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Giuseppe Cimorelli

 

BREVE CENNO SULL’ORIGINE DI VENAFRO

(in Archivio Storico del Sannio Alifano... Anno II, n. 5, 1917, pp. 61-69)

 

 

Nonché sia nostro proposito di accingerci, dopo tanti e sì autorevoli personaggi che il fecero con somma competenza, ad esaminare il patrimonio epigrafico rinvenuto nella terra di Venafro, ridiremmo più o meno i pareri del Mommsen, del Garrucci e di altri, i quali in molti casi neppure essi medesimi riuscirono a dare una qualunque interpretazione, ma giudichiamo che le iscrizioni, anche generalmente considerate per un paese dove giacquero per molti secoli nascoste, siano un elemento essenzialissimo.

Nessuno mette in dubbio l’antichissima origine di Venafro; ci sono troppi documenti per non credere che Venafro è fra le poche città dell’Italia meridionale che risalga ad un’età remotissima.

Un fatto singolare giova intanto rilevare che la maggior parte degli scrittori latini e greci celebrano colle parole più festose e coi più nobili elogi la ferace terra venafrana. Così Catone, de Re rustica, così Vitruvio, Marziale, Orazio venosino, Varrone, Orosio, Giovenale, Appiano e Frontino. Se tanta fu la fama di questo fortunato paese, egregi dovevano essere i suoi meriti, cospicua la somma dei suoi valori, oltremodo sontuosa la sua grandezza.

Difatti si sa che divenne proverbiale l’ubertosità della sua campagna, e gli aspetti della sua vegetazione parve un incanto. Le ragioni di sì lunga ammirazione noi le ritroviamo nella sua leggiadra posizione, sopra di un amenissimo colle, alle basi degli Appennini, nel suo cielo salutare, nei suoi oliveti, nelle sue vigne, nei monti che lo circondano a distanza, nelle sue caccie e nelle sue sorgenti e anche nella sua gente di sveglia intelligenza ed operosa.

Plotomeo e Plinio la posero nella Campania felice, altri nel Sannio. Certo è che una ricostruzione precisa e sicura della prima origine, è cosa che ancora nessuno è riuscito a fare. Senza tener conto dell’opinione degli antichi scrittori, secondo quello che pensarono alcuni dotti meno remoti, Venafro deriverebbe da Afrum ex posteris, come riferisce l’Ughelli, Abrahae et ab ejus nomine, venaque olei appellatum vomunt

Un’altra derivazione è data, e non men leggiadra, dalla composizione di due nomi, il primo Venus, il secondo Aphros, che vuol dire: Spuma Veneris; la quale etimologia troverebbe la sua ragione di essere, si dice, nella copiosa proliferazione degli abitanti, e anche nella mirabile fecondità della terra. Furono nobili menti ed esperti conoscitori di cose antiche quelli che proposero e seguirono una siffatta versione; tra gli altri il concittadino nostro De Amicis nel suo libro Consiliq; A. Sanfelice nella Descrizione della Campania; V. Ciarlanti nella sua Storia del Sannio. Ma a parer nostro, non è ben poggiata la loro supposizione. Difatti, se così fosse, la lettera F della parola Venafro dovrebbe essere nelle più antiche iscrizioni rappresentata con l’aspirata Ph; ciò non è stato mai realmente trovato.

Così in un angolo della Chiesa parrocchiale di S. Simeone si legge: HIC SITA / SUNT OSSA / Q. VENAFRI / HERMISCI / VEVEJA - H / DANAIS / DE SUO FECIT e in altra, posta lungo la via che mena a Napoli: D. M. S. / CALLIOPE / VIXIT ANNIS XXI / VENAFRANIA FESTA / SOROS.

Gli etimologisti, come si vede e come è del resto loro costume, giocarono evidentemente di fantasia; il Padula per esempio, e, non pochi altri, nella sua Prologea pensò a far derivare il nome Venafro da due parole ebraiche con questo significato: figlio del fango. A noi sembra del tutto inapplicabile anche lontanamente una siffatta spiegazione dal momento che non c’è memoria che attesti o faccia supporre la presenza di gente semitica nel punto più mediterraneo dell’Italia.

L’ipotesi per nostro conto è priva d’ogni conforto storico e anche di ogni elementare tradizione.

C’è stato, invero, un momento, in cui tutto pareva che dovesse essere spiegato per la lingua ebraica. Non escludiamo che la natura di un tal linguaggio offrisse i più facili adattamenti rispetto a possibili composizioni; ma non è affatto il caso di intromettere questa ipotesi, dove è meno applicabile per molteplici considerazioni, tanto più che è a tutti nota l’indole dell’ebraismo, di essere cioè tenacemente inclinato a circoscriversi nel proprio paese, alieno per spirito di razza, dall’espandersi al di là dei confini nazionali e dall’immischiare le proprie cose con quelle di popoli estranei.

