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Nicola Borrelli

 

UNA GALLERIA D’ARTE A SESSA AURUNCA NEL SEC. XVIII

(in Archivio Storico del Sannio Alifano e contrade limitrofe, Anno III, n. 7, 1918, pp. 21-28)

 

 

 

Accolsi il manoscritto, ingiallito e polveroso, con un senso di sollievo. L’esumazione di vecchie carte, sulle quali s’era abbattuto il ciclone devastatore di barbari...roditori, mi faceva rivivere qualche secolo di servaggio e d’intrighi di Sessa feudale. Nella ridda di date, di rogiti, di dispacci, di decreti; nella sfilata di nomi di Nobili, di Magnifici, di provvidi, ero passato attraverso le compravendite della Fedelissima, gl’imbarazzi economici dell’Ill.mo Signor Duca D. Consalvo II di Cordova; le dispute dei Nobili della città coi pretendenti... al Seggio di S. Matteo. Memorie, ristretti di ragioni, estratti di provisoni, decreti del Tribunale del S.R.C., del R. Collaterale, della R. Camera ecc., eran passati così dinanzi ai miei occhi; o eran verbali dell’Apolita per le elezioni dei Sindaci, del Giudice della Bagliva, del Portolano, dei Grassieri. E le vecchie carte, ingiallite e rôse, le antiche scritture, iniziate dalla sigla acclamante I.M.I., chiuse dal geroglifico ghirigoro del tabellionato, recavan seco loro un alito greve ed opprimente, nelle memorie oscure e spesso ingloriose. Cosicché il manoscritto inatteso e discorde, dal titolo semplice e simpatizzante, mi arrecava un vero sollievo; ed avevo letto subito, mentre la fronte doveva rasserenarsi come all’uscire da un oscuro ed intrigato labirinto, il titolo promettente: Superba Galleria sessana ricca di ritratti favolosi ed istorici dipinti da varii celebri autori con passi della Scrittura adattati dagli autori ed alle Istorie. Titolo promettente come si vede, specie per chi, una volta, si sia occupato d’arte; onde le mie ricerche per ben altro, e che mi ricondurranno forse un giorno a riparlare di Sessa, si arrestarono, per un momento, dinanzi al manoscritto rivelatore di una Superba Galleria sessana [1].

L’istituzione d’una Galleria d’arte a Sessa, in quel periodo  -intorno cioè al 1750-[2]  lascia supporre come ancor ivi dovette risentirsi di quel  movimento artistico che caratterizzava un risveglio della pittura, irradiantesi di nuova luce mercè gl’intendimenti degli eclettici e le riforme apportate dal Carracci. Collo studio dei grandi maestri e delle diverse scuole di qualche secolo innanzi  -il secolo d’oro dell’arte italiana-  e con l’affermarsi di nuovi criteri, un più vasto campo di operosità s’era andato schiudendo innanzi agli artisti del 700 ed ai pittori in ispecie; e mentre, per esser la pittura in Italia assservita quasi alla Chiesa, nei soggetti religiosi e sacri si spaziava l’immaginazione degli artisti, nuove ispirazioni e nuovi soggetti si cercavano nella vita reale, addivenendosi, man mano, a quel realismo, in cui furono maestri il Caravaggio ed il Ribera. Per seguire forse quel movimento innovatore dell’arte pittorica, ovvero per altra ragione più semplice, che in seguito potremo dedurre, dovettero gli artisti, fondatori della Galleria, in maggior parte sessani, prescegliere, per le loro opere, soggetti mitologici e storici. Potrebbe anche darsi che ben altra che quella che noi dedurremo ne sia la ragione e che la vera ci sfugga; ma, comunque, è certo curioso notare come in quel periodo, in cui tra i cattolici ebbe si grande sviluppo l’arte religiosa, un soggetto sacro o mistico o simbolico cristiano, si cerchi invano tra le ottantasette opere costituenti la Galleria sessana.

