Il Vescovato Alifano nel Medio Volturno              Home page

 

 

        Dal libro: Il Vescovato alifano nel Medio Volturno, di Dante B. Marrocco; Edizioni ASMV – Piedimonte Matese, 1979.

 

 

Capitolo III

 

CATTEDRALE E COLLEGIATE

 

 

IL CAPITOLO DELLA CATTEDRALE

 

Origine e costituzioni. – Non si ha traccia di un collegium di sacerdoti dal V al X secolo.

Negli anni intorno al Mille si trova un nucleo di ecclesiastici unito al vescovo. Insieme con Vito firmano un atto, l’anno 987, Cennamus diaconus, Johannes diaconus, Guimundus presbyter, Aczo (pronunciato Accio) presbyter, Benedictus subdiacomnus[1]. Queste firme però non portano a concludere all’esistenza di un Capitolo regolarmente costituito, con canonici e dignitari.

Nel 1252, Papa Innocenzo IV raccomanda al Capitolo Magister Alferius, canonico alifano. È la prima notizia del Capitolo.

Nel ‘300 il Capitolo appare nelle Rationes decimarum (Rat. Dec. Campania, 190), e risulta tassato per tarenos X, e nel 1328 la tassa è portata a 15 tarì. Ecco il testo:

1308  Archidiaconus alifanus pro beneficiis suis que valent uncias VI, solvit tarenos IX (con i residui)

         Primicerius dicte Ecclesie s. tarenos VI.

         Capitulum alufanum tarenos IX.

1328  Capitulo alifano tarenos XV.

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Titolare e patrona del Capitolo è s. Lucia, la martire siracusana, e l’effige di lei appare nel sigillo. (Per le probabili ragioni di questo culto speciale del Capitolo, v. il capitolo Culti speciali).

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Da quando fu aperta al culto la Cattedrale edificata dal conte Rainulfo, il Capitolo vi ebbe sempre la sua sede.

Crollata nel 1688, il Capitolo si trasferì a s. Maria la Nova ma siccome la chiesa era umida, i canonici piedimontesi ottennero dalla congregazione del Concilio che l’ufficiatura, salva Cathedralitate, fosse portata in altra sede, stabilita dall’ordinario. Il vescovo De Lazzàra la trasferì all’Annunziata di Piedimonte, dietro decreto di quella congregazione, del 26 Luglio 1690.

L’Università di Alife, ricostruita la Cattedrale, invitò i canonici a tornare, ma quelli si rifiutarono a causa della malaria e della via impraticabile. Dopo ricorso di Alife, la Congregazione il 15 Maggio 1692 ordinò di tornare. Nuovo rifiuto dei canonici, e nuovo ordine della Congregazione, il 15 Aprile ’93. Ancora un rifiuto.

Alife ricorre all’arcivescovo di Benevento, affinché faccia applicare il decreto.

L’arcivescovo Orsini viene sul posto, osserva e, il 15 Aprile 1693 si ha il decreto della congregazione sinodale. Niente.

Si arriva al 19 Aprile ’99, quando si ha l’ordine perentorio o ritorno o sequestro delle rendite[2].

Il numero dei canonici è stato per secoli di sei, oltre ai due dignitari, l’arcidiacono e il primicerio. È infondata la notizia che in passato fossero stati ventisei.

Nel 1565 firmarono il ricorso contro il vescovo Nogueras due dignitari e sei canonici. Lo stesso numero si ha nel 1676. Nel 1752 ne troviamo invece dodici[3].

Nel 1861 il vescovo Di Giacomo aggiunse i sei cappellani di s. Caterina, tre come canonici e tre come suddiaconi. Per questo il coro ha diciotto posti.

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Un sinodo romano del 1735 emanò direttive riguardo agli statuti.

Un primo statuto del Capitolo, oggi è introvabile. Il 6 Agosto 1889 i canonici approvarono un nuovo statuto preparato dal can. Vincenzo di Buccio, completamente autonomo dalle direttive.

Con la codificazione del diritto canonico nel 1917, lo statuto dovette essere rifatto. Il 13 Maggio 1920 l’incarico fu dato al can. Pasquale Tartaglia. Questi preparò un vero e proprio trattato, che fu ritenuto esorbitante da una commissione di canonici, e respinto.

Il vescovo Noviello affidò la riforma dello statuto ai canonici G. di Caprio, F. S. Finelli e M. di Muccio, e il testo fu approvato dal vescovo il 9 Ottobre ’42, per un anno, e definitivamente l’anno dopo.

Le costituzioni capitolari della Cattedrale di Alife, conformate all’art. 459 C. J. C., si compongono di sette paragrafi. Da notare che la prima parte dell’art. 1 è storicamente infondata.

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Il parroco di Alife non apparteneva al capitolo.

Con Real Dispaccio del 2 Marzo 1782, e con delibera del 6, fu annesso al capitolo un altro canonicato con cura d’anime, mansione prima esercitata da un prete extra gremium.

Il 1 Giugno 1790, il vescovo Gentile dichiarò in apposita bolla che la carica di curato era di libero conferimento vescovile, e perciò si doveva chiamare «canonico curato» e non «vicario curato».

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Fra l’altro, dallo statuto si ha notizia delle insegne.

Stando a Trutta, fino al vescovo Isabelli (1735-52) i canonici avevano usato rocchetto e mozzetta violacea[4].

Riguardo alla sottana violacea le notizie sono contrastanti. Il 17 Settembre 1726 la Congregazione del Concilio concesse l’uso della zyrma, ossia sottana violacea con collare e zona, ossia fascia a due fiocchi[5]. Altra notizia invece è che la sottana violacea caudata, fu concessa da Re Ferdinando IV nel 1789 su richiesta del vescovo Gentile, «per impedire li passaggi che li canonici della Cattedrale facevano spesso nelle suddette Collegiate» (Mss. presso l’ASMV, 26).

Il 23 Giugno 1917, Papa Benedetto XV, su richiesta del vescovo Del Sordo concesse il palliolum, cioè la matelletta violacea. Così l’abito prelatizio era completo.

La tipica insegna dei cavalieri e dei canonici, la lacerna, ossia la cappa, di tessuto viola, rialzata sulla spalla sinistra, era ricoperta di pelliccia bianca dal 31 Ottobre all’antivigilia di Pentecoste. Ciappe d’argento tenevano sospeso il cappuccio, e dal fianco sinistro pendeva lo stolone violaceo con nocche amaranto.

Quanto alla mozzetta papale almùtia, che sostituì quella violacea, s’ignora la data non lontana di concessione. È probabile ai tempi del vescovo Puoti che la concesse anche all’arciprete di San Gregorio.

Queste insegne così caratteristiche e distinte, nel 1972 sono state sostituite da un mozzetta nera.

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La frequenza al coro anticamente era di obbligo due volte al giorno per l’intero Capitolo.

Data la situazione eccezionale secondo cui la maggior parte dei capitolari veniva da Piedimonte, si ebbe il decreto della Congregazione del Concilio, per cui l’ufficio divino veniva recitato per intero nella sola mattinata.

Sempre a causa del dispendio economico, il 20 Giugno 1789 fu emanato il decreto della Real Camera di s. Chiara, per la frequenza a settimana alternata, disposizione che fu confermata l’11 Marzo 1911 dalla Congregazione del Concilio. Il 10 Maggio 1962 la stessa Congregazione autorizzava i canonici per un triennio, a intervenire al coro nelle sole domeniche e il 2 Febbraio, Mercoledì delle Ceneri, Giovedì e Venerdì santo e 10-11 Agosto.

