Raffaele Marrocco: Il Matese             Articoli sul Matese             Home page

 

 

Raffaello Marrocco

 

I L    M A T E S E

 

Napoli

Editrice Rispoli Anonima

1940

 

      Sguardo generale

Cap. I (pp. 11-23)                                                                                                               

 

 

Una vasta zona dell’Italia peninsulare che rinserra nei suoi monti e nelle sue valli quarantacinque paesi, una zona ancora poco conosciuta, quantunque assai interessante per la sua natura geologica, per le sue naturali bellezze e per il suo ricco patrimonio storico, archeologico ed artistico, è senza dubbio il Matese, l’imponente massiccio di oltre mille chilometri quadrati, che vanta un’altezza di m 2050 sul mare. Boschi, praterie, fiumi, cascate, villaggi a ridosso di dirupi, castelli, che ricordano fasti e tristezze di altri tempi, e finalmente un lago che prende il nome della zona – il Lago Matese – formano nel loro insieme un quadro meraviglioso, talora aspro e ridente, tal’altra cupo e poetico.

Solcata da rotabili alla periferia, sfiorata appena a nord-est da una breve linea ferroviaria, lontana dai grandi centri, la zona, vissuta sempre in completo isolamento, è stata perciò ignorata. Ora che una grande strada sta per congiungere Piedimonte d’Alife a Campobasso, attraversando il massiccio nella sua parte centrale, il Matese comincia a suscitare maggiore interesse e ad essere più frequentemente visitato. Che sia così lo dimostra il fatto d’essere stato oggetto di studio da parte dell’XI Congresso Geografico Italiano e valicato dai suoi componenti sotto l’autorevole guida dell’Accademico Giotto Dainelli.

Il Matese – circoscritto dalle province di Benevento e del Molise delle quali fa parte – a differenza di talune località d’Italia, ha conservate intatte le sue tipiche bellezze, poiché la mano dell’uomo non ne ha mutata la caratteristica fisionomia, un po’ selvaggia se si vuole, ma sempre suggestiva. E suggestiva appunto si presenta nella singolarità delle cime nevose, dei monti di viola, nell’arcadica serenità pastorale e nella sonorità dei ruscelli in armonica fusione con le melopee delle cornamuse e coi canti squillanti delle montanare. È  un insieme di mistica poesia che conquide e che acquista una forza fascinatrice allor che, pervenuti sulla vetta più alta – il Miletto – lo sguardo spazia su uno dei più belli e singolari panorami della natura: da un lato la Maiella, le Tremiti, la Lucania e il Gargano, con lo sfondo dell’Adriatico, dall’altro il Vesuvio, le isole di Capri, Nitida e i Colli Flegrei con lo sfondo del Tirreno. Un panorama grandioso e imponente che induce a sognare e a conservare il ricordo della maestosa visione con infinita nostalgia.

Scrisse il Dainelli che di tutti i massicci montuosi nei quali l’Appennino Campano sembra rompere la sua unità di asse orografico della penisola, il più importante ed il meglio individuabile, è quello del Matese. Ed è così. Esso presenta la figura di un’ellisse allungata, lambito dal Volturno ad ovest, dal Calore a sud, dal Tammaro ad est e dal Biferno a nord-est, e si stende da nord-ovest a sud-est per circa 45 chilometri con una ampiezza di 22. Meno nel tratto Biferno, il Matese appartiene al versante tirreno. Ha incisioni vallive molto profonde e fianchi assai ripidi nonché tipiche gole come quella, ad esempio, della Valle del Torano. Gli studi del Dainelli e del Colamonico confermano questi rilievi. Essi dicono, che molte delle valli matesine e i corsi d’acqua che le individuano costituirono un tempo i tratti superiori di fiumi regolarmente congiunti col Volturno, mentre oggi, per effetto del sollevamento della montagna, se ne sono completamente distaccate diventando valli sospese, ed i fiumi, in esse scorrenti, assorbiti dal suolo, risorgono ai piedi della montagna stessa o si disperdono per le innumerevoli vie, che l’idrografia sotterranea presenta nei paesi carsici.

Il Matese ha appunto carattere carsico essendo costituito, per la massima parte, da terreni permeabili. Le acque, oltre a dare origine a fosse carsiche e a bacini carsici, a doline e a voragini, a grotte e a caverne – alimentano numerose polle, che scaturiscono a varie altezze, e grosse sorgenti che sgorgano alle falde, come quella di S. Nazo e del basso Lete, ad ovest, del Maretto e del Torano a sud (Piedimonte), di Telese ad est e di Boiano a nord. Ugualmente come nei paesi carsici, il Matese ha rapidi declivi spogli di vegetazione e anche molto fertili, aree vastissime senza centri abitati, enormi campi solcati, incisi dalle acque di dilavamento, e piatte superficie pianeggianti.

Queste superficie sono nel Matese a tutte le altezze come a Castello d’Alife, Valle Agricola, Campo dell’Acero, Campo dell’Arco, Campitello e perfino sotto il Miletto, dalla parte settentrionale della vetta. Allineate anzi da nord-ovest a sud-est, formano le più spiccate caratteristiche del massiccio, come la conca di Gallo, la fossa di Letino, il Campo delle Séccine e quella più vasta di tutte, che raccoglie il Lago del Matese.

Il nostro massiccio sarebbe costituito, secondo il Dainelli, inferiormente da strati dolomitici, superiormente da calcarei spettanti al secondario superiore (cretaceo), e i terreni, che stanno di sopra a questa ossatura secondaria, apparterrebbero al terziario inferiore (eocene). Il Colamonico poi, ci parla anche della presenza di ghiacciai quaternari nella sezione mediana della zona settentrionale dell’altipiano.

