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Giuseppe Cimorelli

 

EDIFICI MONUMENTALI DELLA REGIONE

(in Archivio Storico del Sannio Alifano..., Anno VII, nn. 19-20-21, 1922, pp. 15-30)

 

 

I. LE MURA PELASGICHE DI VENAFRO

 

L’antichità di Venafro fu celebrata da numerosi scrittori e storici d’ogni tempo. Della Campania felix Venafro è la città che conserva le vestigie più manifeste e insieme più pregevoli di una civiltà molto remota e oggi per noi scarsa nella conoscenza della sua reale compagine, vogliam dire della civiltà osca.

D’ordinario i centri che appartennero a questo periodo conservano e non tutti, soltanto qualche frammento della loro primitiva origine. Venafro invece serba dei segni ineccepibili della sua mirabile vetustà. La città osca è rimasta nella memoria dei posteri soprattutto per le mura ciclopiche, da cui essa era invariabilmente recinta.

Ci fu un tempo che da storici ed archeologi si sollevò lunga e dotta controversia intorno all’origine prima di Venafro. In vero il largo patrimonio di tradizioni e di preziosi documenti agevolò il lavoro d’indagine, impiegato con lodevole sollecitudine e con sagaci intendimenti dai molti studiosi, che o per incarico dello Stato o per iniziativa privata si dedicarono a ricomporre il meglio possibile la storia originaria della terra venafrana.

La Campania non mancò di grandi e piccole città, ove i caratteri di un’età civile e colta, servirono a confermare le innate virtù delle genti italiche; l’antica Venafro, benché abbia subìta la sorte che è data dagli edaci processi del tempo, nondimeno sopravvive ancora per memorie che la rendono singolarmente interessante sia nei riguardi dell’arte come della storia.

Nessun’altra città infatti che si trova alla destra del Volturno può vantare sì larghi tratti di mura pelasgiche, come Venafro. Lo spessore di queste mura è di due metri e mezzo; la parte anteriore risulta composta di massi calcarei poligoni, poggianti solidamente l’uno sull’altro in sì perfetto modo, che, nonostante privi di ogni sorta di cemento, non valsero i millenni a scomporli o ad abbatterli; la parte interna poi si costituisce di parallelepipedi di tufo calcareo. Giova avvertire che tra l’uno e l’altro ordine di costruzione, cioè tra il poligono di pietra calcarea e il parallelepipedo di tufo corre no spazio che è coperto da grossi ciottoli di pietra calcarea di ogni dimensione e d’ogni forma. Tale è la struttura dei residui di mura ciclopiche che tuttora si ammirano in vari punti della città di Venafro. Chi va dal Castello a piazza Milano e sèguita per via Vittorio Emanuele, indi da Porta Romana fino alla fontana di San Janno, s’imbatterà frequentemente nelle monumentali reliquie della antica città osca.

La rocca stessa posta sul colle, oggi detto di S. Leonardo, conserva notevoli traccie della sua remotissima origine; sono le stesse mura ciclopiche che si presentano con diverso disegno.

Ci si consenta di darne un succinto ragguaglio. I massi poligoni di natura calcarea che formano il muro esterno della rocca sono gagliardamente connessi e disposti in tal guisa da risultare in tanti archi non sempre di forma perfetta sovrapposti gli uni agli altri; e tale è la solidità dell’edifizio, che venuti a mancare alcuni massi sottostanti, nessuna alterazione ne è venuta alla consistenza dell’insieme.

La rocca, come si è detto, si erge sul declivio del colle e secondo quella che ci può dire la vestigia che tuttora resta, aveva tre terrazzi, sull’ultimo dei quali e propriamente su quello ov’era la Cittadella, era conosciuto con molta probabilità un tempietto, divenuto nei tempi posteriori, Cappella detta di S. Maria della Libera. Le mura inoltre che sostengono i due terrazzi inferiori sono essi pure di massi poligoni, soltanto che non sono lavorati e rifiniti nella parte anteriore come quelli del terzo terrazzo, cioè il più alto, nel quale, per certi segni, è facile supporre che in antico fosse praticata una porta.

L’intera area della Rocca segna mq. 8400, compreso, beninteso, lo spazio tenuto dai tre menzionati terrazzi.

Altri avanz di mura pelasgiche, come ad esempio, in luogo detto Portello, ora di proprietà dei Sigg. Mancini, si sono scoperti qua e là anche nelle adiacenze della città; e che noi per amor di brevità ci dispensiamo dal ricordare. Ci fa pertanto piacere di mettere in rilievo tanti dati che Venafro possiede e che costituiscono una preziosa rarità rispetto anche alle rimanenti città della Campania.

