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Nicola Borrelli

LA MONETA DELL’ANTICA CALES

(in Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano, Napoli 1920, pp. 1-8)

 

 

Della monetazione calena molto si è detto ma altro occorre dire, sia per andare oltre l’arido schema che se ne dà nelle trattazioni scientifiche[1], sia per chiarire possibilmente il significato discusso e controverso di qualche tipo e di qualche simbolo alquanto oscuri, sia per riprendere delle varie inesattezze – di cui alcuna gravissima – gli storici locali; i quali, con la guida di non sempre accreditati autori, abbastanza si diffusero intorno alla moneta di Cales[2]. Sulle accennate inesattezze per altro non ci dilungheremo, e per averne fatto oggetto di altro nostro scritto[3] e perché ad una facile ed ormai superflua confutazione va preferita una chiara ed esplicita esposizione di quanto sull’argomento fu dai più nuovi studi dedotto e dai più illustri numismatici autorevolmente convenuto e concluso.

La monetazione di cui trattiamo non offre, è vero, alcun speciale interesse storico, artistico o tipologico, rispecchiandosi in essa, per una certa intesa monetaria[4], caratteri e tipi di altri conii di città campane; ma pregevole e degna tuttavia della grande città, che antichi scrittori distinsero col nome di “città degli Ausoni”, quasi ad indicare la capitale, la città per eccellenza, di quel popolo (ή τών Καληνών πόλις)[5], essa ben meritava una più esauriente illustrazione che non quella troppo sintetica di dotti numismatici, ovvero prolissa quanto, in buona parte, inattendibile, che, sebbene coi migliori intendimenti, vollero tentarne gli storici locali.

Sita nel centro della Campania, sulla via Latina, tra Capua e Teanum Sidicinum, in una invidiabile ubicazione, ricca di memorie e di vanti, Cales – gr. Καλη – fu tra le più note e antiche città italiche. La tradizione eroica raccolta da Silio Italico[6], di Cales fondata dal possente argonauta Calai, simbolico esponente della primigenia stirpe campana, non altro attesta se non l’antico lustro di questo centro Ausonio, i cui aborigeni – qui Cales linquunt[7] – ingrossarono un giorno le schiere di Turno, cimentato a battaglia contro l’eroe di Troja. Indi, il favore concesso dai Caleni ai limitrofi Sidicini, nemici di Roma, aveva attirato sulla città l’odio della grande Repubblica, alla cui egemonia era mestieri ormai ch’essa cedesse; e la guerra tra Romani ed Musoni, iniziata nell’anno 418 / 335, consoli L. Papirio Crasso e Cesone Duilio, si risolveva un anno dopo, sotto il consolato di M. Valerio Corvo e M. Attilio Regolo[8], quando, pel consiglio di M. Fabio[9], prigioniero romano a Cales evaso dalla città, questa doveva cedere vinta. Già i trapani e le torri si ergevano minacciosi contro le mura di Cales, allorché l’avviso di Fabio induceva gli astati a dar la scalata alla città, la quale, sorpresa nella veglia obliosa o nel sonno, che seguivano una giornata di festa, viveva in una sanguigna alba di guerra l’ultima ora della propria indipendenza. Ed alla caduta di Cales seguiva a Roma, il trionfo di Valerio Corvo. Ancora un anno dopo, cioè nel 420/333, consoli T. Veturio e sp. Postumio Albino, duemilacinquecento coloni sono spediti dal Senato Romano a Cales[10]; e l’istituzione di una nuova colonia, sollecitata dalla plebe dell’Urbe, era al popolo annunziata dal decreto senatorio, affisso alla colonna del Foro. Da colonia assurta ai fastigi di Municipio – Municipium calenum, che Cicerone ricorda nell’orazione contro Rullo ed in alcuna delle sue lettere[11] – Cales, che ormai ha acquistati tutti i diritti e privilegi della capitale, inizia forse in quest’epoca, non facilmente determinabile, la sua monetazione, associando però ai tipi patrii, in questa adottati, la leggenda latina, che, quasi marchio di soggezione, Roma soleva imporre ai popoli vinti, sostituendo man mano ai caratteri nazionali di essi le lettere latine. Cosicché, lasciando ai numi Goltziani, come l’Eckhel direbbe, le greche leggende ΚΑΛΕΝΩ e ΚΑΛΕΝΩN, a noi non resta della moneta di Cales che la sola epigrafe latina CALENO, nella quale non è a vedere se non l’abbreviazione di CALENO(RVM), sebbene qualche illustre numismatico[12] abbia voluto in essa vedere un dativo (caleno populo), ed altri, nella forma antiquata calenom per calenum, un nominativo (calenum municipium).