Bisognerebbe fare un troppo lungo ragionamento per non dare torto alle trovate dei giocondi etimologisti; per lo meno bisognerebbe, così sarebbe per il caso del Padula, rifarsi da un punto primevo delle formazioni geologiche, subito dopo l’epoca glaciale, quando cioè non c’erano sicuramente uomini che potessero, dall’osservazione dei graduali processi avvenuti nella loro terra, trarre una denominazione che avesse un senso nella realtà.

Ora è molto più serio immaginare che i nomi, dati ai villaggi, siano di fatto molto posteriori. Forse neppure ai tempi dei remotissimi Osci la terra di Venafro ebbe un tal nome. Non ci è permesso di fare decise induzioni, dal momento che anche di questi popoli, che pure dettero segno di considerevoli attitudini, non ci rimasero che forme scheletriche di vita, ancora pressoché inaccessibili all’opera solerte dei dotti indagatori. Per noi la dominazione etrusca, succeduta agli Osci, ci costituisce un punto meno oscuro. Gli Etruschi occuparono la Campania recandovi tosto i loro caratteristici criteri di padronanza. Solevano eglino edificare nuove abitazioni e luoghi pubblici presso le borgate preesistenti, così nel più breve tempo, nelle terre conquistate facevano sorgere le loro rituali dodici città, l’una non lungi dall’altra. Cesare Cantù scrive che gli Etruschi nella creazione di nuove città eseguivano invariabilmente un disegno di forma quadrata tenendo conto dei punti cardinali; quando fosse stato loro possibile le facevano sorgere su due colli, l’uno presso l’altro e costruivano la rocca sul più eminente dei due.

Non vi ha dubbio che Venafro conserva nei suoi pochi ruderi di antica data, tutti i caratteri della costruzione etrusca. Infatti tuttora ci ritroviamo le traccie della rocca, su uno dei colli, ora chiamati col nome di S. Leonardo e di S. Paolo, nonché le vestigia dell’antica forma quadrangolare della città.

Non possiamo esimerci a suffragio di quanto siamo venuti testé affermando sul riguardo delle origini di Venafro e dell’opera edilizia degli Etruschi, dal riportare l’autorevole pensiero del Micali: « Gli Etruschi, cui si appartiene principalmente il vanto di avere propagata la civiltà in questa bella parte dell’Italia (nella Campania), riunirono le disperse popolazioni degli Osci, formando di molti piccoli villaggi un solo comune. Tale fu il principio di non poche città della Campania, ampiamente illustrate dai geografi, benché sia oggi impossibile di fare qualche distinzione tra le colonie toscane dominanti e le terre sottoposte. Ad ogni modo Casilino, posta sul fiume Volturno, nel sito di Capua nuova, Nola, Calatia, Suessa, Acerra, Treberta, Caleno, Abella, Venafro, Atella, Nuceria, Alfaterra e Compulteria, possono meritatamente noverarsi tra le principali[1] ».

Coll’esserci indugiati sulle varie opinioni, tenute dagli etimologisti, opinioni che in parte dimostrammo insostenibili, avemmo per scopo soltanto di mettere in rilievo che fu comunemente accettato il fatto, essere Venafro di origini tanto antica, da ritenerla confusa nei tempi più remoti, coll’esistenza di popoli, dei quali è giunta a noi poco più che il nome.

Perché le nostre investigazioni non trascendino negli abusati dominii dell’arbitrio e nelle facili per quanto vane creazioni dell’immaginazione, giudichiamo più prudente di limitarle fino che la ragionevolezza delle ipotesi e il potere di una seria induzione il consentono. Diciamo dunque che rassegnarsi a vedere dove il nostro sguardo può consapevolmente arrivare, non è rinunziare di proposito a possibili conoscenze, ma è scusare il pericolo di cadere nel falso. Quanta storia, quante vicende, quanta vita dell’umanità è completamente involuta nei veli del più profondo mistero, o è appena raccomandata ad un’esile filo, incapace altresì di ricondurci sulle traccie della preistoria. Una Nemesi implacabile sembra abbia avuto sempre grande potere sui destini degli uomini, interrompendone di tempo la logica continuità. È così che all’occhio dello storico l’umanità declina e risorge, progredisce e ricalcitra, cambia per aspetti infiniti o si chiude in una immobilità quasi assoluta; di questa fatalità la leggenda dei secoli ne fece indubbiamente due personificazioni nella creazione della Sfinge e della Fenice.