Quando più ferveva la discussione intorno all’origine di Venafro non era ancor forse nota quella moneta, che portava la scritta: Venafrorum, in lingua osca; detta moneta reca scolpito nell’una parte la testa di Apollo, nell’altra Acheloo coronato dalla Vittoria; un documento di siffatto genere proietta nell’oscurità della storia primitiva di Venafro un raggio di luce, che fa dissipare dubbi o ragioni di controversia. Già il Gravina esponeva, scrivendo ad Antonio Giordano, benché privo degli elementi di cui possiamo disporre noi oggi, il suo giudizio: “quae vero gens Venafrum condiderit ob nimiam eius antiqitatem non constat” ma non s’indugiava ad aggiungere: “in regionem igitur Campaniae felicissima Venafrum censetur ex antiquissima Italica Oscorum gente”.

Del resto non va altresì dimenticato che anche presso i Romani, cospicue ed ampie testimonianze fra gli scrittori latini non mancano, era comune ed unisona l’opinione che Venafro fosse città forse la più antica della Campania, non che fra le più illustri e di origine osca.

 

 

II. ACQUEDOTTO

 

Un’altra opera grandiosa ebbe compimento sotto il regime della Repubblica romana a beneficio e per l’abbellimento e la fecondità della terra venafrana. È a tutti noto quanto i romani tenessero a rendere ricche di acqua le loro città; essi innanzi tutto pensavano a provvedere l’elemento che per un popolo civile, diventa indispensabile. Difatti in ogni paese o contrada, dove ponevano stanza i Romani, la prima cosa a cui essi si accingevano era la costruzione di grandi terme; presso di loro ciò aveva assunto l’importanza di una pubblica istituzione. Ora, mentre a Roma l’affluire di tante sorgenti d’acqua si limitava ad essere un lusso o una comodità a scopo igienico, in provincia, e segnatamente in certe provincie, aveva anche lo scopo di rendere più ubertose le terre più vicine all’abitato.

Venafro non difettò mai di acqua, soltanto che nella parte più alta sarebbe potuto esserci una talquale scarsità, se i Romani non avessero costruito l’acquedotto, di cui restano tutt’oggi larghi tratti frammentari, e che contava per lunghezza circa 30 Km mentre la distanza in linea retta dalla città alle sorgenti del Volturno, che si trovano su di un altipiano a circa 500 metri sul livello del mare, misura in linea retta appena 17 km (l’acquedotto è alto m 1,80, largo m 0,75).

Della ciclopica costruzione in solida muratura fanno larga e chiara menzione molti scrittori come il Valla, il Monachelli, il De Utris, il Cotugno, il Garrucci nella sua celebrata “Venafro illustrata con l’aiuto delle lapidi antiche” e così altri che direttamente o indirettamente ebbero occasione di parlare della città campana. Ora purtroppo lo stato scheletrico, a cui è ridotto l’acquedotto non ci permette di ammirarlo nella sua primiera sontuosità; molte circostanze concorsero in processo di tempo a farlo deperire e prime fra le altre il decadimento della potenza romana e le successive invasioni barbariche; il che volle significare il graduale abbandono e la lenta rovina delle opere che avevano costituito l’orgoglio e la valentia di un’età eminentemente laboriosa e variamente geniale.

L’acquedotto in parola non finiva a Venafro, ma si prolungava oltre cinque chilometri ad una frazione chiamata Ceppagna, ove esistono ancora vestigia di mura pelasgiche, formate da massi parallelepipedi a strati orizzontali. Siffatto prolungamento, secondo me, sta a segnalare che la principale intenzione della Colonia venafrana nel costruire la grandiosa conduttura d’acqua era stata di giovarsene per l’irrigazione nelle stagioni di siccità delle terre situate in posti più elevati.

Come si è accennato più sopra, l’acquedotto venafrano, e in questo concorda il parere degli storici, fu costruito al tempo della Colonia che va sotto il nome di Giulia, quando cioè i veterani di Giulio Cesare (anno 712 di Roma), di ritorno da Filippi, per la munificenza di Ottaviano e di Antonio parteciparono alla divisione delle terre d’Italia.