È chiaro quindi come Cales non abbia avuto, allo stato autonomo, una propria moneta, come neppure sembra l’avesse, come in seguito diremo, durante il regime coloniale. Ed eccoci senz’altro a descrivere i tre tipi di moneta di Cales, i quali presentano per altro una ricca serie di varianti.

 

  1. D. Testa di Pallade a dr. (od a sin.) con elmo corinzio.

Dietro la testa della dea, un simbolo (face, cornucopia, ramo d’ulivo, cuspide di lancia, vaso etc.)[13]

R. Vittoria alata stante, in biga veloce a sin., armata di lunga asta. Nell’esergo: CALENO. AR[14]

Didramma

 

Eckhel, Doctr., vol. I, p. 110, N. 1 – Fiorelli, Cat. Museo di Napoli. Mon. Greche, p. 19 N. 792-814 – Head, Hist. Numorum, p. 31 (ii) – Sambon, Recherche etc., p. 178, N. 1-2, gr. 7,28.

 

L’emissione di questo didramma, abbastanza raro, deve ritenersi sincrona se non posteriore all’anno 485/268, epoca in cui, con la coniazione del denarius, era introdotta in Roma la monetazione dell’argento, giacché sarebbe poco credibile che il Senato Romano, permettesse ad un municipio la coniazione dell’argento, non ancora adottata dalla stessa Repubblica; e ciò dappoiché la leggenda latina chiaramente informa come l’emissione di tale pezzo sia posteriore alla sommissione di Cales ai Romani. Si connette probabilmente tale emissione a quella di congeneri didrammi di Teanum e di Suessa, ai quali ultimi qualche autore assegnava un’emissione alquanto anteriore al 268 a. C.[15] . Attesta questo conio l’ancor perfetta arte monetaria del tempo, influenzata dal periodo ellenistico, recando nella fisionomia della dea e nella forma dell’elmo lo stile caratteristico delle belle monete del ciclo di Alessandro Magno e della Panfilia.

Si esalta nel conio in esame il culto di Pallade Athena, l’eccellente dea delle armi, la quale, così a Cales come in tante altre città italiche, greche ed italo-greche, esigeva profonda venerazione. Ma mal s’apporrebbe che volesse qui in essa vedere una divinità bellica nel vero senso della parola e quale Omero ci presenta nell’epos la figliuola di Zeus: Pallade invece, originariamente ed essenzialmente, è una dea della giustizia, del diritto, della misura, dell’industria e del lavoro, preposta cioè a quanto sappia rendere forte ed invincibile un popolo. Essa infatti fonda stati e città, avvia all’agricoltura – la grande civilizzatrice – inventa l’olivo, l’aratro, il telaio: diviene così una divinità benefica e tutelare, specialmente pei suoi caratteri ctonici, ben rispondenti alla vita agricola-industriale[16] delle città campane. Più che della forza e delle battaglie, è dunque Pallade la personificazione dell’intelligenza, del valore, della virtù operosa: di quanto insomma non conosce sconfitta né pericolo né onta. È infine l’italica Minerva, dea della pace sciente e forte, che nulla teme e tutto osa nel nome stesso della pace, che a conservare e garantire concorrono sovente le giuste armi. Ed al culto della dea richiama ancora il tipo del rovescio del conio di cui si tratta: la Vittoria, compagna indivisibile di Pallade, cui essa dà talvolta il suo stesso nome di Nike, “la vittoriosa”. In questa divinità trionfatrice dal carro di guerra o dalla thensa sacra, è ascoso l’invitto potere pacifero dell’italica Vica Pota o della Vacuna dei Sabini, divinità, nel contempo, della pace e della guerra.