È del 2 Gennaio 1741 una costituzione per cui i canonici della Cattedrale devono assistere il vescovo anche a Piedimonte.

 

Arcidiaconi e primiceri. – Non è stato possibile ricostruire, anteriormente al 1688, almeno la serie dei dignitari del Capitolo.

Oltre ai quattro che salirono sulla cattedra vescovile – Giovanni Alferio, Angelo Sanfelice, Giovanni Bartolo, Angelo Sarro, cinque a volervi includere Vito diacono – troviamo nel 1565 Ascanio de Notariis.

Lo stesso va detto per i primiceri, uno dei quali Gabriele Ventriglia, nel 1852 fu nominato vescovo di Caiazzo. Nel 1535 viveva Loisio Acilio, nel 1565 Troiano Mirillo (Milillo?).

Dal 1688 le due serie sono complete. Arcidiaconi: 17 V 1690 Francesco Pezza (di Piedimonte); 16 V 1710 Domenico de Benedictis (Piedimonte); 2 II 1722 Francesco Pierleone (Piedimonte); 12 IV 1727 Saverio Paterno (Piedimonte); 11 X 1744 Silvestro Scasserra (Piedimonte); 10 X 1773 Cesare Cardelli (Piedimonte) 15 X 1775 Raffele de Cesare (Raviscanina); 1 IV 1798 Giacinto Cirioli (Alife); 7 I 1803 Vincenzo Meola (Piedimonte); 1 IX 1850 Ottavio Scappaticcio (Piedimonte); 4 II 1863 Luigi Cornelio (Alife); 30 VI 1881 Francesco Ferrurri (Alife); 22 II 1888 Luigi Paterno (Piedimonte); 5 VII 1896 Giuseppe Prota (Piedimonte); 24 XII 1899 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 10 X 1910 Domenico Macchiarelli (Alife); 28 VII 1932 Giuseppe Colella (Alife); 14 I 1938 Girolamo Di Caprio (Alife); 26 V 1965 Michele Di Muccio (Piedimonte); 1 II 1975 Francesco Corsini (Alife).

Primiceri: 15 X 1690 Stefano de Angelis (Piedimonte); 8 VI 1700 Nicola Coridano (o Giordano, Piedimonte); 23 II 1706 Giuseppe Perrino (Piedimonte); 9 VII 1710 Nicola De Stefano (Piedimonte); 20 VI 1730 Francesco Meola (Piedimonte); 24 VI 1735 Francesco De Marco (Piedimonte); 20 IX 1736 Pasquale De Stefano (Piedimonte); 13 I 1741 Filippo Iannitelli (Piedimonte); 4 VII 1756 Ignazio de Benedictis (Piedimonte); 2 VII 1779 Pasquale Giorgio (Piedimonte); 29 XII 1822 Gabriele Ventriglia (Piedimonte); 3 VI 1850 Giuseppe Fiondella (Calvisi); 9 III 1862 Luca Panella (Alife); 31 XII 1879 Francesco Ferrucci (Alife); 30 VI 1881 Giuseppe Prota (Piedimonte); 1 II 1897 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 15 IV 1900 Vincenzo La Catena (Piedimonte); 8 XII 1906 Domenico Macchiarelli (Alife); 20 VIII 1911 Giuseppe Amato (Alife); 26 III 1931 Giangiuseppe Pacella (Piedimonte); 8 V 1937 Luigi Vastano (Piedimonte); 15 VII 1947 Pasquale Panella (Alife); 21 VII 1959 Egidio Ciaramella (Alife); 14 XI 1964 Raffaele Ricigliano (Piedimonte).

Non trovata la nomina di Michele Rossi Primicerio alifano, fra i teologi del concilio regionale di Benevento nel 1695. Lo stesso per Gaetano di Renzo, † 1800.

 

LA COLLEGIATA INSIGNE DI S. MARIA MAGGIORE

La storia di questa Collegiata, nella sua ascesa durante i secoli XVI-XVII-XVIII, fa da parallelo nel campo ecclesiastico allo sviluppo di Piedimonte di cui è chiesa madre, matrix.

L’origine giuridica della Collegiata di s. Maria, come delle altre, risale al 1417, al regolamento del vescovo Sanfelice.

La parrocchia collegiale derivò dalla riunione, in s. Maria, dei rettori delle piccole chiese di Piedimonte: S. Maria, S. Arcangelo, S. Maria degli Angeli, S. Benedetto (oggi Pietà), S. Pietro (incorporata a S. Domenico), e S. Caterina a San Potito: una cura d’anime fatta collegialmente da tutti i parroci in una sola chiesa.

I canonici curati riuniti in S. Giovanni non si capisce da quali altre parrocchie derivassero. Certo, se la bolla dell’arcivescovo Capace di Benevento è autentica, si dovettero riunire presto ai loro colleghi in S. Maria; se non è autentica, come sostiene Trutta nella Cronaca di quattro secoli, S. Maria ebbe fin dal primo ‘500, dodici canonici-parroci.

Dal 1417 il territorio della Collegiata termina al Toranello (oggi Maretto), che però fu spostato dalla sinistra alla destra del Carmine (ove scorre tuttora), abbraccia l’intero Cila; termina pure con la tesa dopo la cappella inferiore sulla via vecchia di Castello, e abbracciava le montagne fino al confine con Gioia; in pianura seguiva il corso di Torano vecchio. Per il distacco di San Potito e di Spicciano, il confine è arretrato.

Il confine con San Potito, dal 14 Aprile 1601, per decreto del vescovo Gavazzi, oggi segue quello dei due comuni, dal Purgatorio alla Cappella.

Il confine con Spicciano, dal 3 Ottobre 1696 per decreto del vescovo de Lazàra, segue il vallone d’Agnese fino alla confluenza nel Torano.

La giurisdizione della Collegiata sul territorio appare da autorizzazioni e divieti.

Nei primi anni del ‘700 il Capitolo vieta al padre Cuzzani l’erezione di una casa dei chierici regolari minori allo Scorpeto. L’assenso ci fu invece nel 1710 alla duchessa Aurora Sanseverino Gaetani per la costruzione della chiesa superiore della Madonna delle Grazie a Cila, che sta al confine della parrocchia: «Niente si negò alla Signora Duchessa per opera sì lodevole e santa».

Il diritto ad andare processionalmente nella chiesa della Trinità, oggi s. Lucia in territorio di Vallata, per celebrarvi la festa della Trinità, già accennato nell’art. 35 del laudo del vescovo Sanfelice, esiste sicuramente dal ‘300.

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Lo sviluppo diciamo «interno» di questa chiesa non può essere tralasciato.

Dalle bolle di Callisto III, Nicolò IV e dell’arcivescovo Capace risultano 7 canonici in S. Maria, 5 in S. Giovanni.

Il 22 Dicembre 1581, il vescovo Santoro, da Roma, dichiara già esistenti i due gruppi in S. Maria. La bolla Ex injuncto adduce la ragione che S. Giovanni, in alto, non è frequentata: «…Et pro majori populi dictae terrae devozione… ac in eadem ecclesia cultus divini aumento, sex canonicatus, et totidem praebendas in ecclesia sancti Johannis Baptistae dictae, terrae Pedemontis, ad conventum Christifidelium minime apta, et fere inaccessibili, et non frequentata, existentes, et populi dictae terrae devozione in eam in dies refrigescente, sita inibi suppressimus et extinximus, totidemque canonicatus et praebendas… in eadem ecclesia beatae Mariae pro sex Canonicis… una cum aliis, unum Capitulum efficerent…ereximus et instituimus». Ma quando? Non dice la data. Il vescovo stava in diocesi dal 1569.