Ancor oggi, è vero, si è soliti escludere dalle pubbliche mostre e Gallerie soggetti religiosi: e le ragioni ne sono evidenti. Spiacerebbe anzi tutto all’occhio e al sentimento trovar collocato presso un Cristo Crocifisso la scena d’un Baccante romano, ovvero accanto alla figura ascetica e spirituale d’un Santo in orazione, una folleggiante teoria di fauni e ninfe. Di più, n limitato numero di osservatori s’interesserebbe a quei soggetti; giacché d’altra fonte son le emozioni e le commozioni, che i più dall’arte si attendono. Altrove e meglio  -nei tempi cristiani, in ispeciali pinacoteche e musei-  è dato alimentare, nella propria anima, la gran fiamma della spiritualità e della Fede. Né il sistema sembrerà meno opportuno ove si consideri il diverso indirizzo dell’arte religiosa ed il concetto di essa che s’andò imponendo alla coscienza degli artisti. Una ben diversa missione ha infatti l’Arte religiosa; e perché essa possa far vibrare le più ascose fibre e toccare più vivamente le corde del cuore e del sentimento, occorre sacrifichi al realismo trionfante anche, talvolta, a scapito della linea, della forma, del colore. « L’idealità ed il sentimento  -dice Giacomo Previati-  van oltre la gamma del colore e le regole del compasso ». E mi ricordo di questo pittore idealista, che, dopo l’esecuzione d’uno dei suoi quadri migliori, se ne mostrava scontento, e rimpiangeva le sproporzioni del bozzetto, che aveva per lui una potenza di sentimento maggiore di quel che non avesse il quadro finito e perfetto. Ma ove l’artista si lasciasse guidare unicamente dal sentimento, e quando non tutti siano dei Previati, ove andrebbe a finire l’arte? E se anche tutti arrivassero ad esprimere e comunicare il sentimento, appagherebbe questo il pubblico eteroclito, profano e buongustaio che popola le esposizioni e le Gallerie?

E ritornando, dopo la digressione, alla Galleria sessanta, non va detto altrettanto.

L’arte di un secolo e mezzo fa non era quella di oggi, libera e sconfinata nella tecnica e nei soggetti: l’arte dei veristi, degl’impressionisti, dei luministi, dei divisionisti, dei cubisti, dei futuristi… l’arte, cioè, slegata dai ceppi dell’imitazione, del precetto, del canone e… della Chiesa; peperò le vedute e gl’intendimenti degli artisti d’oggi, ben diversi da quelli d’altri tempi. Ond’è che la completa esclusione di opere a soggetto sacro o mistico dalla Galleria sessanta, quando la più grande manifestazione aveva in Italia l’arte religiosa e specialmente nella pittura, e quando i nobili della città di Sessa (i fondatori, come in seguito diremo, della Galleria) reclamavano dalla R. Giurisdizione il diritto di prendersi l’asta del Pallio nella processione di S. Leone Protettore, ovvero di assistere alle prediche di Quaresima dal solito scanno come da R. Dispaccio mostrando così il conseguente e naturale attaccamento alla Chiesa, dà adito, dicevo, tale circostanza, alla supposizione di un preconcetto o di una finalità, che a noi sembra sfuggire. Né è a credere che in quegli artisti fosse maggior fonte d’ispirazione la Mitologia o la Storia, che non la Religione e la fede cristiana, dal momento che a tutte le opere corrispondono passi illustrativi tratti dalla Bibbia, la quale avrebbe potuto esser fonte inesauribile d’ispirazioni religiose. Del resto non è qui il caso, né nel mio intendimento, fare induzioni al riguardo: il che sarebbe far dell’esegetismo inopportuno ed ozioso. Le considerazioni ora fatte, vennero spontanee di fronte al connubio della Mitologia e della Bibbia, di cui s’imprime il carattere dell’arte nella istituzione sessana.

Il mio modesto compito, invece, è di render noto quanto dal vecchio manoscritto è dato rilevare; e ciò farò introducendo senz’altro il lettore nella Superba Galleria sessana. In cui, secondo il redattore del manoscritto informa, si veggono maestrevolmente situati più ritratti e quel che vi è scritto in cadauno è in caratteri d’oro.

Sulla porta della Galleria si legge: Cunctae res difficiles: non potest eas homo esplicare sermone. Error et tenebrae peccatoris congregata sunt.