È certo pertanto che l’acquedotto preesisteva al momento che Cesare Augusto emanò quel famoso editto, il più antico e quindi pregevolissimo fra quelli di cui fa menzione Frontino, editto che per fortuna nostra e per decoro delle nostre storiche memorie, è giunto fino ai tempi nostri quasi incolume ed integro quale in origine era stato dettato. Con questo insigne documento l’imperiale autorità ordina e dispone circa la conduttura e la distribuzione delle acque nel territorio della Colonia venafrana.

La grande tavola di pietra calcarea, dove è inciso il memorabile decreto d’Augusto, si trova attualmente conservato nell’atrio del nostro civico ospedale.

 

 

III. LE TERME DI VENAFRO

 

Non sono certamente le costruzioni gigantesche fatte erigere a Roma dagli imperatori: le terme di Venafro hanno ben più modeste proporzioni, atteso il numero limitato dei cittadini a cui dovevano servire. Non tanto per altro importa nel caso nostro tener conto delle dimensioni, quanto della certezza che siano sorte in diversi punti della città e fuori degli edifici per uso di pubblici bagni.

Difatti vestigia di costruzioni termali esistono in più parti delle adiacenze di Venafro, in contrada S. Aniello e sulle rive del Volturno. Quivi a circa 5 km da Venafro, ad oriente, su di un altipiano di tufo calcareo si trovano sorgenti di acque solfuree. Data la amenità del luogo e dato anche le virtù terapeutiche di quelle sorgenti, è facile immaginare come i Romani che ivi affluivano nella stagione calda per una quieta e sollazzevole villeggiatura, avessero pensato ad edificare terme d’importanza considerevole. Fino a questo momento i lavori di scavo in verità sono abbastanza indietro per farsi un’idea esatta dell’antica costruzione e per poter dire di possederne la pianta integrale. Che del resto valga la pena di procedere ad un siffatto lavoro lo comprovano, oltre l’autorevole giudizio dell’esimio Prof. Dall’Osso, i ruderi di un crittoportico che si trova a 110 metri da una vasca scoperta, e per altrettanti dal lato opposto, i ruderi che appartennero ad una palestra. Il Ministero frattanto, dietro istanza del Comune di Venafro e dell’altro limitrofo Pozzilli ha rimesso il compito di fare un preventivo delle spese per i relativi scavi alla direzione del Museo di Napoli.

Quello che fino ad ora si è potuto conoscere, si deve principalmente al merito del già menzionato Prof. Dall’Osso, incaricato dal Ministero della Pubblica Istruzione di studiare sul luogo le rovine delle nostre Terme. Però giova ricordare che fin dal 1842 furono rinvenute tracce di oggetti ornamentali e che ebbero diretta attinenza con le antiche Terme. Infatti nel detto anno l’arciprete Salzillo, presso una vasca bagnatoria di marmo rinvenne un mezzo busto, di cui fece dono al Duca Marotta. Si è inoltre potuto accertare che queste statue a mezzo busto erano state poste qua e là vicino a ciascuna sorgente come insegna, diciamo così, delle speciali virtù caratterizzanti le signole fonti. Infatti ogni busto additava con l’indice della mano destra, l’arto, la cui malattia quell’acqua guariva. Prima che il Prof. Dall’Osso ispezionasse le vaste rovine (circa tre km di lunghezza) che vanno fin sotto l’abitato di S. Maria Oliveto, a nessuno era venuto in sospetto che ivi un tempo fossero fiorite le Terme delle nobili e ricche famiglie romane, a nessuno era balenata l’idea che ivi una volta fosse il rigoglio di tanta vita, e che quel luogo fosse stato animato da tanto concorso di gente, attratta oltre che dai benefici delle provvide acque, anche dalla salubrità e dalla gaiezza del soggiorno, pieno di luce e di sole. E che siffatte Terme fossero in prevalenza frequentate da gente patrizia, e che quindi il grande edificio presentasse l’aspetto di un ritrovo elegante e adorno di molte comodità, lo attestano i frammenti che sono stati rinvenuti in larga copia, di musaici, ornati in stucco a motivi che rilevano un gusto artistico squisito, di bicchieri, di vetri e di patere aretine, che non erano certo nell’uso comune del popolo.

Senza dire poi che abbondano più qua e più là confusi alla terra e a pietre, informi pezzi di marmi assai preziosi, forse residui di cornici ornamentali, di colonne e di capitelli asportati, di vasche frantumate di statue abbattute.