Trutta nella Cronaca presenta un atto del Notaio Aquilante de Martinis di Piedimonte, del 1533, secondo cui l’arciprete e undici canonici di S. Maria affrancano una certa rendita; e negli anni 1522-49, ricevono derrate e denaro dal procuratore… Dove sta l’errore?… Non solo: ma se i canonici di S. Giovanni erano parroci, era possibile che non si parla di un territorio di loro giurisdizione?… ed erano sei o cinque?

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L’arcipretura. – Se è incerta la questione dell’unione fra i due collegi ecclesiastici di Piedimonte, con data sicura, 22 Dicembre 1581, è l’atto con cui fu fissato in S. Maria Maggiore l’arciprete di Piedimonte quale dignitario della collegiata. È chiaro che la carica vi stava da tempo. La bolla Ex injuncto fu fatta per l’arciprete Paterno.

S. Maria riteneva la prima dignità ecclesiastica di Piedimonte, e questa fu l’altra ragione del suo primato, e della qualifica di Maggiore, che dal ‘500 in poi troviamo unita al titolo antico.

L’arcipretura, già riportata nelle Rationes decimarum del 1325, certamente prolunga l’esistenza a secoli prima, ma piuttosto come un incarico che come beneficio, come dignità in seguito nominata sempre con la bolla pontificia dietro concorso. Le entrate però erano scarse, dice Santoro: «…fructus, redditus et proventus adeo tenues et exilis existunt, ut archipresbyter ejusdem Ecclesiae pro tempore existens, nedum se ex illis juxta sui gradus qualitatem, decenter mantenere, sed ne vix quidam tenuissime se substentare valeat».

Trentasette anni dopo, il vescovo Genovese, nel suo arbitrato fra arciprete e canonici, del 18 Dicembre 1618, ne stabilì diritti ed onori: primo fra tutti i preti di Piedimonte e casali in qualsiasi manifestazione: «…referendum esse omnibus Canonicis S. Mariae Majoris, et toto Clero dictae Terrae et Casalium…». La prebenda doveva esser quella del canonico più anziano. Il 26 Gennaio 1620, la congr. dei Riti l’approvò definitivamente.

La bolla di nomina veniva spedita per semplice segnatura, data la mancanza di rendita. Nel 1775 il vescovo Sanseverino spedì la nomina all’arciprete Trutta, ignorando che spettava al papa, con autorità ordinaria, in quanto godeva della sola preminenza e della doppia distribuzione.

Da chiarire un ultimo dubbio. Data l’importanza che la carica aveva per Piedimonte capoluogo del distretto, a chi spettava? Al più vecchio o al più meritevole? Altra causa famosa, per la quale si arrivò in consiglio di ministri. L’8 Marzo 1835, Re Ferdinando II ordinò che per la provvista dell’arcipretura di Piedimonte si applicasse il concordato del 1818: l’art. 10 riservava alla S. Sede la nomina di ogni primo dignitario di capitolo. La perorazione dell’arcidiacono Scappaticcio aveva prevalso.

Una volta annessa l’arcipretura di Piedimonte a un canonicato di S. Maria Maggiore, qualsiasi tentativo di separare era assurdo. Tanto tentò di fare l’arciprete Gian Angelo de Nozze: tenersi l’arcipretura (com’era stato per secoli), e dare al nipote, canonico Potenza, il canonicato.

Nel 1700 ottenne la separazione dalla Datarla apostolica. Ma i canonici ricorsero al Papa. L’avv. Domenico di Tommaso, un piedimontese di gran notorietà a Napoli, difese zio e nipote servendosi della bolla del vescovo Santoro, ma a nulla valse. Il 23 Dicembre 1706, la Segnatura di giustizia ordinò il sequestro dei beni. Scrive Trutta che i due ne morirono di dispiacere[6].

Ufficiatura e qualifica di «insigne». – Il rito quotidiano collegiale, come nelle cattedrali, ebbe inizio quando il 5 Aprile 1691 (Strumento Notaio Cesare Loffreda) la duchessa Cassandra de Capua Gaetani assegnò una somma per una messa quotidiana, col suono della campana grande all’elevazione. Tutte queste notizie sono esposte nella Cronaca di Trutta.

Nel 1669, per legato di un’altra duchessa, Diana del Capua Gaetani, ebbe inizio la messa conventuale. La pia e munificente signora, che ventisei anni prima aveva donato 50 libbre d’argento per la statua di s. Marcellino, stabilì che in S. Maria Maggiore si recitassero le Ore, e la messa potesse essere applicata per chiunque. Perciò la data del 7 Gennaio 1698 come inizio dell’ufficiatura va riferita all’approvazione per quanto già si faceva da trent’anni. In S. Giovanni i tre canonici ultimi nominati si recavano a recitare gli uffici della settimana santa e dei Defunti. Dal 14 Marzo 1836, autorizzati dal vescovo Puoti, ritennero più utile celebrare tutti insieme in S. Maria.

Come la Cattedrale anche S. Maria ottenne i mansionari. I primi de furono istituiti dal vescovo Puoti, il 16 Marzo 1832. Usarono cotta e mozzetta violacea, ed ebbero una rendita di 50 ducati annui, metà del lascito Iacobelli, e metà del lascito Mastrodomenico. Nel 1834 ne furono aggiunti altri due, col lascito D’Errico.

Ridotto il numero dei canonici a sei, la dispensa dal coro fu data a un canonico per settimana; nel 1920 fu ridotta ai giorni festivi, ed è cessata del tutto nell’immediato Dopoguerra.

Siccome la messa conventuale era applicata per la volontà dei testatori, nel 1707 il vescovo Porfirio impose una seconda conventuale per tutti i benefattori. Il ricorso di S. Maria alla congr. dei Vescovi patrocinato dal celebre Francesco Monacelli, autore del «Formulario», dette ragione ai canonici.

Pure nel ‘600 un altro onore: la qualifica di collegiata insigne. Era il riconoscimento di tanti fatti: il numero dei sacerdoti che la officiavano, la prima dignità, il servizio liturgico quotidiano, il nuovo culto per il patrono s. Marcellino.

Le pratiche per sollecitare il decreto non ci sono ben note. Il decreto proclamava: «Collegiatam Ecclesiam S. Mariae Majoris oppiai Pedemontis, ad omnes juris effectus, Insignem esse, atque ideo honoribus, praerogativis, praeheminentiis, atque privilegiis Collegiatarum Insignium frui, gaudere posse et debere». Così il 9 Luglio 1650 si esprimeva la Congr. dei Riti, e l’originale sta nell’archivio capitolare di S. Maria Maggiore. Dieci anni dopo, Papa Alessandro VII emanò un breve di conferma, il 21 Gennaio 1660, e il 3 Giugno usc’ un altro rescritto che, il 26, fu presentato al vescovo Dossena per l’esecuzione.

 

Il titolo di basilica. – Coronamento di tutti questi titoli è quello di basilica.

Fu sollecitato dal vescovo Novello, firmato da Papa Pio XII il 24 Dicembre 1945 e controfirmato dal sostituto della Segreteria di Stato Giovan Battista Montini, e giunse a Piedimonte nel Maggio ’46.