Entriamo dunque, e ci troviamo di fronte ad una prima opera di D. Bernardo di Lorenzo, il velo: “Ritratto di Ocno condannato all’inferno a continuamente torcere una fune, e questa fune vien corrosa da un’asina”. Il quadro reca il seguente passo illustrativo tratto dalla Scrittura: Ve duplici corde, et labiis sceleptis; perdentes oculos qui loquuntur mendacia.

L’opera del di Lorenzo è seguita da una scoltura, in pietra focaia, di D. Saverio Zattera: “Ritratto del Cavallo Gerione il quale fu il primo che cacciò la Terra per aver quella battuto Nettuno col suo tridente accoppiato con Fetente cavallo del Sole, i quali si veggon regolati da Vertunno dio dei Romani che cangiatasi in tutte le forme. Illustra l’opera il seguente passo: Qui animam confidat cogitationibus suis impie agit.

La terza opera, in tela di stoppa, è di D. Simone Struffi: “Ritratto di Eritreo, che Minerva allevò, fu celebre cacciatore, avvenne che un Drago attorniato avea suo figlio Alcone, e gli tirò una saetta, e uccise il Drago senza toccare il figlio: In ore fatuorum cor eorum.

Leggiamo indi i nomi di D. M. Saveria di Lorenzo e D. M. Gius. Grimaldi; di D. Andrea di Lorenzo; di D. Giuseppe Gattola; di D. Nicola Piscicelli; del Marchesino Coregliano; del Sig. Russolillo; di D. Metilde Gaetano; di D. Cesare di Transo; di D. Marco Ant. di Transo. I due ultimi si presentano con due soggetti storici: il primo col “Ritratto di Mummio il quale avendo appaltato (sic) la condotta delle statue e quadri da Corinto a Roma voleva obbligare li conduttori a restituirle nuove se a caso perissero”; l’altro col “Ritratto di Apicio romano, famoso per la gola e di Gnatone parasito seduti insieme.

Seguono ancora i nomi di D. Anna M. Filioli; di D. Pietro di Transo; di D. Michele Cangiano; di Mons. D. Ant. Torres; di D. Francesco de Renzis; di D. Gaetano Lettieri e D. Luigi Gattola; di D. Carlo Cornelio e Sigg. Gattola; di D. Paolo Ricca; di D. Colomba Rossi e D. Giulio Granata; di D. Giuseppe di Transo; di D. Giovan Battista Struffi; di D. Metilde Gaetano e D. Mariangiola Beatrice; di D. Nicola di Paolo e D. Bernardo di Lorenzo; di D. Ant. Monarca; di D. M. Gius. Paschale e D. Rosa Gravante; di D. Camillo Gattola; di D. Nicola Gaetano e D. Marco Ant. di Transo; di D. Francesco Faraone; di D. Maria Sav. di Lorenzo; di D. Nicola e D. Carlo Gaetano.

Non potendo di tali opere stabilire il merito ci soffermiamo, così a caso, dinanzi a qualcuna. È questo un quadro, in tavola d’olmo, di D. Antonio Monarca; rappresenta “Clauco figlio d’Ippolito il quale mutò le sue armi d’oro con quelle di rame”. E così commentato: Cor fatui quasi vas confractum. Quest’altro dipinto, in tavola di lovere, (sic) e di D. Camillo Gattola: “Ritratto di Narciso figlio di Cesife (Cefiso) e di Lireupe (Liriope), amato da tutte le Ninfe, tra le quali Eco per non esser corrisposta seccò di dolore, vedendosi egli la prima volta in un fontale alla sua immagine si accese di tal amore, che piangendo ivi morì di disagio”: Vir imprudens et errans cogitat stulte.

E ci soffermiamo ancora dinanzi al… “dio Occipone protettore di quei che occupano gli altrui beni”. Di quest’opera ricercheremmo invano l’autore: si tratta di un forestiero, giacché il redattore del manoscritto, poco edotto, non sa dirci altro se non che l’opera “è di quei che confinano col Demanio”.