Secondo il prelodato Prof. Dall’Osso i ruderi che si ricollegano alle terme tuttora in gran parte nascoste fra i rottami e coperte dalla terra, dovevano appartenere ad una costruzione che risale al II Secolo d. C. e che servì probabilmente di sostegno ad un acquedotto che alimentava le terme delle acque, prese al rapido Volturno, acquedotto, di cui tenemmo parola poco fa nel corso del presente lavoro. Per ultimo crediamo opportuno di notificare i risultati conseguiti dall’egregio ispettore Dall’Osso, in seguito al diligente studio da lui compiuto, durante la sua visita ai resti delle terme di venafro. Egli seguendo le tracce dei ruderi poté venire a conoscenza del punto dove era posto il castello acquario, simile a quelli rinvenuti a Pompei, e alla distanza di 6 metri e mezzo furono scoperte due vasche, una a forma di cunicolo e l’altra notevole per le sue dimensioni, tli che finore non se ne sono trovate simili. Per quanto il lavoro di ricerche non sia che nel suo inizio, possiamo nonostante arguire che il disegno della costruzione dovette avere larghe proporzioni, più assai di quello che a prima vista non sembri. Basti dire che le dette vasche distano dalle sorgenti solfuree circa 60 metri e che l’esedra a due porte, riccamente decorata di marmi e di pitture, meno belle e perfetti di quelle dell’età aurea, sorge a distanza di quasi 40 metri dalle medesime.

I dati qui esposti, benché pochi e succinti, danno, nonostante, da vedere quanto importante sia, e quanto urga che chi presiede alla tutela e all’incremento dell’arte e del nostro ricco patrimonio archeologico proveda seriamente o con criteri definitivi all’esumazione di un monumento che concorrerà certo ad arricchire di nuova luce la storia di Venafro e insieme della regione Campana.

 

 

IV. TEATRO

 

Oltre che di un anfiteatro, di cui parleremo più tardi, la città di Venafro va gloriosa altresì di un teatro, i cui ruderi sono tuttora visibili in un oliveto del Sig. Giacomo Acciaioli, posto nei pressi del civico abitato. L’edificio porta tutti i caratteri del teatro greco; è appoggiato difatti ad un fianco della collina, sì che le gradinate in gran parte sono interrate.

Le sue dimensioni sono alquanto considerevoli; la scena misura 30 metri e la cavea aveva il diametro di metri 50.

Tutto fa prevedere, che dato il suo interramento in epoca remota, con un lavoro paziente di scavo, sia possibile ristabilire non solo la forma primitiva del teatro, ma eziandio trovare intatta tutta la parte inferiore. Il Prof. Dall’Osso nella circostanza della sua venuta per la visione delle terme, fece fare alcuni assaggi anche al teatro greco; ma, non prestandosi il momento, non si poté dai medesimi dedurre altro che il detto teatro alla stessa guisa di quello di Pompei, era addossato alla collina e che quindi i primi gradini della cavea erano poggiati sulla terra e gli inferiori erano in fabbrica. Il Prof. Dall’Osso opina che il tempietto di Bacco come tutta la parte riservata alla scena siano ben conservati. Come si è detto, i saggi praticati, presente il Dall’Osso, sono stati troppo superficiali, per conoscere qualche cosa di più preciso e di più importante; però si poté stabilire almeno questo, che cioè il teatro era fin dall’origine a due precinsioni fra le quali correva un balteo, donde sboccavano gradinate e vomitori.

Chi scrive vagheggia da vari anni l’idea di costituire una società tra i cittadini di Venafro, sinceri ed operosi, amatori delle cose patrie; se questa idea potrà esse un giorno tradotta in realtà, il primo compito della novella associazione sarà quello di trarre alla luce il teatro di Venafro. È pertanto da augurarsi che il governo stesso non attenda di essere preceduto da una iniziativa privata per il lustro delle nostre avite glorie e per il vantaggio della nostra storia artistica.

 

 

V. ANFITEATRO

 

Venafro come si è detto, fu sede di una delle più fiorenti colonie romane della Campania Felix e quindi non poteva, né doveva mancare di quelle istituzioni e di quei pubblici edifici che caratterizzarono le iniziative dei gloriosi conquistatori del mondo.

Tutto quello che vi è di antico in Venafro si trova allo stesso grado di deperimento o meglio allo stato di rovina. Anche l’anfiteatro non è ridotto che un immenso rudere, il che pertanto non impedisce che l’occhio di chi lo considera avverta l’ampiezza dell’arena calcolata nel suo diametro massimo di 75 metri, ed essendo l’edificio di forma ellittica, nel punto più stretto segnava oltre i 55 metri, con una circonferenza di m 195, senza tener conto dei podii, dei sedili, delle gradinate e delle mura esterne, che tutto compreso veniva ad occupare uno spazio periferico di 265 metri.