Il papa vi si rifà al fatto che Piedimonte è città residenziale del vescovo di Alife, che S. Maria ne è il tempio più grande, omnium maximum, riedificata nel neoclassico del ‘700 classico stylo confectum, che vi convengono la classe dirigente e i forestieri, specialmente per venerarvi le reliquie di s. Marcellino potissimumque (exuvias) sancti Marcellini, e che vi è la cattedra vescovile. Per questo, nel terzo centenario dell’anno (1645) in cui s. Marcellino fu dichiarato patrono di Piedimonte, il ven. fratello Luigi Novello vescovo, a nome suo, dei canonici e dei cittadini ha supplicato che venisse dichiarata basilica.

Il Papa, sentito il parere del Cardinali Salotti Prefetto della Congregazione dei Riti, la proclama basilica minore: smemorata Ecclesiam et Collegiatam – S.e Mariae Majoris titulo et digitate Basilicae minoris officimus et declaramus cum omnibus juribus ac privilegiis rite competentibus.

L’alto onore non comporta la qualifica di «pontificia», come per errore è stato scritto sulla porta, e che spetta quando è di proprietà della S. Sede. L’originale del decreto sta nell’archivio di S. Maria.

 

Arcipreti di Piedimonte. – …1325 Non nominato: paga le decime insieme agli altri ecclesiastici di Piedimonte[7]; 1328. Non nominato: paga 9 tarì di decime; vivente 1417 Non nominato: sta nel Regolamente del vescovo Sanfelice, art. 20; vivente 1499 Gian Crisostomo de Parrillis: edifica la cappella inferiore della Madonna delle grazie a Cila; vivente 27 V 1504 Benedetto Clarelli (o Clavelli): ha tomba in S. Giovanni; vivente 1562-60 Marco Confreda; vivente 1567 Fulvio de Franchis: nel Settembre 1581 promosso canonico palatino a Lucera; 22 XII 1581 Gian Vincenzo Paterno; vivente 1609-18 Pietro Iacobucci; vivente 1620 Domizio de Nozze, de Nuptiis; …Gian Luigi Suave, morto nella peste del 1656; 19 XII 1656 Gian Angelo de Nozze, nominato a 27 anni, arciprete per 51 anni †18 V 1707; vivente 1713-25 Michelangelo Pagano; …Nicola del Stefano †1 VIII 1745; …Antonio de Stefano †6 I 1756; …Gian Felice Meola †8 VIII 1775; …Gian Francesco Trutta †11 XII 1786; …Nicola de Clavellis †3 XII 1788; …Pasquale Paterno †8 V 1804; 25 V 1804 Nicola Gambella †30 I 1811; 5 IV 1812 Carlo Ragucci †4 II 1832; …Filippo Ciminelli †5 X 1838; …Ferdinando Iannucci †7 V 1852; …Luigi Merolla †2 I 1884; …Marcellino Civitillo †13 XI 1904; 24 II 1905 Vincenzo Tartaglia †19 III 1915; 12 X 1919 Gian Giuseppe Pacella, trasferito 26 III 1931 alla cattedrale; 26 II 1933 Luigi della Paolera †19 VII 1962. Dal 1962 la prima dignità ecclesiastica di Piedimonte non è stata conferita.

Bibliografia: su S. Maria Maggiore ampie notizie in tutte le storie di Piedimonte; Trutta Gian Francesco: Cronaca di quattro secoli, mss che l’Associazione Storica va pubblicando sull’annuario; già pubblicato «Secolo XV» su Annuario 1977; Anonimo: Memoria dell’arcipretura di S. Maria Maggiore (Caserta 1834), De Luca card. Giovan Battista: Theatrum veritatis et justitiae (Venetiis 1706); li. III, pars. II De praeheminentiis, a pag. 24: Pro Capitulo Pedimontis cum ecclesiis Castri et Vallatae; Monacelli Francesco: Compendio del formulario legale pratico del foro ecclesiastico (l’allegazione per S. Maria Maggiore sta nel tomo I, additio pag. 33, dell’edizione di Venezia di Baglioni); Quaglia Angelo: Memorie nella confutazione del voto del promotore fiscale nella causa alifana (…); Spennati-Gallotti: Difesa per l’Insigne Collegiata di S. Maria Maggiore.

 

COLLEGIATA DELL’ANNUNZIATA

È nata anch’essa nel 1417, conseguenza del regolamento arbitrale del vescovo Sanfelice. Con le stesse bolle pontificie della precedente ebbe sei canonici curati, con l’obbligo del coro in comune nei giorni festivi, con le insegne del rocchetto e della mozzetta viola con cappuccio. Esattamente come S. Maria Maggiore, la cura fu esercitata da due per una settimana, poi per un anno, fino al 1867.

Nel 1719 il numero dei sacerdoti che la officiavano fu raddoppiato.

Il raddoppiamento dei canonici era effetto dell’accresciuta popolazione di Vallata, dell’accresciuto clero, e anche di emulazione verso l’altra collegiata.

Le rendite di due confraternite esistenti nella chiesa – il Sacramento e l’Annunciazione – dovevano servire alla prebende dei nuovi beneficiati. Tutto fu preparato dal vescovo Porfirio. Il 9 Giugno 1719, Papa Clemente XI emanò un breve con cui autorizzava il raddoppiamento, che fu munito di Regio Exequatur il 26 Settembre. «Esibita siquidem Nobis nunc pro parte dilectorum filiorum unius SS. Sacramenti et alterius SS. Annunciationis B. M. V. de Vallata nuncupatae Terrae Pedemontis Alliphanae Dioecesis sitarum, modernorum Guberantorum petitio continebat…». Le rendite dovevano servire alla nuova istituzione: «ad aliorum sex canonicatuum praebendarum huiusmodi fundationem, et dotationem, sub infrascriptis conditionibus inter eosdem Gubernatores et sex nunc existentes canonicos dictae Collegiatae Ecclesiae».

L’istituzione dei nuovi canonici portò a un urto di competenze: a chi spettava la nomina?… Pretesero il diritto 1) il Principe di Piedimonte, ma fu escluso, perché era protettore ma non fondatore delle confraternite; 2) l’Università ma fu esclusa perché niente di suo aveva dato per la fondazione; 3) gli Economi delle due cappelle fondatrici; 4) il Vescovo. Ne venne una causa interminabile, discussa nella Real Camera di S. Chiara, che ebbe momenti forti: la Real Camera ritenne abusivo il raddoppiamento e antigiuridico, contra jus publicum erectos fuisse, et irritum ab inizio fuisse; arrivò, il 1 Dicembre 1781 una violenta lettera del Re contro le intromissioni del Principe nella nomina; l’Università, vista la piega che pigliavano le cose, li rinunziò al Fisco nel parlamento del 14 Dicembre 1783. Finalmente, dopo altre riunioni del Tribunale di S. Chiara, uscì la sentenza del Cappellano Maggiore: i redditi dei sei derivano da commutazione di testamenti? Ebbene solo il sovrano può legittimare questo. Perciò, l’istituzione canonica è fatta dal vescovo, e la nomina, con Real Cedola, sarà fatta dal Re. Era il caso di dire: fra i quattro litiganti il quinto gode. O così, o annullamento della fondazione. Ma il pientissimus Princeps non volle il detrimento spirituale della popolazione, e tutto rimase. Così, fino al 1860 sei canonici dell’Annunziata furono nominati con Real Biglietto.

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Anche l’Annunziata volle i mansionari ad imitazione della Cattedrale e di S. Maria Maggiore.

Dietro richiesta, il vescovo Puoti li istituiva il 25 Aprile 1841. Nella bolla ordinava di dare la destra a quelli di S. Maria Maggiore tum ratione praecedentis institutionis, tum etiam quod principali ac insigni ecclesia fuerunt emancipati. Una mozzetta violacea ne era l’insegna. La rendita era poca: 15 Ducati annui, e 100 messe. I primi furono Abbatelli, Abbraccio, Guglietti e Ricciardi.