Noi, per ritornare sul nostro soggetto, ammettiamo pertanto e senza porci sopra alcun dubbio, che la nostra Venafro sia anteriore alla stessa fondazione di Roma e che non ne sia stato questo il periodo iniziale. Quel saggio storico che fu il Gravina lo confermava con parole molto esplicite dirette ad Antonio Giordano: « quae vero gens Venafrum condiderit ob nimiam ejus antiquitatem non constat », mentre non si peritava di finire il suo discorso così: « in regione igitur Campaniae felicissima Venafrum censetur ex antiquissima Italica Oscarum gente ».

Ci fu chi disse che Venafro fu ridotta una rovina dai soldati di Silla; tra quelli che sostennero una simile opinione, per prima fu Strabone e sulla sua scorta il De Amicis e lo stesso Ughelli che lasciò un breve sunto storico di Venafro e scrisse dei Vescovi di questa città. Per parte nostra non esitiamo a credere che questi nobili scrittori caddero in grave errore. Per ineccepibili raffronti storici è assodato che la città distrutta da Silla fu Telesia, città molto vicina a Venafro.

Se per altro questo fosse per avventura accaduto non importerebbe di essere stato Venafro un centro importante della civiltà osca.

Fino a poco tempo fa la terra venafrana non aveva dato alcun notevole documento letterario con l’impronta osca, ovvero in lingua osca o arcaica latina del quinto secolo; se ne aveva sì, e in scarsa misura, ma solo di circa la metà del settimo secolo. Qualche raro esemplare, se mai, si ebbe in poche monete con la dicitura in lingua osca con tutti i caratteri della Campania, cioè testa di Apollo sul dritto, Acheloo coronato dalla Vittoria sul rovescio; la leggenda è MVRFANE (F), retrograda in osco, che non è altro che il nome del popolo Venafrorum.

Così pure nel Museo Hunter (tab. LXII, 10) il Combe ne conobbe un’alta così descritta; dalla parte destra, testa di Minerva, dall’altra il gallo e la leggenda in osco retrograda: FANEF. Ma questo, come si vede, era troppo piccola cosa in confronto di quello che presumibilmente avrebbe dovuto nascondersi sotto le zolle di una città osca.

Noi d’altronde riteniamo che una più abbondante messe di monumenti antichi sarebbe possibile raccogliere se più intense fossero state le ricerche nella nostra terra.

Infatti in altri centri non più importanti di Venafro si sono rinvenuti cospicui documenti della civiltà osca, così parimenti non c’è ragioe per non supporre altri eguali nell’area antica di Venafro. Come dicemmo, per altro, un nuovo e prezioso elemento fu trovato recentemente e che assume un’importanza eccezionale. Il Garrucci si è lungamente intrattenuto ad illustrare le monete rinvenute negli scavi di Venafro osca, il Mommsen ha raccolto numerose iscrizioni in lingua osca, ma che sono tutte, come osserva A. Maiuri, di assai dubbia lettura e di incerta identificazione[2].

Il nuovo documento questa volta è dato da una terra fino ad ora, dice il precitato Maiuri, nuova ai rinvenimenti epigrafici e monumentali della civiltà osca: « Un nuovo e bello esemplare  -continua il dotto archeologo-  dei fondi di tazze calene con decorazione a rilievo, ci viene da un punzone a stampo rinvenuto recentemente fra un ricco deposito di terrecotte figurate e decorative scoperte nella più alta parte di Venafro (l’antica Venafrum), in prossimità di un edificio antico, del quale appariscono sino ad ora troppo scarse vestigia perché se ne possa determinare la natura. Il punzone è di forma cilindrica, simile ad un’arula votiva di terracotta, a superficie convessa nella parte da imprimere e assai logoro nella zona più esterna, a bassorilievo, della decorazione. La riproduzione è ricavata da un’impronta che non può riuscire del tutto perfetta a causa del lungo uso a cui la forma è stata sottoposta. Il medaglione a rilievo che ne risulta, sensibilmente concavo, consta di una zona esterna di decorazione vegetale a due serie alternate sovrapposte di foglie lanceolate e foglie d’acanto, e di una zona centrale, circolare, contornata di perline da cui emerge ad altissimo rilievo la testa giovanile di Ercole. Questa è rivolta di due terzi a sinistra, ed è ricoperta della pelle del leone di cui appariscono la maschera e i riccioli della criniera disposti a raggiera intorno. Nella impronta si perdono i particolari della più profonda parte del rilievo centrale ».

Ci siamo valsi della magnifica descrizione del Maiuri, perché l’abbiamo giudicata perfettamente rispondente all’esemplare in parola.