Come si vede, per quanto le condizioni dell’anfiteatro siano quelle di una vestigia abbandonata e sconvolta, tuttavia restano ancora elementi sufficienti per rilevarne preciso il primitivo disegno. Di questo anfiteatro molti scrittori ne danno notizia tra cui nella sua grandiosa opera l’Ughellio (Vol. VIII): “Venafrum amplum habuit amphiteatrum ad gladiatorum ludos, eius vestigia adhuc supersunt, plurimaeque prostrant marmoreae iscriptiones, quae indicant, quanta fuerit hoec civitas Romanorum tempore...” Apparentemente l’edificio è completamente trasformato, poiché vi si sono costruite sopra case, sì che esteriormente non c’è rimasta che l’antica forma ellittica.

Come e quando sia sorto il grande edificio nessuno e nulla è in grado di poterlo rivelare con precisione di dati. Soltanto che un’iscrizione può darci un po’ lume su questo punto.

Detta iscrizione, frammentaria anch’essa, suona così:

 

Voto  -  suscepto.

Salute perpetua Domus

August  -  cum  -  edidisset

Munus  -  Galdiatorium

Populus in Statuam  -  cont.

Q. Vibio. Q. Caesi  -  F. Ter Rustico.

 

Diversi archeologi si sono provati a ricostruire il senso di tale documento scultorio; ma chi, a parer nostro, sembra si sia più avvicinato al vero, è stato il dotto nostro Garrucci, il quale la raccolse e la illustrò nella sua celebre opera: “Venafro illustrata con l’aiuto delle lapidi antiche”. Secondo dunque il giudizio dell’insigne archeologo, nella parte che manca, l’epigrafe dice forse dell’autore e del tempo in cui l’anfiteatro fu costruito, da quello inoltre che ci è pervenuto risulta che Quinto Vibio magistrato del tempo concorresse col consiglio e col denaro all’opera del sontuoso e pubblico ritrovo.

Il nome della famiglia di Quinto Vibio è in varie iscrizioni ricordato e sempre a proposito degli spettacoli dati o che si dovevano dare nell’anfiteatro. Si ricorda in una di quelle, come lo stesso Quinto Vibio, onde propiziare la grazia degli Dei in pro della salute di Augusto, colto da infermità facesse voto di indirizzare gladiatorie nell’anfiteatro di Venafro; sì che sciolto il voto e risanato Augusto, il popolo eresse, a rammemorare il fatto, una statua in onore di Quinto Vibio. Pare che questa solenne circostanza desse motivo a fare scolpire un magnifico anaglifo, dove sono rappresentati i gladiatori messi tra loro in gara.

Sì prezioso monumento, rinvenuto nella masseria Cimorelli, sembra che abbia fatto parte di un’urna funeraria, di cui non si ha più alcuna traccia. Il Garrucci, come per ogni altra cosa che riguarda l’antichità della nostra città, ha illustrato con intuito e dottrina l’anaglifo, di cui testé abbiamo tenuto discorso.

Quando si danno città così di memorie antiche, come Venafro, si prova come una mortificazione ed una angustia allorché o non ci sono dati i mezzi per procedere all’attuazione del nobile disegno di metter in luce la vita dei tempi remoti o si accoglie con lentezza ed indifferenza ciò che potrebbe portare un gagliardo contributo alla conoscenza meno frammentaria delle origini della nostra arte, del nostro costume e delle nostre istituzioni.

Converrebbe d’altra parte riflettere che scorrendo il tempo, vengono talora a sfuggire puranco le migliori occasioni, onde sottrarre alla terra e al tempo gli ultimi aliti di una vita e di una grandezza trascorsa che ancora sono riposti fra le rovine delle nostre contrade. Quanta maggiore benemerenza noi avremmo potuto acquistare rispetto alla nostra storia, se ci fossimo mostrati più solleciti dei tesori che le terre nostre tengono da secoli tenacemente ascosi.

 

 

VI. CHIESA CATTEDRALE

 

Prima di chiudere la nostra esposizione non sarà fuori di luogo che si dia un cenno intorno alla chiesa principale di Venafro.