Dal 21 Giugno 1734 il Capitolo dette al più vecchio il titolo di Decano. Non costituiva il rango di dignità da nominare con bolla pontificia, e dopo il 1867, quando fu introdotta la cura perpetua, fu annessa all’ufficio di parroco.

In molti documenti dal ‘700 in poi, propri della chiesa, appare la qualifica di «insigne». Manca però il documento pontificio. Nella bolla di Papa Clemente XI è qualificata solo Collegiata.

 

COLLEGIATA DI S. CROCE

Nessuna notizia se ne ha nelle Rationes decimarum del 1308-28. La prima notizia storica sta nel regolamento del vescovo Sanfelice del 1417: anche il castello di Piedimonte fu organizzato in una parrocchia collegiale. Si trattò di riunire nell’unica chiesa locale i preti per la cura d’anime a turno? O di riunirli da chiese diverse? Di queste però non si ha ricordo, e non resta che la prima possibilità.

Già prima del 1417, nella giurisdizione ecclesiastica del Castello stava il casale di monte Pedùccoli, che poi prese nome dalla chiesa di S. Gregorio, e comprendeva pure una sezione della conca del lago Matese, a sinistra scendendo dalla via di monte Raspato (dal 1810 la sezione attribuita a Castello sta invece a destra. Acqua di S. Maria e Capo di campo): «i confini andavano per quella parte che conduce alla terra del Tino, dalla via delli Jelaturi, al presente chiamati delle Tràvole, che scende alla cappella vecchia, e tira per diritto alla cappella nuova, e poi uscendo alla sorgiva chiamata l’acqua del Sambuco, esce al vallone e via di S. Massimo»[8].

L’ultima redazione dello statuto capitolare risale all’800 e fu firmata dai canonici curati del tempo Francesco Saverio Costantini, Gabrielangelo Catorcio, Antonio Catorcio, Giovan Giuseppe Pezzullo, Stanislao Sciullo, Francesco Orlando.

La Collegiata risulta composta di sei canonici curati. Tale qualifica fu decisa dalla Congregazione del Concilio con le Decisiones del 14 Marzo 1856; e sanzionata da Ppa Pio IX il 30 Agosto. Manca un dignitario; un Ebdomadario celebra, e presiede il coro a turno.

Non esistono benefici singoli: i beni sono in massa comune (Furono incamerati per cinque sesti nel 1867).

Ogni anno, il 31 Dicembre, si svolgevano le elezioni interne. Venivano eletti due curati, un sacrista, un procuratore (per amministrare), un puntatore (per segnare gli assenti), due razionali (per la revisione dei conti). Officiavano tutti i giorni festivi, la settimana santa, le Rogazioni, tre processioni del Corpus Domini, i venerdì e numerosi altri giorni per gli anniversari, secondo una tabella mensile. L’abito corale risulta di rocchetto e mozzetta violacea.

I volumi delle conclusioni sono assai lacunosi. L’ultimo inizia il 31 Dicembre 1860, e dal 1880 non risulta più continuato.

 

La cura delle anime. – Primo problema fu la cura d’anime. Il termine stesso di «collegiata» ci rimanda al concetto di parrocchia collegiale. Nel ‘4-‘500, ad evitare il frazionamento della cura d’anime fra chiese e cappelle di un paese, si preferì riunire parroci e cappellani in una sola chiesa, facendoli esercitare a turno generalmente due per anno, a volte per una settimana, dopo scelti dal loro collegio stesso, e perciò vicari curati.

Questo sistema sottraeva al vescovo la nomina dei parroci delle parrocchie più importanti. E i vescovi tentarono di eliminare questo diritto, restringendo la cura in un solo individuo, da essi nominato. Il primo tentativo di abolirla ci fu nel 1600.

La cura sarebbe stata affidata all’arciprete. Saputo ciò, i canonici fecero appello al Papa e alla Congregazione (atto notarile Achille de Parrillis del 14 Marzo 1600): «se gravatos translatione curae existentis penes collegium ad archipresbyterum unum…». Il 21 Febbraio 1601 la Congregazione dei Vescovi diede ragione ai canonici[9]. Se n’è parlato a proposito del vescovo Gavazzi.

Nel 1648 la questione fu ripresa dal vescovo De Medici. La Congregazione del Concilio prima approvò, poi, dietro ricorso dei canonici, ordinò che non si mutasse  niente, nihil innovetur. Era il 5 Dicembre.

Anche il vescovo Porfirio introdusse la cura perpetua in S. Maria Maggiore. Nuovo ricorso dei canonici, e il 12 Gennaio 1726 altra vittoria: due curati annui.

Due decreti dalla Real Camera della Sommaria, del 27 Giugno e del 7 Settembre 1794, esoneravano dalla tassa le collegiate di Piedimonte, in quanto formate da dodici parroci ognuna. Anche la Real Camera di S. Chiara, il 1 Febbraio 1796 dichiarava che i canonici delle collegiate piedimontesi erano tutti curati in titolo e con cura effettiva.

Come se tutto questo non fosse stato sufficiente, il vescovo Gentile, il 16 Marzo 1811 spinto dal governo, rimise il curato unico in S. Maria. Di fronte al fatto che uno diveniva attore e undici spettatori a vita, mutato governo, nel 1817 una petizione dei canonici e del comune di Piedimonte chiese il ripristino dei due curati annuali. L’insistenza fu tale che il 26 Giugno, il vescovo accondiscese: omnia reducantur in pristinum. Ne venne un rapporto al ministro degli affari ecclesiastici sulle collegiate piedimontesi, e in conseguenza, il Real Rescritto del 19 Maggio 1819, col quale veniva ordinato lo stato giuridico delle collegiate di Piedimonte. Fu assodato che in origine erano vere chiese parrocchiali, che i preti beneficiati avevano diritto al titolo di canonici, che la cura d’anime era di tutto il Capitolo.

Ancora un tentativo del vescovo Di Giacomo: nominare i canonici con suo biglietto, senza concorso. Immediato ricorso, e il 10 Marzo 1856, una dichiarazione della congregazione del Concilio, il 15 Luglio approvata da Papa Pio IX, fu immediatamente munita di Regio Exequatur. Altro tentativo c’era stato il 6 Novembre 1851. Di Giacomo dichiarò di voler proporre nuovi candidati all’Annunziata: i canonici avrebbero scelto. Ricorso, e il 29 Dicembre 1853 rispose la congregazione del Concilio. Intervenne energicamente anche il nunzio a Napoli, e il 4 Febbraio 1854, nella cappella del seminario fu fatto l’accordo.

I tentativi dei vescovi riuscirono a causa della diminuzione del clero, ma soprattutto per il fatto che il governo aveva riconosciuto un solo parroco, e non riconosceva parrocchie collegiali. Ormai, il 9 Settembre 1905, un decreto vescovile per S. Maria Maggiore poteva dichiarare: «actualis cura animarum apud unum Vicarium tantum esse debet». Il 26 Febbraio 1919 tanto confermava anche la congregazione del Concilio. Gli altri canonici, arciprete compreso, non dovevano immischiarvisi: nullo pacto se immisceri valeat. Anche l’arciprete godeva soltanto il beneficio: sola dignitate polleri in dicta Collegiata, absque ulla actuali cura animarum.

 

Le insegne canonicali. – I canonici-parroci di Piedimonte, fin dal 1417 usavano il rocchetto e la mozzetta viola con cappuccio. Con lo sviluppo di Piedimonte e dei suoi enti ecclesiastici, si cominciò a pensare a insegne di maggior decoro.