Continuando il giro della Galleria, leggiamo successivamente i nomi di D. Francesco Faraone; D. Girolamo Falco; ancora D. Francesco de Renzis ed il Marchesino Corigliano; D. Agnese Ernandez; e di nuovo D. Bernardo di Lorenzo. Poi D. Anna Filiò; D. Annella di Lorenzo; D. M. Grazia Pellegrino e D. Gaetana Russulillo; D. Paolo Ricca; D. Rachele Grimaldi; D. Giov. Rotondo; D. Francesco Micillo; Can. Assaccareccia. Questi si presenta con un bronzo: “Ritratto di Aristarco Grammatico il quale a suo capriccio cassava li versi d’Omero”. Non contradices (?) verbo veritatis ullo modo, et de mendacio ineruditionis tuae confundere.

Seguono indi le opere di D. Erasmo Vitale, del Can. Assaccareccia, Can. Cornelio e D. Pietro Marino, collaboratori in un’opera in piperno: Ritratto dei Popoli di Caria gente rozza e grossolana”; e poi le opere ancora di D. Giuseppe Ricciardi, D. Agostino Frangente, del Can. De Meo, dei Can. Verrengia e Cecere, di D. Giustina Giannattasio e Can. Codella, del Can. Mercadante, di D. Nicola Sessa, di D. Antonio Gramegna, di D. Catarina Farati e di altri ancora.

L’ultima opera, che chiude il giro della Galleria, è un dipinto, in tavola di fico, eseguito, in collaborazione, da tre membri della famiglia Gramegna, aventi tutti e tre l’istesso nome di battesimo. Quindi l’opera è di Giacomo, del Sig. Giacomo e di D. Giacomo Gramegna. Si tratta del “Ritratto della Dea Babone che ha cura dei bovi”: Non anxius esse in divitiis injustis. Non proderunt tibi in die obductionis et vindictae.

E il giro è al termine. Ma, prima di lasciare la Galleria occorre volger lo sguardo sotto la volta di essa, ove vi sono con simetria dipinti tutti li ritratti dei descritti autori di tali opere meravigliosamente imitati al naturale, colla seguente iscrizione:

 

Tres species odivit anima mea et agravat valle anima illorum

Pamperem superbum, divitem mendacem, senem fatuum et insensatum

Qui odit correctionem vestigium est peccatoris.

 

Dalla surriferita leggenda, e dal complesso dei soggetti che costituirono le opere della Galleria sessana, è dato argomentare  -ed è l’unica spiegazione che trovino le mie premesse-  che, prescindendo da ogni altra ragione e da ogni altra finalità, gl’istitutori della detta Galleria non altro si proposero che uno scopo prettamente ed esclusivamente didascalico. E, infatti, in ogni opera un esempio, un monito, un consiglio, che non poteva suggerire che la Bibbia, ma che per una più efficace, materiale espressione, non potevasi che riferire alla Mitologia, la fonte inesauribile di tutte le passioni, di tutte le colpe, di tutte le aberrazioni umane, ma, nel tempo stesso, delle pene ed i castighi, che quelle punirono o purificarono; ovvero si ricorse alla Storia  -magistra vitae-  dagli esempi reali ed ammonitori. Alla Mitologia dunque ed alla Storia si adattarono gl’intendimenti degli artisti, ed i propositi dell’artistica istituzione: nel Mito, che è storia ancor esso: storia oscura e dispersa dalla remota umanità, nel Mito attraverso il quale gettavansi le basi delle antiche religioni. E ciò, se non forse l’eclettismo delle anime semplici e modeste, spiega, a parer mio, lo strano connubio della Mitologia e della Bibbia nelle opere della Galleria sessanta.

Ma… e degli artisti? Furono essi solamente dei dilettanti, ovvero, se non tutti almeno alcuni, vere tempre capaci d’intendimento d’arte? E quali ne furono le qualità artistiche, quali i pregi delle loro opere? Invano lo si chiede al manoscritto rivelatore: esso resta, in ciò, la sfinge inscrutabile e muta.

Ma ogni operosa attitudine, ogni tentativo di risveglio intellettuale, ogni palpito d’idealità ottiene agli eletti, che ne furono privilegiati, ammirazione e plauso; ma quanto più vorremmo conoscere di quegli artisti, cui fu dovuta la Galleria sessana! E quanto grato sarebbe contestare all’oblio quelle nobili, e sian pur modeste figure d’intellettuali, che, pur dibattendosi nelle spire d’un ultimo vassallaggio, seppero conseguire un intento, che era mezzo e finalità encomiabili: Estogliere dalla frivola e mondana oziosità, illuminare ed ammaestrare, con visioni di pensiero e d’arte, la avvilita e quanto minuettante società settecentesca.