Dichiareremo più innanzi il significato dei varii simboli ricorrenti nell’area della moneta dietro la testa della divinità, e ci soffermiamo su quello alquanto dubbio del vaso, che non è fuori luogo analizzare in questo conio di Cales, pel carattere indubbiamente etnografico ch’esso vi riveste.

Discusso e dibattuto dunque è il significato di tal simbolo, e le varie versioni, che se ne danno a chiarirlo, trovan tutte giustifica: o che il vaso ricordi le manifatture fittili, di cui Cales ebbe vanto, tanto che Marrone, presso Nonio Marcello[17], ricorda le obbae calende; o che il simbolo alluda alla celebrata produzione vinicola di Cales, di cui Giovenale esalta il molle calenum[18] e gli scoliasti di Orazio optima vina calena[19]; ovvero che ricordi le non meno celebrate acque minerali calene, le vinose acque di Plinio[20]. Come si vede, ogni ipotesi torna: il vaso, che il più delle volte è simbolo enologico, ben può essere ancora l’esponente figurativo di industrie fittili, come ben può alludere a sorgive minerali, ove si consideri come l’arte facesse dell’urna l’attributo inseparabile di divinità acquee. Ma se ad una delle suaccennate versioni dovessimo dar la preferenza, non esiteremmo ad attenerci a quel simbolo enologico, ricorrendo il medesimo simbolo in molte altre monete greche di paesi e città notoriamente viniferi, ovvero celebrati per tradizioni bacchiche, quali la Beozia, la Tracia, Samo, Chio, Lesbo, Nasso, ecc. Starebbe per altro a darci torto la circostanza che lo stesso vaso figuri in qualche didramma di Neapolis, nel cui diritto vedesi, come ritienesi, una divinità acquea – la sirena Partenope o la ninfa Sebetide – ad integrare il cui concetto rappresentativo ricorrerebbe il simbolo fluviale. Se non che, ove dovessimo cercare un rapporto costante tra tipi e simboli, saremmo costretti, per la ricorrenza di tutt’altro simbolo che il vaso[21] in latro conio partenopeo recante il medesimo tipo principale, a ravvisare nella testa della ninfa una ben altra divinità, naufragando allora nel pelago delle chimeriche induzioni ed invertendo l’analisi positiva in un’astrusa ed oziosa erudizione. Più semplice e logico quindi vedere nel domestico arredo, ch’è per altro un’amphora o un khantaros – vasi vinarii per eccellenza – un simbolo, come dicemmo, enologico, suggerito agli stessi monetarii partenopei dalla fama goduta dalla produzione vinicola locale, costituita dal surrentinum, dal puteolanum, dal gauranum e da altri celebri vini dei vulcanici colli del Falero. Non è detto quindi che tutti i simboli ricorrenti nel campo delle monete debbano riferirsi al tipo cui s’accompagnano: che se molte volte vi si riferiscono, com’è ad esempio della clava per Ercole, del fulmine per Giove, della cetra per Apollo, del tridente per Nettuno, ecc., è altresì vero che molte altre volte non han con essi rapporto alcuno, ed è vano allora affannarsi nella ricerca, negli stessi di significati mitologici etnografici od araldici. Ma per la moneta di Cales non va detto altrettanto; e la nostra opinione trova appoggio nell’impresa civica di Calvi Risorta, il piccolo comune che accoglie il retaggio dell’antica città: dedotta tale impresa da remotissime tradizioni, si costituisce, in una prima forma, di un serpente che sguscia da una coppa (dicesi che le serpi sian ghiotte di vino), ed in una seconda forma, da due draghi che s’abbeverano in un medesimo vaso[22]: allegoria questa, che si riscontra ancora nell’antico emblema della Campania, oggi passato a costituire lo stemma civico di Capua, nel quale si vedono sette draghi sbucanti da un vaso. È questo propriamente un krater, vaso anch’esso vinario, il quale, e per la forma e pel prodotto che suole accogliere, simboleggiò la Campania Felice, cui s’appose l’istesso nome di Cratere[23]. Altri vorrebbero vedere nel simbolo in esame uno di quei tipi monetali emblematici, che l’Eckhel chiamò parlanti, in cui il nome dell’oggetto raffigurato richiami alla mente il nome della città, e così in calix, calice, coppa, il nome Cales[24]. Ma questa ipotesi è poco verosimile, ove si consideri che la città, di fresco snazionalizzata e conservante tuttavia il diritto di batter moneta in proprio nome e con tipi nazionali, adottasse, a simbolo di se stessa, una voce latina. E, dopo la digressione, passiamo ad illustrare il secondo tipo della moneta di Cales.