Primo desiderio fu la cappa magna, cioè intera sia nel drappo amaranto estivo, sia nella pelliccia bianca invernale. La supplica al Re Ferdinando IV, di cui non si è trovato l’originale, fu trasmessa dal sovrano alla Consulta dei vescovi, il 16 Marzo 1803, e da questa al Cappellano maggiore, e questi il 25 Aprile s’informò presso il vescovo Gentile. Ma gli interessati chiacchierarono, e subito ci fu il ricorso del Capitolo e dell’università di Alife. Il 31 Maggio il vescovo rispose asserendo che le collegiate di Piedimonte erano corpi più recenti del capitolo di Alife, sfornite di canonica erezione al titolo (aveva dimenticato le bolle di Sisto IV e di Callisto III?), e di assenso regio; che per l’accordo del 2 Gennaio 1741, la cattedrale assiste il vescovo anche nelle chiese di Piedimonte, ma che comunque si poteva dare qualche insegna superiore ai piedimontesi (i quali sono in maggioranza nel capitolo di Alife).

Il 17 Agosto 1803 giunse al vescovo la risposta negativa del Re, tramite il ministro Migliorini. «Sua Maestà mi ha imposto di scriverLe che non ha luogo la domanda, e vuole che non si faccia su tale punto alcuna novità».

Nello stesso anno fallì pure il tentativo per la mezza cappa (quella che si ripiega sulla spalla sinistra), nonostante l’appoggio dell’arcivescovo Gervasio di Capua, allora cappellano maggiore.

Mutato il governo, nel 1862, su richiesta del consiglio comunale di Piedimonte, il vescovo Di Giacomo si rivolse a Re Vittorio Emanuele II, tramite il Ministro di Giustizia e Culto. Il decreto reale venne nello stesso anno, e il 4 Gennaio 1863 in S. Maria Maggiore e nell’Annunziata furono indossate le cappe con la pelliccia di ermellino (si rifiutò di farlo il canonico Salzillo dell’Annunziata). Ma ecco l’immancabile ricorso della cattedrale.

La Congregazione Concistoriale proibì le insegne date dal sovrano italiano, in quanto chi aveva diritto di farlo era il sovrano delle Due Sicilie. Ma l’indumento era troppo ambito per potervi rinunziare. Continuarono a indossarle, e continuarono pure i ricorsi del capitolo di Alife (i cinque canonici cittadini alifani, ma i sette piedimontesi non si associarono). Si arrivò alla proibizione perentoria i 4 Agosto 1883: la Congregazione proibì negative in omnibus et amplius [10].

Si giunse a una parziale soluzione. Il 20 Marzo 1891, il vescovo Scotti ottenne dalla Congregazione la mezza cappa, però con drappo viola e pelliccia cinerea, come quella dei mansionari della cattedrale di Benevento. Il breve di Papa Leone XIII[11] autorizzava: assumere valeant hyeme perdurante, cappam brevem cum pellibus cinerei coloris …et cum panno serico violacei coloris tempore aestivo. Queste insegne sono durate fino all’estinzione delle collegiate verso il 1960.

Rapporti fra Cattedrale e Collegiate. – Può meravigliare un clamoroso incidente, una lunga e dispendiosa causa fra ecclesiastici, per motivi che ai «moderni» sembrano futili. Si deve tener presente il movente psicologico basato sulla coscienza dell’importanza raggiunta dai gruppi ecclesiastici di Piedimonte. Si aggiunga l’interpretazione di norme giuridiche non ben definite. Ma proprio dall’urto di competenze veniva una sintesi più chiara e più stabile. Tali furono i rapporti fra cattedrale e collegiate.

Sulla norma che il parroco associa il cadavere alla sepoltura, derivò il principio che i canonici di Piedimonte, tutti parroci, dovessero celebrare essi le esequie, anche quando interveniva la Cattedrale. Si opponeva l’altro principio, secondo cui la Cattedrale, organismo superiore, non tiene conto di quella norma.

Un primo incidente avvenne il 27 Ottobre 1734, a morte del primicerio F. Meola. Il vescovo Battiloro decretò che i funerali fossero fatti in S. Maria Maggiore dalla Cattedrale: licitum sit fieri associatio supradicti cadaveris per RR.dos Canonicos Capitulares. Immediato ricorso di S. Maria ad Sanctissimum, e cioè al Papa. Intanto non intervennero ai funerali e non sonarono le campane. Il vescovo mandò gente assoldata a sonarle.

A Roma, nella congr. dei Riti, presieduta dal cardinale Gotti, gli avvocati di S. Maria affacciarono i seguenti dubbi: È lecito alla cattedrale, anche se non invitata, intervenire ai funerali dei propri canonici, nel territorio di S. Maria Maggiore? E dietro quale croce? Quella della cattedrale o quella locale? Mancano i documenti, ma pare che la risposta fu affermativa per la cattedrale[12].

Ma non fu definitiva. C’era stata una dichiarazione del ministro Secchioni a favore dei canonici di Piedimonte. A morte del vescovo Gentile nuovo urto, nel 1822: chi deve essere il capo funzionante? Le esequie a Piedimonte e a Napoli furono pagate dai canonici di Piedimonte e dal sindaco, ben 150 Ducati. Avrebbe funzionato il curato di quell’anno di S. Maria (perché Mons. Gentile era morto in episcopio, alla Crocevia; morendo in seminario, avrebbe funzionato il collega dell’Annunziata). Si finì dall’intendente di Caserta, il quale comunicò il fatto al giudice regio in Piedimonte. Questi pensò bene di armare la gendarmeria! «come se avessero dovuto espugnare Buda, Magonza o Costantina», dice il cronista[13]. Il giudice innanzi all’episcopio, diffidò il curato di S. Maria e autorizzò il curato della cattedrale a pigliare il primo posto. Ma i due rivali già avevano indossato il piviale. Il giudice ordinò alla gendarmeria di fare il proprio dovere, e i gendarmi ordinarono ai canonici di mettersi a rango. Questi (di S. Maria e dell’Annunziata) gettarono via le candele, e si ritirarono protestando.

Si arrivò a un accordo: il vescovo De Martino, ricordando tutto questo, e in previsione della morte di Re Ferdinando I, convocò gl’interessati e, con atto del notaio R. Gismondi, il 24 Gennaio 1825, fu stabilito, in otto articoli, partita vinta per la cattedrale. Il 5 Ottobre, Re Francesco I sanzionava l’accordo.

 

Le con cattedrali e la residenza del vescovo. – Piedimonte dal 1806 era capoluogo di distretto. Fra le autorità stava il vescovo, ma la cattedrale stava ad Alife. Senza modificar niente, non era il caso di proclamare con cattedrali le due collegiate di Piedimonte, dove già il vescovo svolgeva da secoli tutte le sue funzioni?

Il desiderio delle collegiate trovò un’eco nel progetto del canonico C. G. Iacobelli, il quale mise su «Articoli per l’unione delle tre chiese di Alife, di Piedimonte e di Vallata, formandosi una cattedrale di s7 canonici e mansionari»[14]. Quando Papa Pio IX, nella bolla Compertum Nobis dichiarò Piedimonte città vescovile, Episcopali residentia dignum planeque idoneum esse censeatur, il progetto parve vicino alla realizzazione. Il vescovo, dissero a Piedimonte, s’intitolerà aliphanus seu pedemontanus. Non è lo stesso per il vicino vescovo thelesinus seu cerretanus? Risiederà obbligatoriamente a Piedimonte; il Capitolo della cattedrale sarà unico in tre sezioni; insieme si amministrerà il seminario; nelle processioni si stabilirà una precedenza personale, non di sezione, ad eccezione delle tre dignità.