Il mitico personaggio che parve essere il nume più simpatico nell’arte greca, dovette ance presso gli Osci godere di una notevole preferenza. La forza consacrata da un simbolo divino o quasi divino, fu la suggestione dei popoli anco più colti; l’estetica ellenica, per quanto fine e leggiadra, ravvisò una fonte di sovrana bellezza nei muscoli forti e nelle membra ossute dell’Ercole. E la maschia figura della leggenda non solo si prestò ai grandi concetti, alle magnifiche creazioni dell’arte, ma altresì alle più modeste espressioni della medesima.

La singolare famigliarità che i cultori delle arti plastiche ebbero col favoloso soggetto, fece sì che lo riproducessero con una certa perfezione di linee e con un certo gusto che non sempre in altri casi è facile rinvenire. Come tutti sanno, l’eroe della forza fu rappresentato sotto tutti gli aspetti dell’arte, ma dove più particolarmente e più spesso questo avvenne fu nella ceramica.

Nel punzone così egregiamente descritto dal Maiuri, la figura dell’Ercole è di una fattura eccellente e alquanto delicata, la tradizionale pelle leonina, come in tutti gli esemplari, sale fino alla sommità della testa, dal volto traspira vigore, giovinezza e beltà, ha un sembiante che ricorda vagamente piacevoli movenze satiresche, tutte dovute per servirci della frase del Maiuri, ad un sapiente risalto della modellatura. Il tipo artistico, aggiunge l’esimio archeologo, dell’Ercole, la tecnica dell’altorilievo, fa di questa impronta un esemplare assai vicino ai più squisiti modelli della toreutica ellenistica. Il diametro dell’impronta misura m 0,075. Sull’orlo superiore del medaglione, disposta ad arco di cerchio negli spazi liberi della decorazione e a lettere capovolte rispetto alla figura rilevata, è l’iscrizione osca: CAAHIIS = C(aius) Ahius. Aahiis, corrisponde alla forma latina Ahius, frequente soprattutto nelle iscrizioni latine della Campania e del Sannio.

Il prezioso documento testé rinvenuto ci permette di leggere chiaramente il nome della famiglia Ahiia, dubbiamente ravvisata in molte altre iscrizioni osche, gli archeologi sul proposito si dilungarono assai, senza mai raggiungere un grado di acutezza. Certo è però che il punzone attesta, collegato ad altre testimonianze precedenti, che il nome C. Aahiis dovette rappresentare una lunga serie di ceramisti operosi e noti in tutta la Campania, a un di presso come i Della Robbia durante una gran parte del nostro Rinascimento in alcune terre della Toscana, quelle più vicine all’Umbria.

È presumibile che la fabbrica principale e il centro maggiore della loro attività fosse nella città di Venafro. Dobbiamo la presenza di un punzone che toglie ogni incertezza sulla esistenza di una fabbrica di ceramiche campane di tipo ellenistico che ebbe per sede la nostra vetusta città. « Quale influenza  -conchiude nella sua dotta relazione il Maiuri-  abbia avuto Venafro nella produzione industriale delle ceramiche calene, è cosa che non possiamo ancora dire, prima almeno che lo scavo non abbia saggiato quella zona completamente sconosciuta: ma non è intanto senza importanza l’aver rinvenuto, in un centro finora ignoto alla produzione delle ceramiche  campane, un punzone a stampo con il nome del proprietario e industriale della fabbrica ».

Riteniamo intanto che anche una sola iscrizione, quando si dà la fortuna di apprenderne chiaramente il contenuto, basta ad illuminare fino i tempi più remoti, ci sentiamo confortati di vedere presto o tardi, e quando le ricerche saranno fatte con più assiduità ed in vasta scala, ricostruita, con aspetti meno frammentari e con più sicurezza di dati, l’antica vita della nostra Venafro. Il fatto che una città abbia all’attivo della sua storia una buona collezione epigrafica, ance se questa nel momento, tiene nell’inquieta incertezza e non alimenta che di oscure congetture è già molto. Champolhon, capitato nella spedizione napoleonica, in Egitto, a caso, scoperse una stele che sciolse per sempre gli enigmi del geroglifico. Noi ci auguriamo che questo accada medesimamente colle nostre iscrizioni, ancora di molto dubbia significazione e ciò sia per la maggior gloria del nostro paese e er l’onore e per l’incremento dell’Archeologia.

Quod est in votis!

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[1] Micali, L’Italia av. il dominio de’ Romani, Parte I, Cap. XVI.

[2] Notizie degli Scavi, anno 1913, fasc. 10.