 

  1. D. Testa laureata d’Apollo a sin. CALENO[25].

Dietro la testa della divinità simbolo variante (fulmine, clava, racemo, ecc.).

R. Toro androprosopo a dr., sormontato dalla Vittoria volante a dr. Con corona nella d. ovvero sormontato da astro, spiga, lira, ecc. Nel campo, tra le gambe del toro, lettere varie. Æ

Obolo

 

Eckhel, op. cit.,N. 2 – Fiorelli, op. cit., NN. 815 e segg. – Head , op. cit., (iii) – Sambon, op. cit., N. 4, gr. 6,50.

 

L’emissione di questo secondo tipo è, per alcuni pezzi, precedente al conio del primo tipo, e, dalle affinità stilistiche ch’esso presenta con qualche conio di Neapolis del 2° periodo[26] si desume battuti i primi oboli caleni verso la metà del 3° secolo a. C. La fisionomia tipica del dio, con la chioma ricciuta e prolissa, propria delle monete di Crotone, riprodotta poi nei didrammi di Suessa, si conserva negli oboli di Cales.

Anche di Apollo, che trovò presso i Caleni culto profondo e diffuso, il carattere mitico-religioso diversifica alquanto da quello che, nelle città italo-greche in genere, rivestì la grande divinità febea. Non dunque il conduttore e protettore delle colonie, l’achegete, è l’Apollo dei Caleni, bensì il sole nel suo significato naturale: il Foebus, il cui nome (φως-βιος) indica luce e vita: è l’energia solare, che feconda la terra e fa sorridere la natura. In Apollo infine si esalta la rigogliosa ed esuberante vita naturale della Campania; e da ciò, secondo noi, l’astro (il sole), che sormonta il tipo del toro in questa moneta di Cales e che vedremo ricomparire in altro conio, che andremo a descrivere. Ed eccoci ora di fronte ad uno dei più oscuri e discussi tipi monetali, il cui significato assillò tanti dotti, affaticò tante menti, riempì tante pagine … Il toro androprosopo! È vero che tra la più parte dei numismatici si è ormai d’accordo nel ravvisare nell’enigmatico tipo una divinità fluviale; e gli elementi che a tal versione inducono, sembrano davvero incontrovertibili e decisivi: che infatti i fiumi personificati fossero in concetto di attive e possenti divinità nessuno ignora, né s’ignora com’essi fossero onorati con tempi, voti e sacrifici: è ancor noto come il rumore della piena, somigliante al muggito del bue, e la tortuosità del loro corso, richiamante alla mente le volute delle corna, ottenesse ai fiumi il nome di tauromorfi e tauriformi e l’apposizione, talvolta, alla loro umana personificazione di due piccole corna. Cosicché il toro barbato nella moneta di Cales[27] indicherebbe una divinità fluviale, o per dir meglio, la personificazione, d’un fiume, e qui, probabilmente, il vicino Volturno; giacché, ove un fiume di una certa importanza mancasse ad un popolo, questo volgeva il suo culto ad un fiume vicino; ma essendo ancor noto che anche i piccoli fiumi, rivoli e torrenti esigevano talora gran culto (considera il Sebeto nel culto dei Partenopei) nulla vieta di credere che la fluviale divinità dei Caleni sia piuttosto il più vicino e modesto Saone (Savo), se non pure il piccolo torrente Décola, che doveva un giorno bagnare le mura di Cales. Ed è questa, circa il tipo favoloso, l’opinione prevalente e certo più d’ogni altra attendibile. Ma colsero nel segno i sostenitori della versione fluviale? Ci si consenta dubitarne; e se dovessimo in proposito esprimere la modesta nostra opinione, non esiteremmo a vedere nel toro androprosopo il simbolo della terra feconda. Lo spazio, preziosissimo, non ci permette di diffonderci, in una digressione che richiederebbe molte pagine, sul tema dibattuto; ci basti per altro far notare come il bue – toro o vacca – fosse sempre ed universalmente il simbolo della forza generativa, di cui l’esponente maggiore è la terra[28]. Buoi sacri per un tal concetto s’incontrano in Persia come in Egitto, nell’India come nel Giappone, tra i Germani come in Grecia. Tra i Parsi troviamo il toro simbolo della terra “da cui tutto è nato”, ed il gran toro di Ormuzd adombra la terra generante. Per gli Arii era la terra una gran vacca d’abbondanza. Arche a foggia di bue – simbolo della terra che accoglie le spoglie dei mortali – racchiudevano in Egitto le più antiche mummie, dando origine al mito osceno di Pasife. Nei monumenti mitriaci, assieme alla clava ed al globo – simboli dell’energia fecondatrice – troviamo il toro, mentre in Egitto troviamo il sacro animale associato allo scarabeo, l’atheucus sacer. Siva, distruttore e generatore, raffiguratasi montante un toro – il toro equinoziale – e però davanti ai tempi del nume ergevasi un toro colossale. Su di un toro o presso di esso si raffigurò Mitra. L’egizio Apis nasceva da una giovenca fecondata da un raggio di sole. Zeus – il deus primus – divinità fondamentale e creatrice, fu immaginato, nelle tradizioni cretesi, sotto forma di toro. Un toro di bronzo, nell’Odeon d’Atene, ergevasi presso la cella sacra a Cerere. Odino nasceva dall’uomo nato dalla vacca – la terra – madre del gigante Yim. Jeova, il sommo dio degli Ebrei, rettore e creatore di tutto il mondo, fu anch’esso raffigurato sotto forma di toro … Nel ripetersi, trasformarsi e fondersi di tutte queste figure onto-cosmogoniche, noi leggiamo, in fondo, il concetto dell’oscuro dio primo, profondo, fecondo, possente: la terra; man man poi personificato, perfezionato, idealizzato, fino a dar luogo alla superna divinità creatrice. Ed il simbolo della terra – auspicium fructuosae terrae – fu sempre il bue. Non questo il posto per dichiarare, ordinare e coordinare tutte le su esposte credenze, che trovan riscontro in tante altre ancora, e per addurre tutti gli elementi dedotti dalle Cosmogonie, dalle Mitologie, dal rituale, i quali dien valore al nostro assunto, di già, del resto, da qualche autore timidamente accennato.

È per vedere la luce una nostra memoria sul secolare dibattuto argomento, nella quale la questione, esaurientemente trattata, permetterà di veder meno enigmatico il tipo del toro androcefalo, e meno impenetrabile la ragione dell’apposizione ad esso della protome umana. I Greci dunque, che raccoglievano il retaggio di antiche credenze mitico-cosmogoniche, ben poterono rievocare la simbolica immagine del mistico toro, di cui qualche simulacro androprosopo fu rinvenuto nelle rovine di Persepoli, indubbia immagine del gran toro cosmogonico (leggi terra), nel quale Ormuzd racchiuse tutti i germi della vita organica. Ma qual significato, nel caso da noi prospettato, racchiuderebbe il tipo accessorio della Vittoria, in cui illustri numismatici vollero vedere un simbolo agonistico, che noi invero non sapremmo mettere in rapporto, direttamente s’intende e logicamente, col genio fluviale? Sia subito detto: quello della vittoria più grande e più nobile: dell’umano progresso cioè, sulla oscura coscienza dei primitivi; del pensiero operante sulla materia inerte; la vittoria degli dei agricoltori – i civilizzatori per eccellenza – ai quali, tesmofori e demiurgi, affidata infatti la missione civilizzatrice: siano essi l’italico Saturno, l’etrusco Giano, la Cerere pelasga o il greco Dionisio … Forse noi c’inganniamo, ma nel discorrere della moneta di Cales non potevamo tacere, intorno al tipo favoloso del toro androprosopo, la nostra modesta opinione.