Ma ecco il ricorso del Capitolo di Alife, e il 20 Dicembre 1853 uscirono le Declarationes della congregazione concistoriale, firmate dal cardinale Antici Mattei: Piedimonte resti provvisoriamente residenza vescovile provvisoriam residentiam episcopalem, la cui prosecuzione resti affidata al prudente giudizio del vescovo prudenti libitu suo moram et residentiam in civico Pedemontis oppido; il vescovo s’intitolerà alitano Aliphanum tantum modo nuncupandum; che, per i canonici, stare ad Alife o a Piedimonte non è la stessa cosa esse haud omnino equiparatas[15] .

 

Le cause contro l’insignità di S. Maria Maggiore. – Gli urti di preminenza fra le collegiate di Piedimonte, esplodono, si può dire, dal 1650, data della qualifica di chiesa insigne a S. Maria Maggiore. Si arrivò a cause interminabili, alla base delle quali c’era la gelosia: dai canonici-parroci di Vallata e di Castello si insisteva che S. Maria aveva ottenuto la distinzione superiore «per prepotenza de’ Padroni». Prepotenza sta nel senso di grande influenza, dei duchi di Laurenzana signori di Piedimonte che favorivano il collegio sacerdotale della chiesa attigua al castello. Pare che chi mosse la controversia fu in canonico Baffi di Castello, familiare del cardinale Cecchini Prodatario, al quale il cardinale aveva promesso il cardinalato una volta eletto papa.

Il 13 Marzo 1651, S. Croce e Annunziata chiesero che venisse sciolta l’unione fra S. Maria e S. Giovanni. Nessuno ricordava la data dell’unione, che aveva portato a dodici il numero dei sacerdoti di quella chiesa. Neanche essi si presentarono e furono dichiarati contumaci dal vescovo De Medici. Perdurando l’ostilità, S. Maria si rivolse a Papa Alessandro VII. L’assenza al processo aveva fatto venire una minacciosa bolla di Papa Innocenzo X il 31 Luglio 1651: con quali prove S. Maria affermava i suoi diritti? «…contumaces declaramus, ita et taliter… de juribus producendis nullam haberi rationem decernimus et declaramus».

Il momento brutto fu superato. Il 21 Gennaio 1660 un nuovo rescritto confermava la qualifica contrastata.

***

Mancava il documento dell’unione fra S. Maria e S. Giovanni, ma il decreto d’insignità era un fatto. Fu quanto sostenne il vescovo Dossena. Per cui, di fronte a una nuova supplica dell’Annunziata al nuovo Pro Datario, «sciocchissima» secondo Trutta, e piena di falsità, (era il processo spedito a Roma dal vescovo De Medici), e dovendo rispondere a una lettera scritta il 16 Giugno 1660 dal Prodatario per ordine del Papa, monsignor Dossena rispose il 10 Luglio.

L’avvocato di S. Maria Maggiore, G. B. de Luca[16] alle sue perorazioni, e al lungo memoriale del vescovo, ne aggiunse un altro dello stesso, il 26 Ottobre, speditogli da Frascati, e il 21 Gennaio 1662 la congregazione dei Riti dichiarò che S. Maria Maggiore era insigne: «…Constare de insignitate S. Mariae Majoris Terrae Pedimontis Aliphanae dioecesis, eique deberi procedentiam super Collegiatas SS. Annunciatae de Vallata, et S. Crucis de Castro». Nonostante il perpetuum silentium imposto, un estremo tentativo di Vallata e Castello fu l’appello direttamente al Papa: l’insignità era usurpata; i decreti estorti alla congregazione dei Riti; si rimandi la causa alla Dataria, e intanto si impedisca a S. Maria di dichiararsi «insigne». Terza causa. Mangiavano gli avvocati. E il 4 Marzo 1662 il terzo decreto: respinto l’appello e silenzio per sempre! «E.mi Patres S. Rituum Congregationi Praepositi, ex quo ejusmodi controversia mature discussa, impositum sit perpetuum silentium die 21 Januarii p. p. rescribi mandaverunt». S. Maria chiese che si comunicasse il provvedimento al vescovo[17].

Morto monsignor Dossena, subentrò monsignor Caracciolo (n. 45 della serie). Questi s’era messo in lotta aperta contro Piedimonte. Lasciò ricominciare da capo agli avversari di S. Maria. Denunziate le cose a Roma, gli arriva questa lettera dal cardinale Ginetto: l’Annunziata e S. Croce non obbediscono ai decreti della congregazione, continuano a intitolarsi chiese matrici, al Congregazione ordina mandat Amplitudini tuae di far eseguire esattamente i decreti, ut executionem decretorum adamussim adimplere faciat, et inhobedientes compellat, etiam sub censuris, Caracciolo, il 21 Marzo 1665 rispose con una lettera meschina che, riportandola, degraderebbe questa pubblicazione: la frase più divertente è che i canonici di S. Maria erano dei provocatori, agivano alla Masaniello, more Masanellorum. Ma anche quelli di S. Maria avevano spedito il loro rapporto. Confrontate le due missive, apparì la verità, e per Caracciolo fu scritta una lettera severa, come si conveniva a un accecato dalla faziosità: Lei è esecutore, non interprete! Adeo admirati sunt, et acriter (i Cardinali della congregazione dei Riti) che la Congregazione ha emanato ordini, et quod viceversa Te saltem indirecte predicate Insigni Collegiatae opposueris, proibendo campanarum sonum, ac ejusdem Collegiatae S. Mariae Majoris canonicos rejciendo in consacratione Olei sancti. Adeo, inquam, aegre tulerunt E.mi Cardinales, ut omnes unanimiter censuerint committendum esse, prout commiserunt Ill.mo Nunzio neapolitano predictorum decretorum executionem. Figuraccia peggiore non poteva fare! La questione veniva tolta alla sua giurisdizione e affidata al nunzio. Ma lo meritava. Un rappresentante dei «contumaci» (di Vallata e Castello) doveva andare a Roma a chiedere perdono a nome di tutti. Atque haec omnia Tibi graviter significanda esse, ut in posterum, tantum merus executor, et non iterpres te geras in executionem et observantiam decretorum S. Congregationis, quod dum Te facturum spero. Era il 20 Giugno 1665. Firmava il cardinale Ginetto Prefetto e monsignor Casali Segretario[18].

Il nunzio delegò un commissario. Le ammonizioni furono appese alle porte dell’Annunziata e di S. Croce. Dopo due giorni quella dell’Annunziata si trovò lacerata. Era stato un canonico di quella chiesa, che rimase scomunicato. E siccome la scomunica era connessa all’arresto da parte della forza pubblica, andò fuggiasco per molto tempo.

Altre cause di preminenza. – Come se tante cause non fossero avvenute, l’Annunziata, nel 1735 rinnovò i tentativi. Fece domandare dal card. Origo ai S. Riti: si devono eseguire i decreti d’insignità di S. Maria? Risposero di sì, affirmative; l’Annunziata è insigne? No, negative; a quale delle due si deve la precedenza? A S. Maria, e lì si deve convenire per le processioni; il canonico anziano dell’Annunziata ha diritto al titolo di decano? Solo come nome, quoad nudam denominationem tantum. Per responsi simili se ne andò parecchio denaro il 6 Agosto 1735.