Come ora si presenta detta chiesa potrebbe a prima vista anche non interessare il pubblico degli studiosi poiché in verità tali e tante sono state in processo di tempo le trasformazioni che poco è rimasto dell’antico tempio cristiano. Lo stile è longobardo-bizantino, stile comune al maggior numero delle nostre chiese; l’edificio sacro fu eretto sulle vestigia di un tempio pagano, dedicato alla Dea Bona. Tale è la tradizione, ancora confortata dalla tenuissima impronta, rimasta dall’originaria antichissima costruzione. Forse non riuscirebbe infruttuosa una esplorazione a questo riguardo, un giorno che per altra causa si dovessero eventualmente fare dei saggi sull’area occupata dalla nostra Cattedrale.

La chiesa nel suo interno ha un’architettura prettamente medioevale; le colonne non sono né di grande mole, né molto sviluppate, e nei capitelli e nelle colonne sono scolpiti a basso rilievo i simboli più stravaganti e più immaginosi, raffiguranti le pene delle anime nel purgatorio e nell’inferno. Non importa dire che in quei disegni non c’è che il rude simulacro di un’arte, sopraffatta da un misticismo fatto di terrori e di allucinazioni; il medioevo è riflesso in quelle grottesche figure come l’età che per eccessi di pietà religiosa, trascese, andando al di là di ogni legge estetica e d’ogni ispirazione artistica.

Nel 1698 ad iniziativa del Vescovo Carlo De Massa fu rinnovato il pavimento, furono imbiancate le pareti e stuccate le colonne,e quel che è più grave, varie iscrizioni disparvero per la mano profana ed incosciente dei restauratori.

Al pavimento antico in pietra calcarea fu sovrapposto un altro di mattoni, alla varietà delle figure fu sostituito l’uniforme colore del bianco e degli stucchi; al carattere austero impresso dal concetto originale e dal corso dei secoli, succedette un lavacro generale che mentre non addusse verun avvenimento, deturpò la storica e pregevole fisionomia di un vero e proprio monumento. Dietro tanta rovina rimasero saldi o almeno meno danneggiati i bassorilievi degli imbasamenti delle colonne, dove tuttora si ammirano le figure di aspidi, di dragoni, di grifoni e di altre simili bestie in gran parte create dalla fantasia esaltata dei secoli medioevali. Due mostri della stessa specie e fattura si vedono anche nei lati più alti della porta centrale del tempio. All’esterno non c’è nulla che sia degno di essere messo in rilievo; solo che nel campanile, in quella parte volta a Nord, si scorge un bassorilievo attribuito al V secolo e che rappresenta Costantino, il primo vescovo di Venafro, del quale parla l’Ughellio, e che figurò nel Sinodo tenuto nell’anno 499.

La nostra Cattedrale ha incorso la triste sorte di tutte le chiese, specie dell’Italia meridionale; i secoli XVI e XVII per questo rispetto furono fatali all’arte nostra; sia pure che il Medioevo, età durante la quale furono edificati il maggior numero dei tempii cristiani, abbia avuto dei torti e delle mende rispetto all’arte; ma non per questo è giustificato il barbaro gusto, invalso più tardi di stemprare le alte concezioni, benché rigide ed eccessivamente fantasiose, con decorazioni affastellate, con stucchi monotoni, e coll’idolatria del bianco.

Se alla nostra chiesa madre si potesse quando che sia, ridare la sua primitiva forma, ci sentiremmo di aver soddisfatto ad un desiderio suggerito non soltanto da un sincero amore per le cose cittadine, ma sibbene avremmo il conforto di aver restituito al patrimonio nazionale, un’opera d’arte, che, modesta che sia, ha peso e valore per la storia dell’edilizia sacra del primo millennio cristiano. Grandi sorprese e rivelazioni sarebbe puerile aspettarsele; non è da pensare né ad un giudizio universale di Bourges, né ad un inferno di Strasburgo o di Orvieto; però non siamo alieni dall’affermare che la Cattedrale di Venafro rimessa con un saggio e diligente lavoro al suo stato primiero, potrebbe entrare a far parte delle nostre ricchezze artistiche come monumento nazionale.

Al termine del compito cui mi accinsi con il presente elenco faccio voti perché la conoscenza da parte di chi può agire nei riguardi della nobile ed antica città di Venafro, conduca ad una provvida e risoluta disposizione che mentre darà lustro e fastigio alla patria archeologia, allieterà l’animo della cittadinanza venafrana e obbligherà ai sensi della più viva riconoscenza coloro che da tanti anni si adoperano per l’esumazione di tante manifestazioni di vita civile ed intellettuale svoltasi in tempi remotissimi.

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