E passiamo ad un terzo tipo in bronzo, coevo ad didramma suddescritto, giacché emesso durante la 2° guerra punica[29].

 

3°.       D. Testa di Pallade con elmo corinzio a sin.

                        R. Gallo stante a dr. Dietro astro. CALENO[30]. Æ.

                                                                                              Obolo.

Eckhel, op. cit., p. 110, N. 3 – Fiorelli, op. cit., N. 800-814.

Head, op. cit., p. 31, (iii) – Sambon, op. cit.,p. 178, N. 7-8, gr. 6,50.

 

Il tipo del rovescio di questo obolo, molto discusso anch’esso, si presta a varie interpretazioni. Vi è chi volle in esso vedere un attributo di Minerva, per essere il gallo animale aggressivo e pugnace, onde bene addetto a divinità guerriera e però sacro a Marte. Ma, in tal caso, quale significato da attribuire all’astro, giacché nessuna relazione sapremmo vedere tra esso e Minerva? Né può ritenersi tal simbolo un segno di zecca, dato il ripetersi costante di esso in altri conii di città campane (Teanum, Suessa, Calatia, etc.) e non campane (Aquinum, Himera, etc.) in compagnia del medesimo tipo del gallo. Riteniamo invece che il simbolo in esame si riferisca al culto di Apollo, esaltato, come vedemmo, nell’obolo innanzi descritto.

È dunque il gallo un attributo solare, esso che preannunzia il levar del sole nell’ora che i Romani chiamavano appunto gallicinium; e l’astro, che ad esso s’accompagna, è Venere, la stella del mattino, che precede l’alba e prende però il nome di Fosforo e Lucifero.

Non sfugge quindi una certa corrispondenza tra i varî tipi monetali finora notati, in cui leggesi, in fondo, l’esaltazione della felice terra campana, ricca di doni, feconda di promesse, sorrisa dal più bel sole italico: concetto questo, che illustrano ancora i varii simboli che appaiono nell’area delle monete di Cales, in massima parte agrarii, quali la spiga, il ramo d’ulivo, il vaso, il grappolo d’uva, ecc.; ovvero allusivi all’energia generativa della terra, come la clava, la face, l’astro, ecc.

Non altro poi che segni di magistrati o di zecchieri è a vedere nelle varie sigle (Λ, Δ, Σ, ΙΣ, Θ, ΔΙ, Γ, etc.) ricorrenti nel campo del diritto o del rovesci delle monete stesse.

Oltre i suddescritti tipi di moneta, si attribuisce a Cales un sistema di aes grave, di cui l’Head[31] dà il seguente prospetto:

 

D.                                                                   R.

As                   Testa di Minerva con elmo corinzio                  Vaso (Kantharos)

Semis               id.                                                                   id.

Triens              id.                                                                   id.

Quadrans         Elmo                                                               id.

Sextans            Gallo                                                               id.

Uncia               Clava                                                              id.

 

L’Head non si mostra perfettamente convinto dell’assegnazione a Cales di questa serie di pezzi, che abbiam voluto qui riportare e perché l’autorità del grande numismatico lo richiede, e perché i tipi ben rispondono a quelli nazionali dei Caleni.