Quasi tutti i terreni rinserrano fossili di varie specie. Si rinvengono dappertutto e perfino sul Miletto. Il “Museo Alifano” di Piedimonte possiede una discreta raccolta di tronchi di alberi pietrificati, rinconelle, conchiglie, testuggini, e, fra gli altri cimeli, un dente fossile di Carcarodonte, lo squaloide, che avrebbe preceduto il pescecane.

 

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In quanto all’etimologia ed al significato del nome “Matese” nessuno ne ha parlato con precisione. Il Biondo, fra i più autorevoli, riportandosi ad un passo di Livio che chiama “montani agresti” quei Sanniti che dimoravano sul gruppo, ritiene che da quel “montani” derivasse la parola “montese”e che questa si corrompesse poi in Matese. La versione va senz’altro esclusa perché vi si oppone recisamente la fonetica. Tutt’al più il nome di Matese potrebbe essere derivato da un altro consimile nome osco e questo a sua volta dal nome della divinità italica Matuta, quando essa, considerata nel suo carattere fisico, simboleggiava la luce mattutina. Non sarebbe improbabile che i gruppi italici dimoranti sul massiccio – ove sul far del giorno la luce illumina le vette e lascia ancora nell’oscurità i pianori e le valli – dessero all’insieme dei monti un nome connesso appunto col carattere fisico della loro divinità, trasformatosi poi in quello latino di Mathesium. È vero che la identità della radice non è un elemento sufficiente a stabilire un ragguaglio tra le parole Matese e Matuta, per quanto alla nostra immaginazione appaia molto probabile, però considerando che la voce matutinus, cioè prima ora del giorno, è tutt’una cosa con quella simbolica di Matuta, si potrebbe ritenere che il massiccio avesse avuto effettivamente, come dicevamo, un nome strettamente connesso col fatto fisico dell’alba e quindi con la deità che la presiedeva.

Del resto pensando che numerosi nomi di luoghi rimangono ancora impenetrabili, lasciamo agli studiosi di toponomastica il compito di risolvere la questione con più validi elementi di giudizio.

 

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Abbiamo accennato che il Matese era abitato da gruppi italici. Ma quando e come si formassero, non è facile determinarlo. Stando però a tutto il complesso della documentazione, vagliata e studiata, riguardante la più alta antichità della zona – documentazione che va dalla tomba neolitica scoperta presso Sepino, ricordata dal Pinza, alle murazioni poligonali di Piedimonte, Isernia, Longano, Boiano, Roccamandolfi, Faicchio, ecc., dalle armi ed utensili in selce ai vasi ad impasto, e dalle informi sculture di tufo fino alle iscrizioni in osco – si è accertato che le primitive genti del Matese, del gruppo Pentro, erano appunto di stirpe sabellica ed insieme agli altri gruppi della stessa stirpe – Caraceni, Caudini ed Irpini – costituivano un popolo solo che fu poi detto “sannita”.

Noi conosciamo ben poco la storia di questo antichissimo popolo, come non conosciamo neppure la natura e il carattere della costituzione politica che lo univa. Sembra però che la costituzione fosse rappresentata da una lega federale, che, secondo il Niebur, rinserravasi in tempo di guerra, quando cioè si eleggeva un comandante supremo delle forze dell’intera confederazione.

Intanto on prima dell’anno 354 av. C. cominciano ad apparire i Sanniti nella storia di Roma. Non ripeteremo qui, perché noto, quanto è stato scritto sulle lotte tra essi e i Romani. Ricorderemo solo che le lotte furono accanite e sanguinose durante un lungo periodo, svolgentisi, con alternativa di vittorie e di sconfitte d’ambo le parti, e sovente con l’intervento di altri popoli a favore dell’una e dell’altra. Queste lotte ebbero poi una tregua, cioè fino alla grande sollevazione dei popoli italici nota sotto il nome di “Guerra Sociale” (a. 90-89 av. C.) in cui i Sanniti rappresentarono una parte importante. Rappresentarono anzi un elemento capitale nella confederazione perché proprio un Sannita – il telesino Quintus Pompaidius Silo, animatore della guerra d’indipendenza – fu capo del movimento, come dei due consoli prescelti a capi, uno Caius Papius Mutilus, era sannita, e sanniti furono i generali Egnazio e Ponzio Telesino.

Il popolo sannita, bellicoso e fiero della propria libertà, che estese il suo dominio in regioni lontane, finì, malgrado l’alleanza militare con gli altri affini pure in armi – Marsi, Peligni, Piceni, Vestini, Maruccini e Lucani – per essere sopraffatto ed aggiogato ai Romani, come finirono gli stessi popoli confederati. Si vuole che Silla desse il colpo di grazia distruggendo uomini e devastando città sannitiche in maniera sistematica, finché tutta la regione cadde in istato di vera desolazione. Non pochi tentativi furono fatti sotto l’Impero con la fondazione di colonie per risollevare il Sannio, ma il risultato fu assai scarso. Nel Caudino solo Benevento conservò la sua importanza e continuò ad essere una città florida per tutto il periodo imperiale. Il Sannio, dismembrato, fu poi ridotto a due modeste province: Molise e Benevento, per cui i confini moderni non ripetono per nulla quelli dell’antichità, allorché il Sannio, per la sua estensione territoriale e pel numero dei suoi abitanti, era considerato una nazione.

 

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