S. Maria Maggiore (era morto il suo patrocinante Marcellino de Lucia, che tante cause aveva vinte, ed ora aveva per avvocato De Retz) fece chiedere dal Cardinale Gentili: quanto è stato deciso il 6 Agosto, deve essere osservato? Bisognava leggere i testi. Il vescovo Isabelli si scusò, e giudicò la causa il cardinale Cenci arcivescovo di Benevento. Il 23 Luglio 1738 tutti a Benevento in calesse, per Caiazzo e Capua! (la via per Telese non era adatta), e finalmente il 28 Novembre 1739, innnanzi a quattordici cardinali, fu sciolto il dubbio: tutto come prima! In decisis, in omnibus et non amplius. Et ita decrevit et servasi mandavit.

S. Maria volle il placet regio, e questo venne il 9 Febbraio 1741. L’Annunziata sconfitta, tramite il principe di Piedimonte, cercò di ottenere qualcosa dal libero volere dei colleghi di S. Maria, e si arrivò al «concordato» del 28 Maggio 1745 (atto per notaio Gian Giacomo Gallo di Castello): tutte le precedenze a S. Maria; si permette all’Annunziata di appellarsi «insigne»; tutte le processioni separate, eccetto quella di s. Marcellino che percorre anche la Vallata. Campane e mortaretti salutarono l’accordo raggiunto.

Era finita? Neanche per sogno. Nel 1773 l’Annunziata ruppe il concordato. Campane a martello e assembramento di popolo. Il commissario di campagna (di pubblica sicurezza) ordina funzioni separate. Nel ’75 l’Annunziata manca alla processione del Patrono, e nel ’78 suona le campane di Sabato santo, un’ora prima dell’altra. Peggio successe il 2 Giugno: la processione di s. Marcellino con il commissario e le squadre di polizia! L’anno dopo, il clero di Vallata – è sempre Trutta che riferisce, in «Quattro secoli» - paga i caicchi[19] per ottenere che non si facesse la processione di s. Marcellino, ad evitare tumulti. Così, dopo centotrentenni, s. Marcellino non uscì. Lo stesso fecero l’anno dopo.

Informata dal commissario, la Real Camera comunicò al sovrano la situazione intollerabile di Piedimonte, il 21 Agosto 1780: «…nel sentimento che possa Vostra Maestà sovranamente risolvere che si esegua la convenzione e concordia del 1745, osservata dalla stessa collegiata della Vallata, e che se mai avvenga ogni qualunque inconveniente, e specialmente nella processione di s. Marcellino, ne saranno i canonici della Vallata responsabili a Vostra Maestà, e cadranno nella Regale Indignazione, con lo sfratto dal Regno».

Intanto, il 7 Luglio ’81, Re Ferdinando IV, in consiglio di ministri, riconosceva l’insignità di S. Maria in base ai decreti pontifici, rigettava un ennesimo ricorso dell’Annunziata, ordinando rispetto alle preminenze della prima.

All’avvicinarsi del 2 Giugno ’82, i soliti chiesero udienza al Re, a Caserta, e domandarono che per quell’anno la processione fosse sospesa. Ma ottennero l’effetto contrario. Il 29 Maggio, pure in consiglio dei ministri, «Ferdinando IV per la Dio grazia Re…» tenendo presente il decreto del 7 Luglio precedente, ordinò di rispettare le precedenze alla processione del Protettore e che di qualunque sommossa di plebe «ne saranno essi canonici di Vallata responsabili», e puniti con lo sfratto dal regno. Finalmente si imponeva quel che si sarebbe dovuto imporre da 150 anni!.

Il testo è riportato su una lapide già in S. Maria, ora nel corridoio della sacrestia. Le «sommosse», così spontanee, finirono d’incanto. Tutto in pace fino al 1860. Al ’61, nuovo tentativo dell’Annunziata. Dal 2 Giugno ’98 i canonici di Vallata sono mancati alla processione del Patrono.

 

Cause di confine. – Il confine fra le parrocchie di Piedimonte e di Vallata stava sul ponte di Toranello (oggi detto Maretto, in quanto emissario del laghetto nella villa ducale). Il fiumicello fu effettivamente spostato all’altro lato del convento (oggi piazza) del Carmine. Qual era ora il confine? Ne venne un cretino tafferuglio, e una causa interminabile. Il 25 Aprile 1660, il clero di Vallata volle andare processionalmente a quella chiesa, e più oltre, a S. Marco. Ricorsi alla congregazione dei Vescovi e Regolari: spostato il fiume, non è spostato anche il confine? Intanto il vescovo Dossena proibisce ai Vallatani di passare il ponte. Quelli vanno lo stesso, ma vi trovano, dice Trutta[20] «Orazio sol contro Toscana tutta». Tafferuglio, ritorno e altri ricorsi. Spassose le imprecazioni dei Vallatani contro i Piedimontesi: «Turchi! Luterani! Così si impediscono i divini uffici? Così si tratta la s. Croce?». Secondo essi era stata gettata a terra e spezzata, ma secondo gli avversari era solo caduta. Ma la testimonianza dei Domenicani decise in favore di S. Maria Maggiore: prime a tirar pietre era state donne di Vallata. Il vescovo di Telese, Pier Francesco Moja, trasmise a Roma la sua inchiesta, e il 18 Gennaio 1662, la Congregazione dei cardinali decretò che Vallata non doveva passare la metà del ponte: non licere… nisi usque ad medietatem pontis.

***

Abbiamo dato notizia di un’attività non certo decorosa di una parte del clero diocesano. Tacerla? «idealizzare» la storia?… ma invece di storia sarebbe venuto fuori un romanzo.

Insieme alle pagine delle savie istituzioni, della cultura, della carità e della santità, era necessario anche questo richiamo a una realtà meschina, per riportare il ricordo e la valutazione del passato a quel che fu realmente, e non a quello che noi, con gli interessi e la mentalità di oggi avremmo voluto che fosse.

 

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[1] Gattola, Acc.

[2] Eubel: Hyer. VI 79; f. 30 sgg., e VI 57.

[3] Eubel: Hyer. VI 79; f. 30 sgg., e VI 57.

[4] Trutta: 4 Secoli, mss. 165; Finelli: o. c. 149, presenta un attestato secondo cui gli antichi canonici avevano avuto l’uso della mitra: «Libro dei conti capitolari 1802. Per fede estratta dal protocollo della famiglia de’ Balsi, d’aver avuto gli antichi canonici della Cattedrale l’uso della mitra e del pontificale, per mano dell’arcidiacono Cirioli grana 40».

[5] Acta Cancellariae as 11 K.

[6] Cfr. 4 Secoli, 158-60 mss.

[7] Rationes Decimarum: Campania, 191

[8] Sorge Giuseppe: Causa delle decime (Napoli 1739).

[9] Cfr. mss. S. Maria Maggiore 193.

[10] Monitore ecclesiastico, a. 8, f. 3.

[11] Bullarium, pag. 32.

[12] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 273.

[13] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 635.

[14] Manoscritto presso l’ASMV.

[15] Archivio della Cattedrale di Alife cas. 3.

[16] Autore del De praeheminentiis già ricordato, coltissimo canonista nato da povera famiglia a Venosa, prima uditore, poi dal 1° Settembre 1681 cardinale, + 15 Febbraio 1683.

[17] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 220 sgg.

[18] Manoscritto di S. Maria Maggiore, 235.

[19] Dal turco Kaìk, scialuppa a servizio di una nave, indica impiegati inferiori e corrotti, v. manoscritto di S. Maria Maggiore, 290.

[20] Quattro secoli, 209 mss.