Questo sistema monetario, se bene assegnato, deve naturalmente ritenersi precedente ai conii innanzi descritti propriamente della zecca di Cales, costituendo esso una speciale monetazione della Repubblica Romana per la coloni calena. Scaturito indi a questa, con l’elevazione a Municipio, il diritto di batter moneta in proprio nome, sarebbe stato sostituito il sistema monetario romano da quello nazionale dei Caleni, fondato, a quanto sembra, sul sistema attico, giacché il peso medio dei didrammi di Cales corrisponde quasi esattamente alla dramma attica.

E ciò è quanto potemmo dire intorno alla monetazione calena.

A trar poi d’inganno una buona volta i cultori di memorie locali, dichiariamo inesistenti i due tipi di moneta di Cales riportati dal Goltz[32], l’uno con la testa di Nettuno al D. ed al R. il toro androprosopo, e l’altro con nel D. il gallo ed al R. l’indice del valore (6 globetti); così come sembra inesistente l’altro tipo, dato dal Maffei e riportato dal locale storico Ricca[33], con la testa di Apollo ed al R. la biga.

 

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[1] Accenniamo alle notissime: Eckel, Doctrina Numorum Veterum, vol. I p. 110 – Head, Historia Numorum p. 26 – Sambon, Recherches sur les Monnais de la preq’ile italique p.178-179.

[2] M. Zona, L’antica Calvi, Napoli 1797 – A. Ricca, Osservazioni sull’Antica Calvi, Napoli 1823.

[3] N. Borrelli, Appunti di Numismatica calena, in Archivio Storico del Sannio Alifano e Contrade limitrofe, anno III, n. 8-9, Piedimonte d’Alife 1918.

[4] Head, op. cit., p. 26.

[5] Stradone, Geogr., lib. V.

[6] Silio Italico, De bello pun., lib. XII.

[7] Virgilio, Eneide, lib. VII.

[8] T. Livio, lib. VIII.

[9] Non trattasi del Massimo, ma di un semplice legionario.

[10] T. Livio, op. cit.

[11] Cicer., Fam., IX, 13.

[12] Cfr. Sambon, op. cit., p. 179, nota.

[13] Cfr. Fiorelli, op. cit., p. 19.

[14] Il Pellerin (Recueil) riporta in oro il medesimo tipo, ma né Eckel né l’Head vi accennano.

[15] S. Mirone, in Rivista It. di Numismatica, Anno XXIX, Fasc. III, p. 324,  Milano 1915.

[16] Si notino gli appellativi di έργάτης e άγραυλος, dati alla dea.

[17] Cfr. Pellegrino, Discorsi della Camp. Fel., Disc. III, p. 79.

[18] Giovenale, Sat., I.

[19] Cfr. Pellegrino, Op. cit., Disc. II, p. 451.

[20] Plinio, lib. II, 103.

[21] Alludiamo a la figurina muliebre, che regge due torce accese.

[22] Cfr. Sanfelice, corografia della Campania, Napoli 1796, p. 71.

[23] Cfr. Ricca, op. cit., parte II, p. 273.

[24] Head, op. cit., p. 31.

[25] In altro conio la leggenda ricorre nell’esergo (Sambon, op. cit., N. 3).

[26] Ambrosoli-Ricci, Monete Greche, p. 232, fig. 66.

[27] E non solo di Cales, ma di molte altre città campane e della Magna Grecia: Neapolis, Cuma, Capua, Nola, Cajatia, Allifae, Suessa, Aesernia, Teate, Regium, etc.

[28] Cfr.il tipo del bue (non adroprosopo) in monete della Campania e Magna Grecia stesse: Nola, Guerra Sociale, Thurium, Sybaris, Posidonia.

[29] Cfr. Sambon, Op. cit., p. 179.

[30] In altri conii la leggenda figura nel diritto (Sambon, Op. cit., p. 871 N. 8).

[31] Head, Op. cit., p. 31, (i).

[32] Goltz, Sicil. Et. M. Grecia Hist., v. tavole N.

[33] Ricca, Op. cit. parte I, p. 208. N. 1.