Che in Sessa fosser fioriti tanti artisti o cultori d’arte, non avevo avuto finora opportunità di apprendere; e credo che a pochi la circostanza sia nota. Al primo sguardo anzi, gettato al manoscritto, pensai a confusione di quel redattore che, data la poca proprietà di linguaggio dimostrata, avesse potuto usare la parola opera per donativo ovvero contribuzione per l’istituenda Galleria; così come usava il nome ritratto per ogni soggetto trattato dalle opere quivi figuranti. Ma dovetti subito ricredermi per le circostanze rilevate dalla più attenta lettura: il ripetersi di alcuni nomi, che, nella prima ipotesi, non sarebbe avvenuto, giacché le opere sarebbero state complessivamente elencate al lato del nome del donatore o depositante; le parecchie opere eseguite in collaborazione, e cui si riferiscono due tre e fin quattro nomi; l’altra circostanza ancora che l’opera è talvolta in tela di Roccamonfina o in creta di Cascano[3]. Non vi è dunque alcun dubbio che si tratti di autori in maggior parte sessani; anche quando la circostanza che li ritratti dei descritti autori maestrevolmente dipinti al naturale sotto la volta della Galleria, possa far pensare ai fondatori di essa come ho detto, ai donatori cioè o depositanti delle opere per possibile confusione.

Dopo l’ideal giro per la Galleria, ancora un vuoto ne resta: qualche cosa in più si sarebbe amato conoscere circa le opere delle quali è poco conoscere il titolo e l’autore. Ma anche di esse, come degli autori, il manoscritto tace; e se il redattore del ms. qualche cosa vuol dirci in proposito, non va oltre la circostanza che l’opera sia in tela di stoppa, o di sacco, o grinza, o d’ustica, o che è in filatessa o fustagna colorata; ovvero che è in vetro o cartastraccia; o in tavola di quercia, d’olmo, o di fico; o di marmo, di piperno, di selce, di creta cruda. Ma ciò non preme. Ciò che preme è che gli autori di quelle opere, quali esse siano rivivano nella memoria e nell’ammirazione dei posteri; e che tra costoro sia l’oscuro sottoscritto, che in ogni rievocazione del passato (ah! Marinetti… ) aspira il profumo triste e dolce come dei vecchi fiori  -ricordo di remote primavere-  rintracciati nelle pagine ingiallite di vecchi libri…

Nella mente che sogna, nell’animo scontento, innanzi a cui ogni immagine, ogni fantasma ogni ombra sembra vanire in un rimpianto, passa nostalgico il verso del Poeta: Sol nel passato il bello… E questo fu, sempre, in ogni sforzo verso un’elevazione, nell’esaltamento d’un non comune intento nell’opera, pur modesta, d’idealità.

Ed in me si ridesta, al pensiero di quel periodo d’arte a Sessa, in quel torno del 700, quando città e popoli subivano ancora l’onta d’un vergognoso servaggio, ed imperavano le “quattro lettere arbitrarie, pel buon governo dei vassalli” in me si ridesta dicevo, l’immagine di quegli eletti, che seppero ordir la trama d’una compensazione all’incombente e avvilente feudalismo. E penso, non so perché, andando più in là a quell’oscuro medioevo dalle belle castellane bionde e diafane come fiori di serra, e da quei cavalieri intrepidi, intenti a cavar dal cembalo o dalla spinetta l’ultima canzone dell’errante menestrello, e le altre a far brillare la gugliata d’oro sul serico ricamo, mentre, nelle sale remote del castello, fedeli vassalli ed operose ancelle preparavan cimieri ed alabarde e giustacuori, o forbivan corazze e lancioni e speroni d’argento…

E ciò perché tutto un giorno passasse… e, col fiorire di gentili cure, il furore d’armi vendute, le brame, le ignominie…

 

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[1] La completa dichiarazione del ms.-inventario formerà oggetto d’una prossima pubblicazione.

[2] Il ms. è senza data; ma documenti sincroni permettono di assegnarlo appunto alla metà del sec. XVIII.

[3] Roccamonfina e Cascano sono villaggi prossimi a Sessa.