non certo decorosa di una parte del clero
diocesano. Tacerla? «idealizzare» la storia?… ma invece di storia sarebbe
venuto fuori un romanzo.
Insieme alle pagine delle savie istituzioni, della
cultura, della carità e della santità, era necessario anche questo richiamo a
una realtà meschina, per riportare il ricordo e la valutazione del passato a
quel che fu realmente, e non a quello che noi, con gli interessi e la mentalità
di oggi avremmo voluto che fosse.
Il Vescovato
Alifano nel Medio Volturno Home page
[1] Gattola, Acc.
[2] Eubel: Hyer. VI 79; f. 30 sgg., e VI 57.
[3] Eubel: Hyer. VI 79; f. 30 sgg., e VI 57.
[4] Trutta: 4 Secoli, mss. 165; Finelli: o. c. 149, presenta un attestato secondo cui gli antichi canonici avevano avuto l’uso della mitra: «Libro dei conti capitolari 1802. Per fede estratta dal protocollo della famiglia de’ Balsi, d’aver avuto gli antichi canonici della Cattedrale l’uso della mitra e del pontificale, per mano dell’arcidiacono Cirioli grana 40».
[5] Acta Cancellariae as 11 K.
[6] Cfr. 4 Secoli, 158-60 mss.
[7] Rationes Decimarum: Campania, 191
[8] Sorge Giuseppe: Causa delle decime (Napoli 1739).
[9] Cfr. mss. S. Maria Maggiore 193.
[10] Monitore ecclesiastico, a. 8, f. 3.
[11] Bullarium, pag. 32.
[12] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 273.
[13] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 635.
[14] Manoscritto presso l’ASMV.
[15] Archivio della Cattedrale di Alife cas. 3.
[16] Autore del De praeheminentiis già ricordato, coltissimo canonista nato da povera famiglia a Venosa, prima uditore, poi dal 1° Settembre 1681 cardinale, + 15 Febbraio 1683.
[17] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 220 sgg.
[18] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 235.
[19] Dal turco Kaìk, scialuppa a servizio di una nave, indica impiegati inferiori e corrotti, v. manoscritto di S. Maria Maggiore, 290.
[20] Quattro secoli, 209 mss.